Ci sono articoli che dovrebbero servire...
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Ci sono articoli che dovrebbero servire...
...se utilizzati opportunamente, cosa che certa gentaglia non capisce, a far smuovere la discussione.
Ho intenzione di postarne almeno uno al giorno in questo forum, senza tralasciare, quando sia opportuno, gli altri temi che già ci sono.
Ecco il primo, spero vi faccia discutere.
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Boomerang
Scritto da Davide Giacalone
mercoledì 24 novembre 2010
L’unico che può ragionevolmente festeggiare la sconfitta del governo, ieri alla Camera, è il nuovo parlamentare europeo cui andrà il seggio in più, assegnato dal nuovo Trattato. Un uomo dell’Udc. Per il resto, c’è poco da manifestare contentezza: il governo incassa una sconfitta irrilevante (si era rimesso all’Aula ed era questione di nessun peso), ma addossa ai finiani la responsabilità dell’accaduto, mentre l’opposizione non incassa un bel niente, temendo che una crisi così innescata porti dritto alle elezioni, viste con comprensibile diffidenza dal gruppo dirigente della sinistra. Insomma, una manovra avviata per logorare e frantumare la maggioranza si sta dimostrando esiziale per l’opposizione. Un boomerang.
Sfugge a molti la regola non scritta: l’eventuale uscita di scena di Silvio Berlusconi porterà con sé l’esplosione d’ambo gli schieramenti. La sinistra si mette avanti con il lavoro.
Pier Luigi Bersani prova a definire i confini di una futura maggioranza, ma è come se li disegnasse sull’acqua. Dice di non volere rifare l’Unione, anche perché fu fallimentare. Non aggiunge la cosa più vera: ne fu capace solo Romano Prodi. Ma stabilisce che l’alleanza con la sinistra ecologica e libertaria, il gruppo di Nichi Vendola, non deve comportare l’esclusione del rapporto, anche governativo, con Pier Ferdinando Casini. A Bersani sfuggono, o finge di non capire, due cose: a. Casini si lascia aperta ogni strada e sa benissimo, perché le regionali lo hanno dimostrato, che allearsi con la sinistra è un modo per perdere voti; b. non solo Vendola non si oppone affatto ad un rapporto con Casini, ma il suo candidato per il comune di Milano, Giuliano Pisapia, ha fatto appena in tempo ad essere eletto che già dichiarava il suo interesse al dialogo con l’Udc.
Quella che è in discussione, quindi, non è l’ipotetica alleanza antagonista dell’attuale maggioranza, che sarà disegnata secondo il non raffinato principio: chi non è con lui stia con noi. E’ in discussione chi guida la sinistra. Vendola vuole le primarie di coalizione, e le vuole subito, perché punta alle elezioni (come Berlusconi e Umberto Bossi) e perché mira a prendere il posto di Bersani. Ed è così poco vero che il gruppo di Vendola sarebbe indirizzato a prendere il vento dell’antipolitica che è toccato proprio al governatore pugliese, sia pure trascinato per i capelli, cominciare a dire che Bebbe Grillo è più ostile che amico. Mentre Bersani non ha lo stesso coraggio nei confronti di Antonio Di Pietro, pur non avaro di coltellate alle spalle dei presunti alleati.
Tutto questo capita perché la scommessa delle opposizioni s’è dimostrata azzardata, avendo puntato tutto sul disfacimento della maggioranza a seguito dalle sortite di Gianfranco Fini. Non bastava e non basta che il governo cada, perché il Presidente della Repubblica possa imboccare una strada diversa da quella delle elezioni, è necessario che si dimostri l’impossibilità di ricostituire la maggioranza e la disponibilità di una sua parte a prendere parte ad altri governi. Questo poteva ottenersi o con una rottura del rapporto fra Pdl e Lega, oppure con la fuoriuscita di un consistente numero di parlamentari ex democristiani. Non è successa né l’una né l’altra cosa. Il che non comporta una più lunga vita governativa, ma un più netto bivio: o questa maggioranza o lo scioglimento anticipato.
Per propiziare lo sgretolamento la sinistra, assieme agli altri oppositori, avrebbe dovuto presentare un disegno condiviso di riforma elettorale e un provvedimento alternativo a quello del governo per stabilizzare i conti pubblici. Invece sulla prima cosa sono divisi in diecimila fazioni e sulla seconda hanno adottato una tattica suicida, chiedendo l’immediata approvazione del testo governativo, salvo cavalcare ogni rifiuto dei tagli alla spesa (fin qui più timidi che eccessivi). Risultato: su cosa mai lo si dovrebbe costruire, un governo diverso e privo di legittimazione elettorale?
Ecco perché non festeggiano la sconfitta governativa di ieri, perché quello è esattamente lo schema che porta alle urne. Pericolose per tutti, certo, ma in particolare per uno schieramento non solo variopinto e disarticolato, ma anche dedito alla decapitazione del suo (immaginario) capo.
Detto ciò, dalle parti del centro destra c’è maggiore consapevolezza delle convenienze e, al netto di qualche sceneggiata, si tende a mantenere una formale unità. Che, però, non è lo specchio dell’omogeneità politica e dell’unità d’intenti. Quel che la sinistra sperava accadesse prima, quel che Fini ha presuntuosamente cercato d’intestarsi, potrebbe verificarsi e detonare dopo, nell’approssimarsi della partita per il Quirinale. Ma sarebbe, ove accadesse, una misera consolazione, visto che la partita si svolgerebbe lontano dai perimetri di quella sinistra che continua a svirgolare tutti i traversoni serviti da Giorgio Napolitano. Giocatore che dimostra una giovanile volontà di far vincere alla propria squadra almeno una partita, nella storia della Repubblica.
www.davidegiacalone.it
Pubblicato da Libero
Ho intenzione di postarne almeno uno al giorno in questo forum, senza tralasciare, quando sia opportuno, gli altri temi che già ci sono.
Ecco il primo, spero vi faccia discutere.
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Boomerang
Scritto da Davide Giacalone
mercoledì 24 novembre 2010
L’unico che può ragionevolmente festeggiare la sconfitta del governo, ieri alla Camera, è il nuovo parlamentare europeo cui andrà il seggio in più, assegnato dal nuovo Trattato. Un uomo dell’Udc. Per il resto, c’è poco da manifestare contentezza: il governo incassa una sconfitta irrilevante (si era rimesso all’Aula ed era questione di nessun peso), ma addossa ai finiani la responsabilità dell’accaduto, mentre l’opposizione non incassa un bel niente, temendo che una crisi così innescata porti dritto alle elezioni, viste con comprensibile diffidenza dal gruppo dirigente della sinistra. Insomma, una manovra avviata per logorare e frantumare la maggioranza si sta dimostrando esiziale per l’opposizione. Un boomerang.
Sfugge a molti la regola non scritta: l’eventuale uscita di scena di Silvio Berlusconi porterà con sé l’esplosione d’ambo gli schieramenti. La sinistra si mette avanti con il lavoro.
Pier Luigi Bersani prova a definire i confini di una futura maggioranza, ma è come se li disegnasse sull’acqua. Dice di non volere rifare l’Unione, anche perché fu fallimentare. Non aggiunge la cosa più vera: ne fu capace solo Romano Prodi. Ma stabilisce che l’alleanza con la sinistra ecologica e libertaria, il gruppo di Nichi Vendola, non deve comportare l’esclusione del rapporto, anche governativo, con Pier Ferdinando Casini. A Bersani sfuggono, o finge di non capire, due cose: a. Casini si lascia aperta ogni strada e sa benissimo, perché le regionali lo hanno dimostrato, che allearsi con la sinistra è un modo per perdere voti; b. non solo Vendola non si oppone affatto ad un rapporto con Casini, ma il suo candidato per il comune di Milano, Giuliano Pisapia, ha fatto appena in tempo ad essere eletto che già dichiarava il suo interesse al dialogo con l’Udc.
Quella che è in discussione, quindi, non è l’ipotetica alleanza antagonista dell’attuale maggioranza, che sarà disegnata secondo il non raffinato principio: chi non è con lui stia con noi. E’ in discussione chi guida la sinistra. Vendola vuole le primarie di coalizione, e le vuole subito, perché punta alle elezioni (come Berlusconi e Umberto Bossi) e perché mira a prendere il posto di Bersani. Ed è così poco vero che il gruppo di Vendola sarebbe indirizzato a prendere il vento dell’antipolitica che è toccato proprio al governatore pugliese, sia pure trascinato per i capelli, cominciare a dire che Bebbe Grillo è più ostile che amico. Mentre Bersani non ha lo stesso coraggio nei confronti di Antonio Di Pietro, pur non avaro di coltellate alle spalle dei presunti alleati.
Tutto questo capita perché la scommessa delle opposizioni s’è dimostrata azzardata, avendo puntato tutto sul disfacimento della maggioranza a seguito dalle sortite di Gianfranco Fini. Non bastava e non basta che il governo cada, perché il Presidente della Repubblica possa imboccare una strada diversa da quella delle elezioni, è necessario che si dimostri l’impossibilità di ricostituire la maggioranza e la disponibilità di una sua parte a prendere parte ad altri governi. Questo poteva ottenersi o con una rottura del rapporto fra Pdl e Lega, oppure con la fuoriuscita di un consistente numero di parlamentari ex democristiani. Non è successa né l’una né l’altra cosa. Il che non comporta una più lunga vita governativa, ma un più netto bivio: o questa maggioranza o lo scioglimento anticipato.
Per propiziare lo sgretolamento la sinistra, assieme agli altri oppositori, avrebbe dovuto presentare un disegno condiviso di riforma elettorale e un provvedimento alternativo a quello del governo per stabilizzare i conti pubblici. Invece sulla prima cosa sono divisi in diecimila fazioni e sulla seconda hanno adottato una tattica suicida, chiedendo l’immediata approvazione del testo governativo, salvo cavalcare ogni rifiuto dei tagli alla spesa (fin qui più timidi che eccessivi). Risultato: su cosa mai lo si dovrebbe costruire, un governo diverso e privo di legittimazione elettorale?
Ecco perché non festeggiano la sconfitta governativa di ieri, perché quello è esattamente lo schema che porta alle urne. Pericolose per tutti, certo, ma in particolare per uno schieramento non solo variopinto e disarticolato, ma anche dedito alla decapitazione del suo (immaginario) capo.
Detto ciò, dalle parti del centro destra c’è maggiore consapevolezza delle convenienze e, al netto di qualche sceneggiata, si tende a mantenere una formale unità. Che, però, non è lo specchio dell’omogeneità politica e dell’unità d’intenti. Quel che la sinistra sperava accadesse prima, quel che Fini ha presuntuosamente cercato d’intestarsi, potrebbe verificarsi e detonare dopo, nell’approssimarsi della partita per il Quirinale. Ma sarebbe, ove accadesse, una misera consolazione, visto che la partita si svolgerebbe lontano dai perimetri di quella sinistra che continua a svirgolare tutti i traversoni serviti da Giorgio Napolitano. Giocatore che dimostra una giovanile volontà di far vincere alla propria squadra almeno una partita, nella storia della Repubblica.
www.davidegiacalone.it
Pubblicato da Libero
Ultima modifica di Luciano Baroni il Gio Dic 09, 2010 3:31 am - modificato 2 volte.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
C'era anche una foto, ma non ci stava qui.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/precario.pdf[b]
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Conferenza stampa di Silvio Berlusconi dopo il Consiglio dei Ministri odierno.
venerdì 26 novembre 2010, 15:12
"Al Sud 100 miliardi, realizzati 5 punti Dai media accuse criminali al governo"
Roma - Sì del Consiglio dei ministri al Piano nazionale per il Mezzogiorno. Trasporti, scuola e giustizia i punti cardine del progetto da 100 miliardi di euro. "Abbiamo fatto un Cdm e un Cipe e abbiamo dato il via a quello che è il terzo punto dei cinque su cui abbiamo ottenuto una vasta maggioranza alla Camera. Il primo è stato il federalismo fiscale, il secondo il piano sulla sicurezza, il terzo è appunto il piano per il Sud, la settimana prossima approveremo la riforma giustizia e stiamo lavorando con tutti i tavoli tecnici alla riforma tributaria. Il governo praticamente, salvo che sulla riforma tributaria se il lavoro si allungherà nei prossimi mesi, ha in poco tempo realizzato tutto quando garantito di fronte al Parlamento", ha affermato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. "Oggi abbiamo avuto un consiglio dei ministri su un tema che ha preso buona parte dell’estate. Credo che il governo faccia tutto ciò che è umanamente possibile per tenere unito il paese: il Federalismo fiscale e il Piano per il Sud come controfaccia della medaglia". Poi uan stoccata del Cavaliere alle amministrazioni locali: "Dalla ricognizione effettuata è emerso che dei fondi assegnati dall’Europa era stato utilizzato solo il 38% e questo è segno della incapacità delle amministrazioni del Sud di realizzare cose e di utilizzare fondi messi a disposizione dall’Europa". E poi ancora una bordata, questa volta all'opposizione: "L’opposizione sa solo insultare, noi invece continuiamo a lavorare".
"Sull'Euro siamo moderatamente positivi" "Stiamo esaminando le vicende dell’euro e siamo moderatamente positivi. Ieri ho avuto colloqui con i colleghi: c’è un atteggiamento di collaborazione assoluta e anche per questo credo che possiamo dire che non dovremmo avere preoccupazione per come l’Europa si è messa, per come si è strutturata per superare questa crisi e per come ha saputo rispondere alla crisi stessa", ha proseguito il premier.
100 miliardi per il Mezzogiorno Il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera al Piano nazionale per il Sud. Conterà su risorse per 100 miliardi di euro e punterà sulle infrastrutture, dalle ferrovie a nuove scuole, sulla fiscalità di vantaggio e sulla Banca del Mezzogiorno. Il piano dovrebbe essere articolato in un documento e due decreti, uno ministeriale e uno legislativo. Martedì Poste e Bcc formalizzeranno a Unicredit l’offerta di acquisto sul Mediocredito Centrale per dare corpo alla Banca del Mezzogiorno.
Trasporti, scuola e sicurezza Il Piano prevede il potenziamento della rete dei trasporti, fondi per l’edilizia scolastica, misure per l’utilizzo dei fondi per l’università la costituzione della Banca del Sud per agevolare il credito agli imprenditori e per il rafforzamento degli interventi in materia di giustizia e sicurezza.
La banca del Mezzogiorno La banca del Mezzogiorno "opererà come istituzione finanziaria di secondo livello attraverso una rete di banche sulo territorio che diverranno socie e la rete degli sportelli di Poste italiane". È quanto si legge nel piano per il Sud approvato oggi dal consiglio dei ministri. Nel documento anche il via libera alla "ricognizione degli interventi infrastrutturali da realizzare e riguardanti le strutture sanitarie e assistenziali, scolastice, nonché la rete stradale, autostradale e ferroviaria, la rete fognaria, la rete idrica, elettrica e di trasporto e di distribuzione del gas, le strutture portuali e aeroportuali".
Tremonti. "Sono orgoglioso" Sono "orgoglioso" di questo intervento. "La questione meridionale è una questione nazionale non la somma di questioni regionali". Così il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha commentato l’approvazione del Piano per il Sud, in conferenza stampa, dopo il via libera del consiglio dei ministri. Il documento, ha precisato il ministro per gli Affari Regionali, "è stato approvato all’unanimità". L’Italia, ha ribadito Tremonti, è "un paese duale perché l’economia del centro-nord è diversa dal quella del Sud. Non vogliamo assolutamente che diventi un paese diviso. Le politiche da fare per il Centro-Nord sono di un tipo - ha proseguito il ministro - per il Sud di un altro e di più intenso tipo".
venerdì 26 novembre 2010, 13:30
Abruzzo e rifiuti, Berlusconi contro i media: "Abietto e criminale fare critiche infondate"
Roma - "È indegno, abietto, criminale e anti-italiano fare ciò che troppi media fanno, critiche infondate all’operato del governo". Spara ad alzo zero il Cavaliere. "L’impegno del governo è stato totale per chi ha perso totalmente la casa, per il resto abbiamo avviato i cantieri". Silvio Berlusconi torna a parlare del terremoto in Abruzzo, convinto che il governo non è stato inadempiente nell’opera di ricostruzione. Durante una conferenza stampa a palazzo Chigi, il premier ha detto che il problema ora riguarda gli enti locali. "Ci risultano aperti quasi 12mila cantieri che riguardano le abitazioni e gli impianti industriali che avevano subìto danni ma possono essere ristrutturati e rimessi a nuovo - ha detto il presidente del Consiglio - i fondi ci sono ma le autorità locali devono fare verifiche edificio per edificio per capire se si può o meno ristrutturare e questa è un’operazione di cui non si può attribuire il compito al governo nazionale".
Mistificazione della realtà. Il premier ha poi lamentato che "c’è stata un’azione mistificatrice dei media", per esempio sul "popolo delle carriole": le autorità locali avevano chiesto di attribuire a imprese locali questo compito per riavviare l’economia e invece ci siamo visti proiettati su tv e giornali come se non stessimo lavorando". La risoluzione dell’emergenza rifiuti in Campania e la gestione post terremoto in Abruzzo "erano due situazioni in cui il governo ha dato straordinaria prova di capacità", ma "i giornali dell’opposizione e le televisioni dell’opposizione si sono esercitate nella distruzione di quanto fatto" ha aggiunto il presidente del Consiglio.
"Al Sud 100 miliardi, realizzati 5 punti Dai media accuse criminali al governo"
Roma - Sì del Consiglio dei ministri al Piano nazionale per il Mezzogiorno. Trasporti, scuola e giustizia i punti cardine del progetto da 100 miliardi di euro. "Abbiamo fatto un Cdm e un Cipe e abbiamo dato il via a quello che è il terzo punto dei cinque su cui abbiamo ottenuto una vasta maggioranza alla Camera. Il primo è stato il federalismo fiscale, il secondo il piano sulla sicurezza, il terzo è appunto il piano per il Sud, la settimana prossima approveremo la riforma giustizia e stiamo lavorando con tutti i tavoli tecnici alla riforma tributaria. Il governo praticamente, salvo che sulla riforma tributaria se il lavoro si allungherà nei prossimi mesi, ha in poco tempo realizzato tutto quando garantito di fronte al Parlamento", ha affermato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. "Oggi abbiamo avuto un consiglio dei ministri su un tema che ha preso buona parte dell’estate. Credo che il governo faccia tutto ciò che è umanamente possibile per tenere unito il paese: il Federalismo fiscale e il Piano per il Sud come controfaccia della medaglia". Poi uan stoccata del Cavaliere alle amministrazioni locali: "Dalla ricognizione effettuata è emerso che dei fondi assegnati dall’Europa era stato utilizzato solo il 38% e questo è segno della incapacità delle amministrazioni del Sud di realizzare cose e di utilizzare fondi messi a disposizione dall’Europa". E poi ancora una bordata, questa volta all'opposizione: "L’opposizione sa solo insultare, noi invece continuiamo a lavorare".
"Sull'Euro siamo moderatamente positivi" "Stiamo esaminando le vicende dell’euro e siamo moderatamente positivi. Ieri ho avuto colloqui con i colleghi: c’è un atteggiamento di collaborazione assoluta e anche per questo credo che possiamo dire che non dovremmo avere preoccupazione per come l’Europa si è messa, per come si è strutturata per superare questa crisi e per come ha saputo rispondere alla crisi stessa", ha proseguito il premier.
100 miliardi per il Mezzogiorno Il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera al Piano nazionale per il Sud. Conterà su risorse per 100 miliardi di euro e punterà sulle infrastrutture, dalle ferrovie a nuove scuole, sulla fiscalità di vantaggio e sulla Banca del Mezzogiorno. Il piano dovrebbe essere articolato in un documento e due decreti, uno ministeriale e uno legislativo. Martedì Poste e Bcc formalizzeranno a Unicredit l’offerta di acquisto sul Mediocredito Centrale per dare corpo alla Banca del Mezzogiorno.
Trasporti, scuola e sicurezza Il Piano prevede il potenziamento della rete dei trasporti, fondi per l’edilizia scolastica, misure per l’utilizzo dei fondi per l’università la costituzione della Banca del Sud per agevolare il credito agli imprenditori e per il rafforzamento degli interventi in materia di giustizia e sicurezza.
La banca del Mezzogiorno La banca del Mezzogiorno "opererà come istituzione finanziaria di secondo livello attraverso una rete di banche sulo territorio che diverranno socie e la rete degli sportelli di Poste italiane". È quanto si legge nel piano per il Sud approvato oggi dal consiglio dei ministri. Nel documento anche il via libera alla "ricognizione degli interventi infrastrutturali da realizzare e riguardanti le strutture sanitarie e assistenziali, scolastice, nonché la rete stradale, autostradale e ferroviaria, la rete fognaria, la rete idrica, elettrica e di trasporto e di distribuzione del gas, le strutture portuali e aeroportuali".
Tremonti. "Sono orgoglioso" Sono "orgoglioso" di questo intervento. "La questione meridionale è una questione nazionale non la somma di questioni regionali". Così il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha commentato l’approvazione del Piano per il Sud, in conferenza stampa, dopo il via libera del consiglio dei ministri. Il documento, ha precisato il ministro per gli Affari Regionali, "è stato approvato all’unanimità". L’Italia, ha ribadito Tremonti, è "un paese duale perché l’economia del centro-nord è diversa dal quella del Sud. Non vogliamo assolutamente che diventi un paese diviso. Le politiche da fare per il Centro-Nord sono di un tipo - ha proseguito il ministro - per il Sud di un altro e di più intenso tipo".
venerdì 26 novembre 2010, 13:30
Abruzzo e rifiuti, Berlusconi contro i media: "Abietto e criminale fare critiche infondate"
Roma - "È indegno, abietto, criminale e anti-italiano fare ciò che troppi media fanno, critiche infondate all’operato del governo". Spara ad alzo zero il Cavaliere. "L’impegno del governo è stato totale per chi ha perso totalmente la casa, per il resto abbiamo avviato i cantieri". Silvio Berlusconi torna a parlare del terremoto in Abruzzo, convinto che il governo non è stato inadempiente nell’opera di ricostruzione. Durante una conferenza stampa a palazzo Chigi, il premier ha detto che il problema ora riguarda gli enti locali. "Ci risultano aperti quasi 12mila cantieri che riguardano le abitazioni e gli impianti industriali che avevano subìto danni ma possono essere ristrutturati e rimessi a nuovo - ha detto il presidente del Consiglio - i fondi ci sono ma le autorità locali devono fare verifiche edificio per edificio per capire se si può o meno ristrutturare e questa è un’operazione di cui non si può attribuire il compito al governo nazionale".
Mistificazione della realtà. Il premier ha poi lamentato che "c’è stata un’azione mistificatrice dei media", per esempio sul "popolo delle carriole": le autorità locali avevano chiesto di attribuire a imprese locali questo compito per riavviare l’economia e invece ci siamo visti proiettati su tv e giornali come se non stessimo lavorando". La risoluzione dell’emergenza rifiuti in Campania e la gestione post terremoto in Abruzzo "erano due situazioni in cui il governo ha dato straordinaria prova di capacità", ma "i giornali dell’opposizione e le televisioni dell’opposizione si sono esercitate nella distruzione di quanto fatto" ha aggiunto il presidente del Consiglio.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Fuori dal coro.
Clementina Forleo no, la legge non è uguale per tutti
Scritto da Mariella Boerci
Friday 26 November 2010
Panorama - Viso e parole affilatissimi nonostante il sorriso e la dolcezza della maternità appena voluta a dispetto dell'anagrafe, Clementina Forleo, 47 anni, non smentisce la sua fama di giudice che non teme di cantare fuori dal coro (per questo, nel 2008, è stata «esiliata» a Cremona) e ricorda che «l'articolo 82 della Costituzione prevede che il Parlamento costituisca una commissione d'inchiesta qualora particolari motivi di interesse pubblico lo ti chiedano». Smentendo così, indirettamente, chi ha invitato il premier ad «andare a leggersi la Costituzione».
Non so se la situazione sia tale da richiedere effettivamente una commissione parlamentare d'inchiesta. In alcune regioni però, e soprattutto in certe procure più esposte ai riflettori si sono verificati da parte di alcuni pm eccessi di potere che meriterebbero di essere valutati. A prescindere dal caso Berlusconi.
Susciterà un vespaio...
Ci sono abituata.
Ma lei è favorevole a una commissione parlamentare?
Non sono contraria a patto che, accertati i presupposti concreti circa la sua istituzione, ponga poi l'attenzione a 360 gradi su ciò che è accaduto negli ultimi anni, senza fare sconti a nessuno, superpotenti e intoccabili compresi. Io stessa, a quel punto, chiederei di essere ascoltata perché si indagasse sulla vicenda delle scalate bancarie (che coínvolgeva esponenti del Pd, come Massimo DAlema e Nicola Latorre, ndr) che mi è stata sottratta tra il maggio e il 29 luglio 2008.
Che cosa lamenta?
Le carte concernenti la posizione del senatore Latorre, che in seguito alla mia richiesta tornavano dal Senato, stranamente non arrivarono mai sulla mia scrivania. Finché, approfittando di una mia assenza di sette giorni, dopo oltre due mesi il pm le dissotterrò per inoltrarle «con urgenza» al gip di turno. Questi le rispedì al Senato senza informarmi, mentre ero stata tenuta al corrente di ogni dettaglio anche durante le ferie. Questo salvò Latorre. Se invece le carte fossero arrivate a me, che ero il giudice naturale; le avrei inoltrate al pm affinché decidesse se avviare o meno un procedimento, come già avevo fatto per D'Alema. Ritengo che questa sia una delle pagine più nere della giustizia e della storia del nostro Paese. Per questo richiede chiarezza.
Per questa vicenda Anna Finocchiaro l'ha appena querelata.
Le ho risposto con una denuncia per calunnia. Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato ed ex magistrato, mi querela oggi per una vicenda che risale a tre anni fa e riguarda un «summit» che si tenne nel suo ufficio per avviare un procedimento disciplinare contro di me, come poi effettivamente accadde, perché stavo per depositare la trascrizione di conversazioni imbarazzanti che vedevano coinvolti, suoi compagni di partito. Il punto è che le dichiarazioni per cui mi si querela, mai smentite, sono state rilasciate tre anni fa alla procura di Brescia dall'ex senatore Ferdinando Imposimato. Non sono io da querelare.
Vuole dire che la giustizia non è uguale per tutti?
Lo dico da magistrato e ad alta voce: la legge non è uguale per tutti. Prendiamo il caso della pm barese Desirèe Digeronimo: attaccata in modo violento da Nichi Vendola, per le indagini che stava svolgendo, anche a suo carico, nessuno è intervenuto in sua difesa o ha aperto una pratica a tutela. Zero! Mentre se si prova a toccare un pm di Mani pulite o di Caltanissetta o di Palermo, che si sta occupando di un possibile coinvolgimento del premier nella stagione delle stragi si assiste a una levata generale di scudi e alla mobilitazione del Consiglio superiore della magistratura e dell'Associazione magistrati. E magari all'intervento di Antonio Di Pietro, il quale, silente sui due episodi che ho esposto, ha ripetuto più volte che si deve abbattere Berlusconi «anche scendendo a patti con il diavolo». L'affermazione mostra che l'ex magistrato Di Pietro vive l'avversario politico come un nemico da abbattere, con qualsiasi mezzo. Purtroppo un problema della giustizia è dato da certe frange del potere giudiziario che insorgono o tacciono a seconda di un interesse politico.
Secondo lei, un magistrato non dovrebbe fare politica?
No, se non togliendosi definitivamente la toga. Per due volte mi è stata offerta una candidatura e nonostante la consapevolezza che questo avrebbe potuto liberarmi da tanti problemi, per due volte ho rifiutato. Voglio continuare a fare il giudice e credo di poterlo fare ancora con passione, autonomia, serenità
Che rosa c'entra la serenità?
Guai a mancare di serenità rispetto ai casi che si trattano. Ecco perché certi pm, che si occupano sempre dei medesimi indagati, a un certo punto dovrebbero fare un passo indietro. A meno che non ci sia una connessione oggettiva fra i vari procedimenti, non dovrebbe essere possibile essere titolari a vita di indagini contro la stessa persona: perché ciò intacca la serenità nel sostenere l'accusa o l'immagine di serenità che anche un pm deve garantire.
La magistratura non è una casta? Guai a parlare di riforme, a toccare gli stipendi, a chiedere un trasferimento... Non sono una che difende la casta, ma sui trasferimenti spezzo una lancia per la categoria: non bastano gli incentivi economici per invogliare un magistrato d'esperienza a spostarsi in una sede disagiata. Serve anche un incentivo professionale, la garanzia di non essere destinato a smaltire l'arretrato, od occuparsi di fatti marginali.
Non ha detto una parola sulla riforma della giustizia.
Ne ho dette tante, invece: è indispensabile. A partire dal Csm, che deve essere liberato al più presto dal sistema correntizio. Occorrono regole diverse dall'elezione e quindi una riforma costituzionale, per nominare i componenti del Csm evitando che si istauri una sorta di voto di scambio tra eletto ed elettore. In seconda battuta è fondamentale la separazione delle carriere. Che non significa, come è stato detto, che il pm deve essere subordinato all'esecutivo, bensì che deve essere messo in concreto nelle stesse condizioni della difesa.
Molti suoi colleghi sono riluttanti.
Io stessa, quando ho parlato della necessità di riforme in un convegno delle camere penali, sono stata attaccata con estrema violenza da illustri esponenti della magistratura associata e si sono permessi addirittura di offendermi, visto che la libertà di certe espressioni è loro concessa, mentre ad altri non concedono neppure la libertà di opinione. Via dunque a questa riforma. Altrimenti sarà il massacro della giustizia.
http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=30531
Scritto da Mariella Boerci
Friday 26 November 2010
Panorama - Viso e parole affilatissimi nonostante il sorriso e la dolcezza della maternità appena voluta a dispetto dell'anagrafe, Clementina Forleo, 47 anni, non smentisce la sua fama di giudice che non teme di cantare fuori dal coro (per questo, nel 2008, è stata «esiliata» a Cremona) e ricorda che «l'articolo 82 della Costituzione prevede che il Parlamento costituisca una commissione d'inchiesta qualora particolari motivi di interesse pubblico lo ti chiedano». Smentendo così, indirettamente, chi ha invitato il premier ad «andare a leggersi la Costituzione».
Non so se la situazione sia tale da richiedere effettivamente una commissione parlamentare d'inchiesta. In alcune regioni però, e soprattutto in certe procure più esposte ai riflettori si sono verificati da parte di alcuni pm eccessi di potere che meriterebbero di essere valutati. A prescindere dal caso Berlusconi.
Susciterà un vespaio...
Ci sono abituata.
Ma lei è favorevole a una commissione parlamentare?
Non sono contraria a patto che, accertati i presupposti concreti circa la sua istituzione, ponga poi l'attenzione a 360 gradi su ciò che è accaduto negli ultimi anni, senza fare sconti a nessuno, superpotenti e intoccabili compresi. Io stessa, a quel punto, chiederei di essere ascoltata perché si indagasse sulla vicenda delle scalate bancarie (che coínvolgeva esponenti del Pd, come Massimo DAlema e Nicola Latorre, ndr) che mi è stata sottratta tra il maggio e il 29 luglio 2008.
Che cosa lamenta?
Le carte concernenti la posizione del senatore Latorre, che in seguito alla mia richiesta tornavano dal Senato, stranamente non arrivarono mai sulla mia scrivania. Finché, approfittando di una mia assenza di sette giorni, dopo oltre due mesi il pm le dissotterrò per inoltrarle «con urgenza» al gip di turno. Questi le rispedì al Senato senza informarmi, mentre ero stata tenuta al corrente di ogni dettaglio anche durante le ferie. Questo salvò Latorre. Se invece le carte fossero arrivate a me, che ero il giudice naturale; le avrei inoltrate al pm affinché decidesse se avviare o meno un procedimento, come già avevo fatto per D'Alema. Ritengo che questa sia una delle pagine più nere della giustizia e della storia del nostro Paese. Per questo richiede chiarezza.
Per questa vicenda Anna Finocchiaro l'ha appena querelata.
Le ho risposto con una denuncia per calunnia. Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato ed ex magistrato, mi querela oggi per una vicenda che risale a tre anni fa e riguarda un «summit» che si tenne nel suo ufficio per avviare un procedimento disciplinare contro di me, come poi effettivamente accadde, perché stavo per depositare la trascrizione di conversazioni imbarazzanti che vedevano coinvolti, suoi compagni di partito. Il punto è che le dichiarazioni per cui mi si querela, mai smentite, sono state rilasciate tre anni fa alla procura di Brescia dall'ex senatore Ferdinando Imposimato. Non sono io da querelare.
Vuole dire che la giustizia non è uguale per tutti?
Lo dico da magistrato e ad alta voce: la legge non è uguale per tutti. Prendiamo il caso della pm barese Desirèe Digeronimo: attaccata in modo violento da Nichi Vendola, per le indagini che stava svolgendo, anche a suo carico, nessuno è intervenuto in sua difesa o ha aperto una pratica a tutela. Zero! Mentre se si prova a toccare un pm di Mani pulite o di Caltanissetta o di Palermo, che si sta occupando di un possibile coinvolgimento del premier nella stagione delle stragi si assiste a una levata generale di scudi e alla mobilitazione del Consiglio superiore della magistratura e dell'Associazione magistrati. E magari all'intervento di Antonio Di Pietro, il quale, silente sui due episodi che ho esposto, ha ripetuto più volte che si deve abbattere Berlusconi «anche scendendo a patti con il diavolo». L'affermazione mostra che l'ex magistrato Di Pietro vive l'avversario politico come un nemico da abbattere, con qualsiasi mezzo. Purtroppo un problema della giustizia è dato da certe frange del potere giudiziario che insorgono o tacciono a seconda di un interesse politico.
Secondo lei, un magistrato non dovrebbe fare politica?
No, se non togliendosi definitivamente la toga. Per due volte mi è stata offerta una candidatura e nonostante la consapevolezza che questo avrebbe potuto liberarmi da tanti problemi, per due volte ho rifiutato. Voglio continuare a fare il giudice e credo di poterlo fare ancora con passione, autonomia, serenità
Che rosa c'entra la serenità?
Guai a mancare di serenità rispetto ai casi che si trattano. Ecco perché certi pm, che si occupano sempre dei medesimi indagati, a un certo punto dovrebbero fare un passo indietro. A meno che non ci sia una connessione oggettiva fra i vari procedimenti, non dovrebbe essere possibile essere titolari a vita di indagini contro la stessa persona: perché ciò intacca la serenità nel sostenere l'accusa o l'immagine di serenità che anche un pm deve garantire.
La magistratura non è una casta? Guai a parlare di riforme, a toccare gli stipendi, a chiedere un trasferimento... Non sono una che difende la casta, ma sui trasferimenti spezzo una lancia per la categoria: non bastano gli incentivi economici per invogliare un magistrato d'esperienza a spostarsi in una sede disagiata. Serve anche un incentivo professionale, la garanzia di non essere destinato a smaltire l'arretrato, od occuparsi di fatti marginali.
Non ha detto una parola sulla riforma della giustizia.
Ne ho dette tante, invece: è indispensabile. A partire dal Csm, che deve essere liberato al più presto dal sistema correntizio. Occorrono regole diverse dall'elezione e quindi una riforma costituzionale, per nominare i componenti del Csm evitando che si istauri una sorta di voto di scambio tra eletto ed elettore. In seconda battuta è fondamentale la separazione delle carriere. Che non significa, come è stato detto, che il pm deve essere subordinato all'esecutivo, bensì che deve essere messo in concreto nelle stesse condizioni della difesa.
Molti suoi colleghi sono riluttanti.
Io stessa, quando ho parlato della necessità di riforme in un convegno delle camere penali, sono stata attaccata con estrema violenza da illustri esponenti della magistratura associata e si sono permessi addirittura di offendermi, visto che la libertà di certe espressioni è loro concessa, mentre ad altri non concedono neppure la libertà di opinione. Via dunque a questa riforma. Altrimenti sarà il massacro della giustizia.
http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=30531
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ci sono articoli che dovrebbero servire...
27-11-2010
Dall’Uganda al Ruanda
Nessuno dica che i magistrati non hanno il senso dell’umorismo, tutto sta a vedere se volontario o meno. Nel febbraio del 2009 il procuratore generale presso la Corte di cassazione inaugurò l’anno giudiziario avvertendo che la giustizia italiana funzionava peggio di quella dell’Uganda. Intendeva dire che faceva schifo, e aveva ragione. Ieri il segretario del sindacato delle toghe, l’Associazione Nazionale Magistrati, ha aperto il loro congresso ricordando che in quanto a trasparenza e corruzione, quindi in quanto a giustizia, l’Italia è messa peggio del Ruanda. Non so se scelgono i paragoni per la poetica necessità di fare rima, so che entrambe sono tratti dal rapporto della Banca Mondiale e i Paesi che ci precedono sono parecchi. Oserei dire, senza offesa per gli altri: tutti quelli civili.
La cosa singolare è che queste cose, un tempo, le sostenevamo noi garantisti, per affermare la necessità di riforme immediate e radicali. Ora si trovano nei discorsi dei magistrati, che poi aggiungono la loro avversità alle riforme. Si vede che oltre alla cucina s’è diffusa anche la giustizia etnica. Ieri Luca Palamara, attuale capo del sindacato, ha annunciato che “è ora di voltare pagina”, nei rapporti con la politica. Mi s’è aperto il cuore: finalmente si ragiona senza pregiudizi, di cose concrete. Poi ha aggiunto: “le riforme vogliono colpire la nostra indipendenza”. E buona notte. Ha sostenuto che i magistrati divenuti politici non devono più tornare alla toga, ed ha perfettamente ragione. Forse si dovrebbe aggiungere che non si può far politica neanche prima d’essere eletti, con la toga ancora sulle spalle. I cittadini, ingenuoni, preferiscono ancora l’idea che il magistrato sia e appaia indipendente. Può ben aver sue opinioni, ma non dovrebbe sentire il quotidiano e insopprimibile bisogno di mettercene a parte. La cosa più bella è che, secondo Palamara, un magistrato non dovrebbe mai far pressioni per avere un determinato incarico. Allora azzeriamoli tutti, perché non ne conosco neanche uno che abbia avuto la nomina inconsapevolmente. Se vuole cancellare il lobbismo deve cancellare il correntismo, vale a dire l’attuale strutturazione del Consiglio Superiore della Magistratura e l’orrido sistema elettorale. Ci sta? Noi da anni.
Veniano ad alcune utili cose che si potrebbero fare subito, se la piantassimo di parlare per aizzare le platee. L’organizzazione giudiziaria deve essere centralizzata ed eguale in tutta Italia (lo dice la Costituzione, e ne assegna il compito al ministro della Giustizia), basta con le autonomie organizzative, vera causa del fatto che, con le medesime leggi, in certi tribunali si va a passo lento e in certi altri a marcia indietro. I piccoli tribunali vanno chiusi, perché sono uno spreco di risorse. La digitalizzazione deve procedere spedita e secondo un disegno unitario. Basta con gli uffici che comprano programmi tarocchi e pretendono di tenerseli in base ad una assai malintesa “autonomia”. Abbiamo speso una fortuna e i risultati sono miserrimi. E’ uno scandalo.
Ancora oltre: i magistrati devono o non essere sottoposti ad un giudizio di capacità e produttività? Il procuratore che continua a indagare innocenti e intercettare gente che non commette reati, massacrando delle vite e sprecando dei soldi, va fermato, non tollerato nella sua carriera automatica. Il giudice che continua a sbagliare sentenze, riformate nei gradi successivi, deve essere indotto a cambiare genere letterario. Oggi, invece, quelli del primo grado neanche leggono cosa la cassazione scrive di tante asinerie. Come si vede, nessuna sottomissione alla politica, ma valorizzazione delle sentenze.
Nel nostro codice c’è scritto che per condannare un cittadino occorre che non ci siano ragionevoli dubbi. Ma come si fa a non averne se è già stato assolto in primo grado, da altri giudici che hanno valutato i medesimi fatti? La non appellabilità delle assoluzioni consente di sfoltire i procedimenti pendenti e accorciare i tempi, liberando giudici per altre cause. Mi pare ragionevole (lo so che c’è una sentenza, vergognosa, della Corte Costituzionale, ma lascia ampi margini ad una riforma complessiva, sulla quale sarebbe bello sentire il costruttivo e propositivo parere dei magistrati congressisti).
Ecco cose concrete, nessuna delle quali ha a che vedere con faccende direttamente politiche o imputati istituzionalmente quotati. Poi, per carità, io sono per la separazione delle carriere, giacché non mi rassegno a questa unicità corporativa e solo italiana, ma lasciamo da parte le cose troppo grosse, su quelle elencate è possibile procedere senza che un gruppo di togati si senta in diritto di sfilare a difesa della conservazione? Ove la risposta sia positiva, in tre mesi superiamo l’Africa intera e ci ricongiungiamo all’Europa. Dall’Uganda e il Ruanda all’Olanda. Ove sia negativa, almeno indossino il gonnellino di paglia.
Dall’Uganda al Ruanda
Nessuno dica che i magistrati non hanno il senso dell’umorismo, tutto sta a vedere se volontario o meno. Nel febbraio del 2009 il procuratore generale presso la Corte di cassazione inaugurò l’anno giudiziario avvertendo che la giustizia italiana funzionava peggio di quella dell’Uganda. Intendeva dire che faceva schifo, e aveva ragione. Ieri il segretario del sindacato delle toghe, l’Associazione Nazionale Magistrati, ha aperto il loro congresso ricordando che in quanto a trasparenza e corruzione, quindi in quanto a giustizia, l’Italia è messa peggio del Ruanda. Non so se scelgono i paragoni per la poetica necessità di fare rima, so che entrambe sono tratti dal rapporto della Banca Mondiale e i Paesi che ci precedono sono parecchi. Oserei dire, senza offesa per gli altri: tutti quelli civili.
La cosa singolare è che queste cose, un tempo, le sostenevamo noi garantisti, per affermare la necessità di riforme immediate e radicali. Ora si trovano nei discorsi dei magistrati, che poi aggiungono la loro avversità alle riforme. Si vede che oltre alla cucina s’è diffusa anche la giustizia etnica. Ieri Luca Palamara, attuale capo del sindacato, ha annunciato che “è ora di voltare pagina”, nei rapporti con la politica. Mi s’è aperto il cuore: finalmente si ragiona senza pregiudizi, di cose concrete. Poi ha aggiunto: “le riforme vogliono colpire la nostra indipendenza”. E buona notte. Ha sostenuto che i magistrati divenuti politici non devono più tornare alla toga, ed ha perfettamente ragione. Forse si dovrebbe aggiungere che non si può far politica neanche prima d’essere eletti, con la toga ancora sulle spalle. I cittadini, ingenuoni, preferiscono ancora l’idea che il magistrato sia e appaia indipendente. Può ben aver sue opinioni, ma non dovrebbe sentire il quotidiano e insopprimibile bisogno di mettercene a parte. La cosa più bella è che, secondo Palamara, un magistrato non dovrebbe mai far pressioni per avere un determinato incarico. Allora azzeriamoli tutti, perché non ne conosco neanche uno che abbia avuto la nomina inconsapevolmente. Se vuole cancellare il lobbismo deve cancellare il correntismo, vale a dire l’attuale strutturazione del Consiglio Superiore della Magistratura e l’orrido sistema elettorale. Ci sta? Noi da anni.
Veniano ad alcune utili cose che si potrebbero fare subito, se la piantassimo di parlare per aizzare le platee. L’organizzazione giudiziaria deve essere centralizzata ed eguale in tutta Italia (lo dice la Costituzione, e ne assegna il compito al ministro della Giustizia), basta con le autonomie organizzative, vera causa del fatto che, con le medesime leggi, in certi tribunali si va a passo lento e in certi altri a marcia indietro. I piccoli tribunali vanno chiusi, perché sono uno spreco di risorse. La digitalizzazione deve procedere spedita e secondo un disegno unitario. Basta con gli uffici che comprano programmi tarocchi e pretendono di tenerseli in base ad una assai malintesa “autonomia”. Abbiamo speso una fortuna e i risultati sono miserrimi. E’ uno scandalo.
Ancora oltre: i magistrati devono o non essere sottoposti ad un giudizio di capacità e produttività? Il procuratore che continua a indagare innocenti e intercettare gente che non commette reati, massacrando delle vite e sprecando dei soldi, va fermato, non tollerato nella sua carriera automatica. Il giudice che continua a sbagliare sentenze, riformate nei gradi successivi, deve essere indotto a cambiare genere letterario. Oggi, invece, quelli del primo grado neanche leggono cosa la cassazione scrive di tante asinerie. Come si vede, nessuna sottomissione alla politica, ma valorizzazione delle sentenze.
Nel nostro codice c’è scritto che per condannare un cittadino occorre che non ci siano ragionevoli dubbi. Ma come si fa a non averne se è già stato assolto in primo grado, da altri giudici che hanno valutato i medesimi fatti? La non appellabilità delle assoluzioni consente di sfoltire i procedimenti pendenti e accorciare i tempi, liberando giudici per altre cause. Mi pare ragionevole (lo so che c’è una sentenza, vergognosa, della Corte Costituzionale, ma lascia ampi margini ad una riforma complessiva, sulla quale sarebbe bello sentire il costruttivo e propositivo parere dei magistrati congressisti).
Ecco cose concrete, nessuna delle quali ha a che vedere con faccende direttamente politiche o imputati istituzionalmente quotati. Poi, per carità, io sono per la separazione delle carriere, giacché non mi rassegno a questa unicità corporativa e solo italiana, ma lasciamo da parte le cose troppo grosse, su quelle elencate è possibile procedere senza che un gruppo di togati si senta in diritto di sfilare a difesa della conservazione? Ove la risposta sia positiva, in tre mesi superiamo l’Africa intera e ci ricongiungiamo all’Europa. Dall’Uganda e il Ruanda all’Olanda. Ove sia negativa, almeno indossino il gonnellino di paglia.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ci sono articoli che dovrebbero servire...
Com’era facilmente prevedibile, l’Associazione nazionale magistrati ha chiuso la porta in faccia alla riforma della giustizia. Un no atteso, perché il provvedimento porta la firma di Angelino Alfano, Guardasigilli tra i più detestati dai vertici sindacali delle toghe, ma per altro in oltre sessant’anni di vita repubblicana non c’è stata una sola riforma del settore che abbia ottenuto il plauso dei giudici. Tutti i tentativi di metter mano al funzionamento dei tribunali sono infatti stati avversati dai magistrati, i quali li hanno sempre bollati come interventi tesi a limitare la loro azione, nascondendosi dietro il paravento costituzionale dell’autonomia per poter continuare a fare ciò che pareva loro.
Eppure, se come dichiarato ieri dal segretario dell’Anm, Giovanni Palamara, in fatto di giustizia l’Italia fosse peggio del Ruanda, ci sarebbe motivo per mettere da parte polemiche e resistenze proponendo misure immediate e facilmente applicabili. So di non essere un tecnico, ma qualche idea l’avrei e mi permetto di suggerirla a quella parte di magistrati - e sono tanti - che vorrebbe davvero una giustizia efficiente, la quale colpisca i criminali e non solo gli avversari politici.
La prima proposta riguarda l’azione penale, che in apparenza è obbligatoria, ma essendo le Procure oberate da migliaia di procedimenti è in realtà discrezionale. Il pm decide a quali reati dare la precedenza e, di fatto, quali perseguire, lasciandone altri a dormire nel cassetto. Per evitare tutto ciò basterebbe copiare dal Giappone, dove la vittima ha titolo per chiedere alla pubblica accusa di spiegare come ha esercitato l’azione penale e annualmente i procuratori rispondono a una commissione composta anche da gente comune, sul tipo della giuria popolare, giustificando i ritardi e illustrando la conduzione delle indagini. Si tratta di un controllo pubblico, non politico, che potrebbe stimolare le inchieste anche da noi, evitando che certi pm poltriscano o tralascino alcune inchieste a favore di altre che a loro stanno maggiormente a cuore.
La seconda idea consentirebbe di intervenire sulla ripartizione del lavoro, che oggi va in automatico e spesso assegna pratiche complesse a chi non ha alcuna esperienza della materia. Il meccanismo fu creato tempo addietro per evitare che certi processi fossero imboscati e dunque si è introdotta la rotazione, ma nel corso degli anni ciò ha prodotto una sorta di appiattimento, con giudici e pm che devono occuparsi di tutto, anche di ciò su cui non hanno competenza. I magistrati non sono tutti uguali, c’è chi è più esperto e svelto in determinati settori e chi ne sa quanto io di calcio. Affidando i processi a chi ha già pratica dell’argomento, si eviterebbero danni e ritardi, e già che ci siamo tra i criteri per la valutazione, se ne potrebbero introdurre di nuovi, che non privilegino solo l’anzianità, come si tende a fare ora quasi che i giudici fossero degli impiegati, ma pure l’idoneità e la capacità. A indagare su una truffa finanziaria meglio che sia chi ne capisce, piuttosto che chi si occupa di stupri e rapine. Nelle grandi procure la specializzazione di fatto già esiste, ma in quelle di provincia no: si possono concentrare gli sforzi fra uffici diversi, vincendo resistenze e gelosie? Certo, ma per poterlo fare, bisognerebbe metter da parte anche una certa mentalità che fa somigliare le toghe più a burocrati del pubblico impiego che a investigatori.
Allo scopo di sfoltire un po’ di cause, soprattutto quelle inutili, si potrebbe stabilire poi che l’accesso alla giustizia si debba pagare, non con quattro bolli come accade ora, ma con cauzioni più sostanziose. Sì, lo so che qualcuno strillerebbe dicendo che la giustizia non sarebbe più uguale per tutti, ma solo per chi ha i soldi, eppure in altri Paesi si fa così e non mi pare che non ci sia cultura giuridica e sia calpestato il diritto alla giustizia.
Infine il Consiglio superiore della magistratura, ovvero l’organo di autogoverno dei giudici, il quale decide delle sanzioni disciplinari come delle promozioni, finendo per essere spesso al servizio delle correnti interne. Il Csm potrebbe restare così com’è, ma delegando a una sezione autonoma, dove la maggioranza non sia di magistrati ma da persone terze, il giudizio sulle sanzioni a carico di giudici e pm. La politica così non ci metterebbe becco e l’autonomia sarebbe tutelata, ma non ci metterebbero mano neppure le lobby con la toga.
Per realizzare tutto ciò non ci vorrebbe molto, solo un po’ di volontà. Basterebbe che ciascuno - partiti e corporazione - deponesse le armi per un anno e la riforma si potrebbe varare. Ma è troppo facile e non si farà. Anche perché qualcuno perderebbe il suo piccolo potere. In tribunale, come nel sindacato. E forse anche in Parlamento.
Eppure, se come dichiarato ieri dal segretario dell’Anm, Giovanni Palamara, in fatto di giustizia l’Italia fosse peggio del Ruanda, ci sarebbe motivo per mettere da parte polemiche e resistenze proponendo misure immediate e facilmente applicabili. So di non essere un tecnico, ma qualche idea l’avrei e mi permetto di suggerirla a quella parte di magistrati - e sono tanti - che vorrebbe davvero una giustizia efficiente, la quale colpisca i criminali e non solo gli avversari politici.
La prima proposta riguarda l’azione penale, che in apparenza è obbligatoria, ma essendo le Procure oberate da migliaia di procedimenti è in realtà discrezionale. Il pm decide a quali reati dare la precedenza e, di fatto, quali perseguire, lasciandone altri a dormire nel cassetto. Per evitare tutto ciò basterebbe copiare dal Giappone, dove la vittima ha titolo per chiedere alla pubblica accusa di spiegare come ha esercitato l’azione penale e annualmente i procuratori rispondono a una commissione composta anche da gente comune, sul tipo della giuria popolare, giustificando i ritardi e illustrando la conduzione delle indagini. Si tratta di un controllo pubblico, non politico, che potrebbe stimolare le inchieste anche da noi, evitando che certi pm poltriscano o tralascino alcune inchieste a favore di altre che a loro stanno maggiormente a cuore.
La seconda idea consentirebbe di intervenire sulla ripartizione del lavoro, che oggi va in automatico e spesso assegna pratiche complesse a chi non ha alcuna esperienza della materia. Il meccanismo fu creato tempo addietro per evitare che certi processi fossero imboscati e dunque si è introdotta la rotazione, ma nel corso degli anni ciò ha prodotto una sorta di appiattimento, con giudici e pm che devono occuparsi di tutto, anche di ciò su cui non hanno competenza. I magistrati non sono tutti uguali, c’è chi è più esperto e svelto in determinati settori e chi ne sa quanto io di calcio. Affidando i processi a chi ha già pratica dell’argomento, si eviterebbero danni e ritardi, e già che ci siamo tra i criteri per la valutazione, se ne potrebbero introdurre di nuovi, che non privilegino solo l’anzianità, come si tende a fare ora quasi che i giudici fossero degli impiegati, ma pure l’idoneità e la capacità. A indagare su una truffa finanziaria meglio che sia chi ne capisce, piuttosto che chi si occupa di stupri e rapine. Nelle grandi procure la specializzazione di fatto già esiste, ma in quelle di provincia no: si possono concentrare gli sforzi fra uffici diversi, vincendo resistenze e gelosie? Certo, ma per poterlo fare, bisognerebbe metter da parte anche una certa mentalità che fa somigliare le toghe più a burocrati del pubblico impiego che a investigatori.
Allo scopo di sfoltire un po’ di cause, soprattutto quelle inutili, si potrebbe stabilire poi che l’accesso alla giustizia si debba pagare, non con quattro bolli come accade ora, ma con cauzioni più sostanziose. Sì, lo so che qualcuno strillerebbe dicendo che la giustizia non sarebbe più uguale per tutti, ma solo per chi ha i soldi, eppure in altri Paesi si fa così e non mi pare che non ci sia cultura giuridica e sia calpestato il diritto alla giustizia.
Infine il Consiglio superiore della magistratura, ovvero l’organo di autogoverno dei giudici, il quale decide delle sanzioni disciplinari come delle promozioni, finendo per essere spesso al servizio delle correnti interne. Il Csm potrebbe restare così com’è, ma delegando a una sezione autonoma, dove la maggioranza non sia di magistrati ma da persone terze, il giudizio sulle sanzioni a carico di giudici e pm. La politica così non ci metterebbe becco e l’autonomia sarebbe tutelata, ma non ci metterebbero mano neppure le lobby con la toga.
Per realizzare tutto ciò non ci vorrebbe molto, solo un po’ di volontà. Basterebbe che ciascuno - partiti e corporazione - deponesse le armi per un anno e la riforma si potrebbe varare. Ma è troppo facile e non si farà. Anche perché qualcuno perderebbe il suo piccolo potere. In tribunale, come nel sindacato. E forse anche in Parlamento.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Vale la pena, leggere l'intervista sull'acqua che beviamo.
http://www.ilgiornale.it/interni/le_br_volevano_morto_ora_deve_combattere_lacqua_santa_coop/28-11-2010/articolo-id=489963-page=0-comments=1
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Credo dovrebbe portare a grandi discussioni, ma non succederà.
Diciamo la verità sulla crisi
Scritto da Angelo Panebianco
lunedì 29 novembre 2010
Corriere della Sera - Se si leggono in controluce le tante analisi che gli economisti dedicano alla bufera che, dalla crisi greca a quella irlandese (ma Portogallo e Spagna sono già nel mirino), ha investito l'Europa monetaria, non è difficile scoprire quale sia oggi il vero nemico dell'euro, quello che ne minaccia la sopravvivenza: questo nemico è rappresentato dalla perdurante vitalità della democrazia.
Intendendo per tale l'unica democrazia che c'è, quella che, nonostante l'Europa, non si estende, continua a non estendersi, al di fuori dei confini nazionali. Sono le democrazie europee, necessariamente condizionate dagli orientamenti dei loro elettorati, a minacciare oggi la moneta unica. Quando si dice che fu la rigidità della cancelliera Angela Merkel, motivata dalla resistenza dell'elettorato tedesco a pagare per il malgoverno altrui, a fare precipitare la crisi greca e a trasformarla nel detonatore di una più vasta crisi dell'euro, si sta appunto dicendo che la democrazia entrò allora in rotta di collisione con le esigenze dell'Europa monetaria. Ed è ancora ai meccanismi democratici che si fa riferimento quando ci si interroga sull'eventualità che in Irlanda venga a mancare una maggioranza politica in grado di sostenere le misure di risanamento con effetti a catena sulla zona euro. O quando si attende col fiato sospeso una possibile sentenza della Corte costituzionale tedesca che dichiarando illegali i salvataggi dei Paesi in difficoltà tolga ogni residua difesa alla moneta unica.
Quando si dice che l'Europa è la nostra «casa comune» si dice una cosa vera ma incompleta. Bisognerebbe infatti precisare che questa casa comune è in realtà un condominio con ventisette appartamenti. I condomini, pur essendo obbligati a convivere, considerano davvero «casa» solo il loro appartamento mentre il condominio ha valore ai loro occhi unicamente per i servizi che riesce a garantire a ciascun condomino. Come in tutti i condomini, hanno più onori e oneri i proprietari di appartamento che dispongono di più millesimi. E, come in tanti condomini, si litiga, si cerca di scaricare il più possibile sugli altri i costi dei servizi comuni. Come spesso accade, inoltre, i condomini più sciatti, meno virtuosi (quelli che danneggiano il giardino o dimenticano aperti i rubinetti dell'acqua provocando danni negli appartamenti vicini) cercano di scaricare, in tutto o in parte, i costi della loro sciatteria sui condomini virtuosi.
L'immagine del condominio ci aiuta a mettere a fuoco un fatto che, parlando d'Europa, non bisognerebbe mai dimenticare, ossia la circostanza per cui i francesi, i tedeschi, e tutti gli altri (persino noi italiani), a oltre mezzo secolo dall'inizio del processo di integrazione europea, continuano a considerare la loro appartenenza nazionale molto più importante della loro comune appartenenza europea. Il «noi» Stato - nazionale (Francia, Germania, Spagna, eccetera) resta assai più sentito del «noi» Europa. E anche dove, come in Italia, le lacerazioni interne sono profonde (e lo stesso Stato unitario viene sempre più spesso messo in discussione) ciò non comporta affatto la sostituzione dell'identità nazionale con una identità europea. Per questo, le democrazie nazionali restano forti e vitali e il loro orizzonte non è al momento superabile.
Va precisato, per coloro che tendono a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore, che qui si sta constatando un fatto senza fare apprezzamenti. Dal momento che è una scelta saggia guardare ai fatti per come sono, anche quando non ci piacciono, piuttosto che girare la testa dall'altra parte.
Possiamo spiegare la suddetta circostanza in vari modi. Possiamo vedervi il frutto di una eredità storica che continua a indirizzare le lealtà dei cittadini verso simboli nazionali. Oppure, possiamo spiegarla in termini di calcoli e convenienze: si preferiscono centri decisionali nazionali perché danno ai cittadini l'illusione di essere da loro più controllabili, e quindi più attenti ai loro interessi, rispetto a un lontano centro decisionale europeo. Comunque sia, resta che, stante la vitalità della democrazia nazionale, i leader devono continuare a rispondere ai loro elettori e che meccanismi democratici di centralizzazione delle decisioni e di legittimazione del potere a livello europeo non possono facilmente sostituirsi a quelli nazionali. È anche la ragione per la quale la Germania, frustrando l'aspettativa di tanti, non riesce ad essere il leader dell'Europa: un leader è tale se sa farsi carico delle esigenze degli altri, ma i governi tedeschi, come tutti i governi democratici, sono obbligati a mettere al primo posto le esigenze dei loro elettori.
Quando nacque l'euro tutti pensarono che esso non avrebbe retto nel lungo periodo senza un salto di qualità sul piano dell'integrazione politica. L'euforia di quei giorni spinse però molti a scommettere che sarebbe stata proprio la moneta unica, in virtù dei benefici che era in grado di dispensare, a fare prima o poi il miracolo, a obbligare gli europei a crearle un contraltare, o un contenitore, politico. Fu un calcolo sbagliato.
Se le cose stanno così, per salvare l'euro, dovremo inventarci cose diverse da quelle che di solito vengono proposte. È inutile continuare a inseguire il miraggio degli Stati Uniti d'Europa, di una democrazia continentale che oggi (per il futuro si vedrà) gli europei non vogliono e non chiedono. Meglio, senza ipocrisie, fare appello alle convenienze: conviene a tutti, anche agli elettori tedeschi, che l'euro non affondi. E sperare che, passata in un modo o nell'altro la nottata, si ricostituisca la compatibilità, oggi perduta, fra la razionalità politica (democratica) e la razionalità economica.
olor=blue]]]***p.s. Intendo, nel titolo, riferirmi a discussioni di natura politica, tra le stesse forze politiche lungimiranti che non esistono, ora[/size].[/b]
Scritto da Angelo Panebianco
lunedì 29 novembre 2010
Corriere della Sera - Se si leggono in controluce le tante analisi che gli economisti dedicano alla bufera che, dalla crisi greca a quella irlandese (ma Portogallo e Spagna sono già nel mirino), ha investito l'Europa monetaria, non è difficile scoprire quale sia oggi il vero nemico dell'euro, quello che ne minaccia la sopravvivenza: questo nemico è rappresentato dalla perdurante vitalità della democrazia.
Intendendo per tale l'unica democrazia che c'è, quella che, nonostante l'Europa, non si estende, continua a non estendersi, al di fuori dei confini nazionali. Sono le democrazie europee, necessariamente condizionate dagli orientamenti dei loro elettorati, a minacciare oggi la moneta unica. Quando si dice che fu la rigidità della cancelliera Angela Merkel, motivata dalla resistenza dell'elettorato tedesco a pagare per il malgoverno altrui, a fare precipitare la crisi greca e a trasformarla nel detonatore di una più vasta crisi dell'euro, si sta appunto dicendo che la democrazia entrò allora in rotta di collisione con le esigenze dell'Europa monetaria. Ed è ancora ai meccanismi democratici che si fa riferimento quando ci si interroga sull'eventualità che in Irlanda venga a mancare una maggioranza politica in grado di sostenere le misure di risanamento con effetti a catena sulla zona euro. O quando si attende col fiato sospeso una possibile sentenza della Corte costituzionale tedesca che dichiarando illegali i salvataggi dei Paesi in difficoltà tolga ogni residua difesa alla moneta unica.
Quando si dice che l'Europa è la nostra «casa comune» si dice una cosa vera ma incompleta. Bisognerebbe infatti precisare che questa casa comune è in realtà un condominio con ventisette appartamenti. I condomini, pur essendo obbligati a convivere, considerano davvero «casa» solo il loro appartamento mentre il condominio ha valore ai loro occhi unicamente per i servizi che riesce a garantire a ciascun condomino. Come in tutti i condomini, hanno più onori e oneri i proprietari di appartamento che dispongono di più millesimi. E, come in tanti condomini, si litiga, si cerca di scaricare il più possibile sugli altri i costi dei servizi comuni. Come spesso accade, inoltre, i condomini più sciatti, meno virtuosi (quelli che danneggiano il giardino o dimenticano aperti i rubinetti dell'acqua provocando danni negli appartamenti vicini) cercano di scaricare, in tutto o in parte, i costi della loro sciatteria sui condomini virtuosi.
L'immagine del condominio ci aiuta a mettere a fuoco un fatto che, parlando d'Europa, non bisognerebbe mai dimenticare, ossia la circostanza per cui i francesi, i tedeschi, e tutti gli altri (persino noi italiani), a oltre mezzo secolo dall'inizio del processo di integrazione europea, continuano a considerare la loro appartenenza nazionale molto più importante della loro comune appartenenza europea. Il «noi» Stato - nazionale (Francia, Germania, Spagna, eccetera) resta assai più sentito del «noi» Europa. E anche dove, come in Italia, le lacerazioni interne sono profonde (e lo stesso Stato unitario viene sempre più spesso messo in discussione) ciò non comporta affatto la sostituzione dell'identità nazionale con una identità europea. Per questo, le democrazie nazionali restano forti e vitali e il loro orizzonte non è al momento superabile.
Va precisato, per coloro che tendono a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore, che qui si sta constatando un fatto senza fare apprezzamenti. Dal momento che è una scelta saggia guardare ai fatti per come sono, anche quando non ci piacciono, piuttosto che girare la testa dall'altra parte.
Possiamo spiegare la suddetta circostanza in vari modi. Possiamo vedervi il frutto di una eredità storica che continua a indirizzare le lealtà dei cittadini verso simboli nazionali. Oppure, possiamo spiegarla in termini di calcoli e convenienze: si preferiscono centri decisionali nazionali perché danno ai cittadini l'illusione di essere da loro più controllabili, e quindi più attenti ai loro interessi, rispetto a un lontano centro decisionale europeo. Comunque sia, resta che, stante la vitalità della democrazia nazionale, i leader devono continuare a rispondere ai loro elettori e che meccanismi democratici di centralizzazione delle decisioni e di legittimazione del potere a livello europeo non possono facilmente sostituirsi a quelli nazionali. È anche la ragione per la quale la Germania, frustrando l'aspettativa di tanti, non riesce ad essere il leader dell'Europa: un leader è tale se sa farsi carico delle esigenze degli altri, ma i governi tedeschi, come tutti i governi democratici, sono obbligati a mettere al primo posto le esigenze dei loro elettori.
Quando nacque l'euro tutti pensarono che esso non avrebbe retto nel lungo periodo senza un salto di qualità sul piano dell'integrazione politica. L'euforia di quei giorni spinse però molti a scommettere che sarebbe stata proprio la moneta unica, in virtù dei benefici che era in grado di dispensare, a fare prima o poi il miracolo, a obbligare gli europei a crearle un contraltare, o un contenitore, politico. Fu un calcolo sbagliato.
Se le cose stanno così, per salvare l'euro, dovremo inventarci cose diverse da quelle che di solito vengono proposte. È inutile continuare a inseguire il miraggio degli Stati Uniti d'Europa, di una democrazia continentale che oggi (per il futuro si vedrà) gli europei non vogliono e non chiedono. Meglio, senza ipocrisie, fare appello alle convenienze: conviene a tutti, anche agli elettori tedeschi, che l'euro non affondi. E sperare che, passata in un modo o nell'altro la nottata, si ricostituisca la compatibilità, oggi perduta, fra la razionalità politica (democratica) e la razionalità economica.
olor=blue]]]***p.s. Intendo, nel titolo, riferirmi a discussioni di natura politica, tra le stesse forze politiche lungimiranti che non esistono, ora[/size].[/b]
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Questi due articoli, correlati, molto interessanti.
Wikileaks: spioni manovrati o terroristi del bit?
Scritto da Rodolfo Casadei
Monday 29 November 2010
Un atto di terrorismo elettronico che compromette la sicurezza internazionale e meriterebbe la forca? La manovra di qualche servizio segreto che mira a provocare una guerra o un colpo di Stato? Una benemerita operazione di trasparenza salutare per la democrazia e la crescita dello spirito civico in tutto il mondo? Dei tre ipotetici giudizi che si potrebbero formulare sulla rivelazione, da parte del sito Wikileaks e di alcune delle più importanti testate giornalistiche, di 250 mila dispacci trasmessi dalle ambasciate degli Stati Uniti nel mondo negli ultimi 40 anni, scelti fra 2 milioni circa trafugati, l'unico da escludere a priori è il terzo.
La corrispondenza diplomatica ha diritto alla riservatezza quanto e più di quella privata, perché da essa dipende la sicurezza pubblica, e nella maggior parte dei paesi occidentali esistono leggi che regolano la declassificazione di questi documenti dopo un certo numero di anni, allorchè gli archivi vengono aperti a tutti. Il materiale in questione proviene inoltre da un solo paese, gli Stati Uniti, cosa che produce un vantaggio indebito per gli Stati suoi concorrenti nella lotta per una maggiore influenza a livello mondiale, e non si tratta sempre di Stati più liberi e rispettosi dei diritti umani: anzi.
Che le recenti rivelazioni non possano essere solo il prodotto dell'azione di militanti del diritto all'informazione e diplomatici o alti gradi militari presi da crisi di coscienza (o più semplicemente felloni) è convinzione che ha i tratti della certezza morale. Così come quella che dietro l'inafferrabile Julian Assange si celino uno o più servizi segreti che avrebbero aiutato un sito Internet sull'orlo della bancarotta a diventare uno strumento di destabilizzazione internazionale eccezionalmente ben informato e il suo fondatore un'inafferrabile primula rossa.
Wikileaks non applica a se stesso i princìpi di trasparenza integrale che pretende per la diplomazia internazionale, e questo rende legittimo ogni sospetto. Fra le testate coinvolte nell'operazione, El Pais, che non conosce il senso del ridicolo, scrive che «la pubblicazione di queste informazioni e la trasparenza migliorano la salute delle democrazie»; con meno ipocrisia Le Monde si giustifica così: «A partire dal momento in cui questa massa di documentazione è stata trasmessa, sia pure illegalmente, a WikiLeaks, e dunque poteva in qualunque momento diventare di dominio pubblico, Le Monde ha giudicato che fosse suo compito prendere conoscenza di questi documenti, farne un'analisi giornalistica e metterla a disposizione dei suoi lettori».
Una giustificazione che si potrebbe tollerare a una sola condizione: che i media internazionali indaghino su Wikileaks e le sue diramazioni con tenacia pari al cinismo con cui hanno messo a disposizione le loro pagine a un atto di pirateria politica internazionale che potrebbe sfociare in guerre catastrofiche. Una possibilità sempre incombente quando grandi idealisti come Assange e grandi cinici come i dirigenti delle centrali dello spionaggio e del controspionaggio scoprono di avere interessi in comune.
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Wikileaks, una bufala mondiale
Scritto da Paolo Della Sala
lunedì 29 novembre 2010
Niente di nuovo sotto il cielo. Wikileaks è la più grande bufala giornalistica dai tempi di Marconi. Non una delle indiscrezioni strillate esprime una qualsiasi novità. Inoltre -si noti bene- le mail esprimono comunque i pareri dei funzionari di ambasciata in diverse nazioni, e qui si deve dire cosa mai potrà capire un americano a Roma o Calcutta, se nemmeno un romano "de' " Roma riesce a capire nulla della politica romana...
Il contesto italiano è chiaramente desunto dalla lettura dei quotidiani, ed è pieno di cose ovvie e risapute. Lo stesso anche per il resto del mondo.
Wikileaks è una "macchina da guerra" utile per i giornali. Al massimo è un colpo contro la credibilità della Clinton e di Obama (ma Obama la mette giù chiaramente, in una dichiarazione alla stampa: "By its very nature, field reporting to Washington is candid and often incomplete information. It is not an expression of policy, nor does it always shape final policy decisions."
Che Italia e Germania flirtassero con Putin è cosa risaputa persino dai criceti dell'Amazzonia. L'Italia (già col governo Prodi) per di più ha mollato Nabucco, la pipeline strategica dal Caspio al Mediterraneo, voluta dagli angloamericani, tradendo in stile "italiano" (purtroppo nel mondo abbiamo la nomea di doppiogiochisti) per passare armi e bagagli con South Stream, che è la pipeline concorrente di Nabucco, voluta dai russi con Gazprom ed Eni. Ciò ha prodotto e produce reazioni anche pesanti nei confronti dei nostri governi. Ma ciò è normale, per chi conosce il significato della parola "geopolitica".
Che il Segretario dell'Onu sia sotto controllo da parte degli USA è risaputo fin dalla notte dei tempi.
Che Gheddafi sia quello descritto è una barzelletta (vagli a spiegare agli americani la filosofia mediterranea del "bunga bunga").
L'unica novità che mi viene in mente dalle prime letture è quella dell'Arabia Saudita che finanzierebbe Al Qaida (sempre di opinioni si tratta, nota bene). A quanti si stupiscono perché gli arabi sarebbero a favore di un attacco contro Teheran, rispondo che è dal 1980 che l'Arabia si è schierata con l'Occidente contro il komeinismo, sostenendo prima Saddam (come gli occidentali) nella guerra contro l'Iran, e poi combattendo la prima guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait, quando Saddam impazzì.
Ma anche l'eventuale doppio gioco arabo su Al Qaida è cosa che gli addetti ai lavori ritengono possibile (ma solo in parte e in certi scacchieri) dalla fine degli anni '90 almeno.
Quindi? Quindi la cyberguerra è una cosa ben più seria, ed è fatta da gente più competente del fondatore di Wikileaks. Ne ho parlato due giorni fa, trattando del malware che è riuscito a interrompere il programma nucleare iraniano.
La tempesta di questi giorni è una tempesta puramente mediatica, che mira a portare a conoscenza delle masse l'ovvio, il quotidiano, il banale di ciò che pensano i funzionari delle ambasciate americane sparse nel mondo. Se ciò servisse a fare maturare la coscienza e la conoscenza delle cose del mondo a un numero più alto di persone, la cosa sarebbe persino positiva. Temo che il tutto si ridurrà a un megagossip mondializzato.
I media mainstream ormai giocano un ruolo pesante nella politica, attribuendo a se stessi la missione salvifica individuata come lebbra dell'informazione da Kaplan in Media Evo - pubblicato in Italia dalla rivista Aspenia nel 2007. La vera notizia non sono i contenuti "svelati" da Wikileaks, ma il tam tam mondiale sul nulla o quasi che ne segue.
"Almanacchi! Almanacchi nuovi!", si potrebbe ripetere con Leopardi.
Il Mondo come gossip e rappresentazione, potremmo ripetere con Schopenhauer.
Scritto da Rodolfo Casadei
Monday 29 November 2010
Un atto di terrorismo elettronico che compromette la sicurezza internazionale e meriterebbe la forca? La manovra di qualche servizio segreto che mira a provocare una guerra o un colpo di Stato? Una benemerita operazione di trasparenza salutare per la democrazia e la crescita dello spirito civico in tutto il mondo? Dei tre ipotetici giudizi che si potrebbero formulare sulla rivelazione, da parte del sito Wikileaks e di alcune delle più importanti testate giornalistiche, di 250 mila dispacci trasmessi dalle ambasciate degli Stati Uniti nel mondo negli ultimi 40 anni, scelti fra 2 milioni circa trafugati, l'unico da escludere a priori è il terzo.
La corrispondenza diplomatica ha diritto alla riservatezza quanto e più di quella privata, perché da essa dipende la sicurezza pubblica, e nella maggior parte dei paesi occidentali esistono leggi che regolano la declassificazione di questi documenti dopo un certo numero di anni, allorchè gli archivi vengono aperti a tutti. Il materiale in questione proviene inoltre da un solo paese, gli Stati Uniti, cosa che produce un vantaggio indebito per gli Stati suoi concorrenti nella lotta per una maggiore influenza a livello mondiale, e non si tratta sempre di Stati più liberi e rispettosi dei diritti umani: anzi.
Che le recenti rivelazioni non possano essere solo il prodotto dell'azione di militanti del diritto all'informazione e diplomatici o alti gradi militari presi da crisi di coscienza (o più semplicemente felloni) è convinzione che ha i tratti della certezza morale. Così come quella che dietro l'inafferrabile Julian Assange si celino uno o più servizi segreti che avrebbero aiutato un sito Internet sull'orlo della bancarotta a diventare uno strumento di destabilizzazione internazionale eccezionalmente ben informato e il suo fondatore un'inafferrabile primula rossa.
Wikileaks non applica a se stesso i princìpi di trasparenza integrale che pretende per la diplomazia internazionale, e questo rende legittimo ogni sospetto. Fra le testate coinvolte nell'operazione, El Pais, che non conosce il senso del ridicolo, scrive che «la pubblicazione di queste informazioni e la trasparenza migliorano la salute delle democrazie»; con meno ipocrisia Le Monde si giustifica così: «A partire dal momento in cui questa massa di documentazione è stata trasmessa, sia pure illegalmente, a WikiLeaks, e dunque poteva in qualunque momento diventare di dominio pubblico, Le Monde ha giudicato che fosse suo compito prendere conoscenza di questi documenti, farne un'analisi giornalistica e metterla a disposizione dei suoi lettori».
Una giustificazione che si potrebbe tollerare a una sola condizione: che i media internazionali indaghino su Wikileaks e le sue diramazioni con tenacia pari al cinismo con cui hanno messo a disposizione le loro pagine a un atto di pirateria politica internazionale che potrebbe sfociare in guerre catastrofiche. Una possibilità sempre incombente quando grandi idealisti come Assange e grandi cinici come i dirigenti delle centrali dello spionaggio e del controspionaggio scoprono di avere interessi in comune.
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Wikileaks, una bufala mondiale
Scritto da Paolo Della Sala
lunedì 29 novembre 2010
Niente di nuovo sotto il cielo. Wikileaks è la più grande bufala giornalistica dai tempi di Marconi. Non una delle indiscrezioni strillate esprime una qualsiasi novità. Inoltre -si noti bene- le mail esprimono comunque i pareri dei funzionari di ambasciata in diverse nazioni, e qui si deve dire cosa mai potrà capire un americano a Roma o Calcutta, se nemmeno un romano "de' " Roma riesce a capire nulla della politica romana...
Il contesto italiano è chiaramente desunto dalla lettura dei quotidiani, ed è pieno di cose ovvie e risapute. Lo stesso anche per il resto del mondo.
Wikileaks è una "macchina da guerra" utile per i giornali. Al massimo è un colpo contro la credibilità della Clinton e di Obama (ma Obama la mette giù chiaramente, in una dichiarazione alla stampa: "By its very nature, field reporting to Washington is candid and often incomplete information. It is not an expression of policy, nor does it always shape final policy decisions."
Che Italia e Germania flirtassero con Putin è cosa risaputa persino dai criceti dell'Amazzonia. L'Italia (già col governo Prodi) per di più ha mollato Nabucco, la pipeline strategica dal Caspio al Mediterraneo, voluta dagli angloamericani, tradendo in stile "italiano" (purtroppo nel mondo abbiamo la nomea di doppiogiochisti) per passare armi e bagagli con South Stream, che è la pipeline concorrente di Nabucco, voluta dai russi con Gazprom ed Eni. Ciò ha prodotto e produce reazioni anche pesanti nei confronti dei nostri governi. Ma ciò è normale, per chi conosce il significato della parola "geopolitica".
Che il Segretario dell'Onu sia sotto controllo da parte degli USA è risaputo fin dalla notte dei tempi.
Che Gheddafi sia quello descritto è una barzelletta (vagli a spiegare agli americani la filosofia mediterranea del "bunga bunga").
L'unica novità che mi viene in mente dalle prime letture è quella dell'Arabia Saudita che finanzierebbe Al Qaida (sempre di opinioni si tratta, nota bene). A quanti si stupiscono perché gli arabi sarebbero a favore di un attacco contro Teheran, rispondo che è dal 1980 che l'Arabia si è schierata con l'Occidente contro il komeinismo, sostenendo prima Saddam (come gli occidentali) nella guerra contro l'Iran, e poi combattendo la prima guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait, quando Saddam impazzì.
Ma anche l'eventuale doppio gioco arabo su Al Qaida è cosa che gli addetti ai lavori ritengono possibile (ma solo in parte e in certi scacchieri) dalla fine degli anni '90 almeno.
Quindi? Quindi la cyberguerra è una cosa ben più seria, ed è fatta da gente più competente del fondatore di Wikileaks. Ne ho parlato due giorni fa, trattando del malware che è riuscito a interrompere il programma nucleare iraniano.
La tempesta di questi giorni è una tempesta puramente mediatica, che mira a portare a conoscenza delle masse l'ovvio, il quotidiano, il banale di ciò che pensano i funzionari delle ambasciate americane sparse nel mondo. Se ciò servisse a fare maturare la coscienza e la conoscenza delle cose del mondo a un numero più alto di persone, la cosa sarebbe persino positiva. Temo che il tutto si ridurrà a un megagossip mondializzato.
I media mainstream ormai giocano un ruolo pesante nella politica, attribuendo a se stessi la missione salvifica individuata come lebbra dell'informazione da Kaplan in Media Evo - pubblicato in Italia dalla rivista Aspenia nel 2007. La vera notizia non sono i contenuti "svelati" da Wikileaks, ma il tam tam mondiale sul nulla o quasi che ne segue.
"Almanacchi! Almanacchi nuovi!", si potrebbe ripetere con Leopardi.
Il Mondo come gossip e rappresentazione, potremmo ripetere con Schopenhauer.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ci sono articoli che dovrebbero servire...
"Wikileaks, una bufala mondiale."
E' esattamente così.
Grazie Luciano
E' esattamente così.
Grazie Luciano
Angela- Admin
- Numero di messaggi : 801
Età : 39
Località : Benaco
Data d'iscrizione : 04.11.08
Vedi questo, Angela.
Wikileaks, Di Nolfo: Aria fritta per i gonzi
La corrispondenza diplomatica è sempre stata ricca di anedottica, basti pensare alle indiscrezioni sulla vita privata di Cavour
Roma, 29 nov (Il Velino) - “Non credo che quanto pubblicato da Wikileaks causerà proteste diplomatiche. Se qualcuno le dovesse sollevare, sarebbe solo per pretesto. È un’operazione messa in piedi per promuovere il sito fatto da astuti personaggi che vogliono guadagnare dei soldi e per buttare fumo su problemi ben più grandi”. Ne è convinto il professor Ennio Di Nolfo, docente emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Firenze, che ha commentato al VELINO la vicenda della pubblicazione dei documenti segreti statunitensi. “Bisogna fare una distinzione netta - ha spiegato il professore -, tra chi non è del mestiere e chi invece lo è. Per i primi, le notizie ‘buttate’ sui giornali sono una novità straordinaria. Per i secondi, invece, si tratta di aria fritta per i gonzi. L’unico documento di un certo rilievo è quello dei sauditi in cui chiedono agli Stati Uniti di ‘tagliare la testa al serpente’ e cioè di attaccare l’Iran, ma credo che i diretti interessati lo sapessero già. Per cui non credo ci saranno crisi dovute alla pubblicazione di queste carte. Da quando ho cominciato a studiare negli anni’50 del secolo scorso, infatti, mi sono imbattuto nella corrispondenza diplomatica e sul piano delle relazioni discrete è sempre stata ricca di aneddotica su varie persone. Basti pensare alle indiscrezioni sulla vita privata e i costumi di Cavour: se ne trovano di tutti i colori. Al diario di Galeazzo Ciano, alle memorie di Henry Kissinger su Nixon, al rapporto 20esimo congresso nel 56 su Stalin. Insomma,c’è di tutto su tutti gli statisti del mondo”.
“Per l’Italia, per esempio, c’è un programma per principali istituti ricerca che prevede la pubblicazione online della corrispondenza di tutti i nostri politici prima e dopo la guerra - ha sottolineato Di Nolfo -. Questi ultimi hanno depositato presso fondazioni come Nenni, Turati e Sturzo le loro carte e queste sono state messe online in Italia. Se poi uno guarda al resto del mondo, basta cliccare qua e là si trova di tutto. Il Coldwar international histroy progam, che ha sede a Washington presso il Wilson center, è il principale centro di documentazione sulla guerra fredda e da circa 40 anni pubblica immense raccolte documenti sui principali problemi dopoguerra. C’è poi il National security archive, che ha come compito far funzionare il Freedom of information act e ottenere la declassificazione carte su più di 10 anni. Comunque - spiega il professore -, basta andare sul sito della Cia, dove si trovano gran parte di queste carte. Io stesso ho pubblicato nel 1975-1976 sul Corriere della Sera, documenti americani riservati molto più duri sulla situazione italiana e altrettanti documenti italiani su quella americana. Li ho poi ripubblicati e ristampati recentemente e non è successo nulla. Non c’è stata nessuna crisi diplomatica”.
(fbu) 29 nov 2010 12:35
http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=1250112
La corrispondenza diplomatica è sempre stata ricca di anedottica, basti pensare alle indiscrezioni sulla vita privata di Cavour
Roma, 29 nov (Il Velino) - “Non credo che quanto pubblicato da Wikileaks causerà proteste diplomatiche. Se qualcuno le dovesse sollevare, sarebbe solo per pretesto. È un’operazione messa in piedi per promuovere il sito fatto da astuti personaggi che vogliono guadagnare dei soldi e per buttare fumo su problemi ben più grandi”. Ne è convinto il professor Ennio Di Nolfo, docente emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Firenze, che ha commentato al VELINO la vicenda della pubblicazione dei documenti segreti statunitensi. “Bisogna fare una distinzione netta - ha spiegato il professore -, tra chi non è del mestiere e chi invece lo è. Per i primi, le notizie ‘buttate’ sui giornali sono una novità straordinaria. Per i secondi, invece, si tratta di aria fritta per i gonzi. L’unico documento di un certo rilievo è quello dei sauditi in cui chiedono agli Stati Uniti di ‘tagliare la testa al serpente’ e cioè di attaccare l’Iran, ma credo che i diretti interessati lo sapessero già. Per cui non credo ci saranno crisi dovute alla pubblicazione di queste carte. Da quando ho cominciato a studiare negli anni’50 del secolo scorso, infatti, mi sono imbattuto nella corrispondenza diplomatica e sul piano delle relazioni discrete è sempre stata ricca di aneddotica su varie persone. Basti pensare alle indiscrezioni sulla vita privata e i costumi di Cavour: se ne trovano di tutti i colori. Al diario di Galeazzo Ciano, alle memorie di Henry Kissinger su Nixon, al rapporto 20esimo congresso nel 56 su Stalin. Insomma,c’è di tutto su tutti gli statisti del mondo”.
“Per l’Italia, per esempio, c’è un programma per principali istituti ricerca che prevede la pubblicazione online della corrispondenza di tutti i nostri politici prima e dopo la guerra - ha sottolineato Di Nolfo -. Questi ultimi hanno depositato presso fondazioni come Nenni, Turati e Sturzo le loro carte e queste sono state messe online in Italia. Se poi uno guarda al resto del mondo, basta cliccare qua e là si trova di tutto. Il Coldwar international histroy progam, che ha sede a Washington presso il Wilson center, è il principale centro di documentazione sulla guerra fredda e da circa 40 anni pubblica immense raccolte documenti sui principali problemi dopoguerra. C’è poi il National security archive, che ha come compito far funzionare il Freedom of information act e ottenere la declassificazione carte su più di 10 anni. Comunque - spiega il professore -, basta andare sul sito della Cia, dove si trovano gran parte di queste carte. Io stesso ho pubblicato nel 1975-1976 sul Corriere della Sera, documenti americani riservati molto più duri sulla situazione italiana e altrettanti documenti italiani su quella americana. Li ho poi ripubblicati e ristampati recentemente e non è successo nulla. Non c’è stata nessuna crisi diplomatica”.
(fbu) 29 nov 2010 12:35
http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=1250112
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Finmeccanica il primo, molto importante.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/pelanda.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/bellachioma.pdf
https://www.facebook.com/home.php?ref=home#!/photo.php?fbid=174132619281213&set=a.116288878398921.14594.116286145065861
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/bellachioma.pdf
https://www.facebook.com/home.php?ref=home#!/photo.php?fbid=174132619281213&set=a.116288878398921.14594.116286145065861
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Questo è uno di quelli : riflettete, ma non come i siciliani dall'altra parte.
L’Italia ha 4213 suoi soldati in Afghanistan, mandati lì a rischiare la vita dopo l’attacco di Osama Bin Laden alle Torri Gemelle. Fu Silvio Berlusconi allora presidente del Consiglio a non esitare un istante ad aderire a quella richiesta degli Stati Uniti che erano stati colpiti al cuore insieme a tutto l’Occidente. Fu sempre Berlusconi a seguire gli Stati Uniti quando si trattò di inviare le truppe in Iraq. Insieme alla Gran Bretagna non c’è stato alleato più stretto degli Stati Uniti dell’Italia di Berlusconi. Non c’era bisogno della dichiarazione di affetto di Hilary Clinton per dimostrarlo: i fatti contano sempre più delle parole. Ma proprio in nome di questi fatti non può bastare una bicchierata davanti ai fotografi durante una riunione internazionale per riparare le ferite inferte non a Berlusconi, ma al Paese stesso in quei fonogrammi rivelati da Wikileaks e inviati dall’ambasciata americana di Roma e destinati alla segreteria di Stato a Washington. C’è stato chi ha riso e chi ci ha speculato sopra come un avvoltoio, leggendo delle feste selvagge e dei dubbi sulla salute del presidente del Consiglio italiano, o dell’infinita serie di pettegolezzi raccolta da e sui suoi collaboratori. Quelle minute che appartengono a tre diversi periodi (ambasciatore Ronald P. Spogli, reggente Elizabeth Dibble e ambasciatore David Thorne) assomigliano in effetti a una ingiallita minuta del Sifar o alle schede dell’archivio di Pio Pompa. Ma proprio per questo alla loro lettura non ce la si può cavare con un’alzata di spalle. Perché una cosa è evidente: la struttura diplomatica americana in Italia non è stata all’altezza del suo compito in questi anni, e il governo italiano non dovrebbe fare finta di non avere letto perdonando la marachella.
NESSUN SERVETTO
Un paese che ha offerto la vita dei suoi soldati anche di fronte a dubbi espliciti per la causa americana, non può accettare di essere trattato come una colonia-servetta dell’impero. Dispacci come quelli che abbiamo letto forse hanno traccia ben nota negli anni negli archivi delle ambasciate Usa nell’America centrale e latina, dove la realpolitik della segreteria di Stato aiutata dalla Cia faceva e disfaceva regimi a suo piacimento, insediando dittatori fantocci che poi magari venivano derisi nei fonogrammi con Washington. Ma l’Italia non è uno staterello satellite della colonizzazione americana dei tempi che furono. Con Berlusconi si è rivelato il secondo alleato degli Stati Uniti nella difesa e nella lotta al terrorismo, e come tutti gli altri paesi del mondo sta pagando ancora un prezzo economico altissimo alla crisi internazionale che fu innescata dalla follia della finanza americana. Non è accettabile che questo paese e questo governo possano essere trattati come è avvenuto in quei dispacci. È una ferita che non può essere sanata da una stretta di mano e da un sorriso della Clinton. Per difendere l’immagine non solo del suo governo, ma del paese, sarebbe necessario oggi un passo formale del premier con gli Stati Uniti per chiedere una riparazione sostanziale che non può passare per altre vie se non quelle di un cambio robusto nella struttura diplomatica di sede a Roma. Sarebbe un gesto forte, certo difficile da fare ora che il governo è atteso da una missione quasi impossibile come ottenere la fiducia delle Camere. Ma l’alzata di testa è necessaria anche per altri motivi, strettamente connessi con le rivelazioni di Wikileaks. Ci sono motivi di sostanza e di contenuto. Gli Stati Uniti non sono in grado di rinfacciare a chicchessia il rapporto con la Russia o con la Libia. Nel caso di Vladimir Putin non più di due settimane fa Barack Obama ha stretto non un banale accordo commerciale sul gas, ma un’intesa sulla difesa missilistica comune chiudendo anche il trattato Start sul disarmo nucleare.. Gli Stati Uniti considerano Putin così affidabile da venire a patti con lui sulla questione più delicata che esista, e quindi non hanno alcun diritto di mettere bocca su un accordo economico che consente all’Italia di pagare un po’ meno l’energia. Nel caso di Gheddafi l’Italia ha avuto lunghi contrasti che l’hanno danneggiata negli anni per essere fedele all’ostracismo americano. Solo quando questo è venuto meno e Gheddafi è stato riabilitato post Lokerbie, anche l’Italia si è mossa per difendere i suoi interessi come è giusto faccia un paese libero e sovrano.
Ma non bastano le forme sopra citate e i contenuti appena esposti a obbligare Berlusconi a uno scatto di orgoglio, alzando la testa. C’è anche una questione rilevantissima di metodo. A una settimana circa dall’annuncio delle rilevazioni di Wikileaks è ormai lampante che quella prima interpretazione del governo italiano (la teoria del complotto) non fosse affatto una barzelletta. Solo gli stolti ormai possono credere che quella violazione del segreto americano sia stata possibile per l’abilità di qualche hacker. È evidente nella diffusione di quei documenti la manina di un regista esperto e sapiente. A livello internazionale si stanno destabilizzando- è evidente- gli Stati Uniti e soprattutto la loro politica estera che rischia di andare in frantumi su molti scacchieri mondiali (in primis il Medio Oriente). Molti si sono chiesti a chi giova tutto questo. La Turchia ha risposto secca: ad Israele. Nella risposta forse c’è un’antica inimicizia, ma non si può dire che sia del tutto priva di senso. Nel piccolo si sta destabilizzando anche l’Italia. Qui dire a chi giova è più semplice: a chi sta sfruttando quegli archivi alla Pio Pompa. Magari con qualche problema di coscienza da ieri per gente alla Pierluigi Bersani o alla Massimo D’Alema che si sono letti fra le minute i generosi e ingenui proclami di Berlusconi che garantiva l’ambasciatore Usa sulla loro serietà e affidabilità. Certo, per avere problemi di coscienza bisognerebbe averne una, e nel caso non è garantito affatto. Non ha nemmeno quel problema comunque Gianfranco Fini, l’altro beneficiario della destabilizzazione italiana provocata da Wikileaks. Da una vita i governi americani si preoccupano delle opposizioni interne di un paese quando hanno buoni rapporti con il governo in carica. E da sempre la diplomazia a stelle e strisce diffida di chi proviene dalla storia comunista.
SPARITA LA SINISTRA
Possibile che fra le notule della ambasciata Usa di Roma non ce ne fosse nemmeno una che si occupasse del Pd nelle varie sigle della sua storia? Possibile che non interessasse agli americani la presenza di ex comunisti nel governo di Romano Prodi? Eppure furono proprio loro (vi ricordate il caso Turigliatto?) a mettere in crisi dopo nemmeno un anno il governo bocciando la sua politica estera e l’alleanza con gli Usa nelle missioni internazionali. Possibile che occupandosi della politica estera italiana si passa ai raggi X premier e ministro degli esteri dell’attuale governo (Berlusconi e Franco Frattini) e invece a proposito del governo del 2004-2005 si citi solo e sempre il premier (sempre Berlusconi) e mai il suo ministro degli Esteri dell’epoca (era Fini)? No, che non è possibile. Quei documenti esistono, e parlano di Fini, di D’Alema, di Prodi, di Bertinotti e dei comunisti italiani. Ma la manina che li sta muovendo con sapienza li tiene blindati nel cassetto. È probabile che i calcoli di quella manina alla fine si rivelino errati. Anche l’Italia è fatta di suoi poteri interni, più o meno forti, più o meno nobili. Tra i loro desideri potrebbe esserci anche quello di chiudere l’era Berlusconi. E fin qui sono allineati con la manina. Ma è difficile pensare che lo vogliano fare se l’alternativa è affidare il paese a un politico di così alta levatura e indipendenza da essersi mostrato come un Gaucci ostaggio imbelle di una famigliola come quella dei Tullianos. E qui le strade con la manina si divideranno. Proprio per questo è necessario che senza indugi oggi Berlusconi alzi la testa di fronte a Wikileaks, prenda di petto la trama che lo sta avvolgendo e non ne resti in balìa. Non lo deve fare per sé, ma per questo Paese, per la dignità degli italiani e per il rispetto che si deve a una democrazia che in troppi ora calpestano.
NESSUN SERVETTO
Un paese che ha offerto la vita dei suoi soldati anche di fronte a dubbi espliciti per la causa americana, non può accettare di essere trattato come una colonia-servetta dell’impero. Dispacci come quelli che abbiamo letto forse hanno traccia ben nota negli anni negli archivi delle ambasciate Usa nell’America centrale e latina, dove la realpolitik della segreteria di Stato aiutata dalla Cia faceva e disfaceva regimi a suo piacimento, insediando dittatori fantocci che poi magari venivano derisi nei fonogrammi con Washington. Ma l’Italia non è uno staterello satellite della colonizzazione americana dei tempi che furono. Con Berlusconi si è rivelato il secondo alleato degli Stati Uniti nella difesa e nella lotta al terrorismo, e come tutti gli altri paesi del mondo sta pagando ancora un prezzo economico altissimo alla crisi internazionale che fu innescata dalla follia della finanza americana. Non è accettabile che questo paese e questo governo possano essere trattati come è avvenuto in quei dispacci. È una ferita che non può essere sanata da una stretta di mano e da un sorriso della Clinton. Per difendere l’immagine non solo del suo governo, ma del paese, sarebbe necessario oggi un passo formale del premier con gli Stati Uniti per chiedere una riparazione sostanziale che non può passare per altre vie se non quelle di un cambio robusto nella struttura diplomatica di sede a Roma. Sarebbe un gesto forte, certo difficile da fare ora che il governo è atteso da una missione quasi impossibile come ottenere la fiducia delle Camere. Ma l’alzata di testa è necessaria anche per altri motivi, strettamente connessi con le rivelazioni di Wikileaks. Ci sono motivi di sostanza e di contenuto. Gli Stati Uniti non sono in grado di rinfacciare a chicchessia il rapporto con la Russia o con la Libia. Nel caso di Vladimir Putin non più di due settimane fa Barack Obama ha stretto non un banale accordo commerciale sul gas, ma un’intesa sulla difesa missilistica comune chiudendo anche il trattato Start sul disarmo nucleare.. Gli Stati Uniti considerano Putin così affidabile da venire a patti con lui sulla questione più delicata che esista, e quindi non hanno alcun diritto di mettere bocca su un accordo economico che consente all’Italia di pagare un po’ meno l’energia. Nel caso di Gheddafi l’Italia ha avuto lunghi contrasti che l’hanno danneggiata negli anni per essere fedele all’ostracismo americano. Solo quando questo è venuto meno e Gheddafi è stato riabilitato post Lokerbie, anche l’Italia si è mossa per difendere i suoi interessi come è giusto faccia un paese libero e sovrano.
Ma non bastano le forme sopra citate e i contenuti appena esposti a obbligare Berlusconi a uno scatto di orgoglio, alzando la testa. C’è anche una questione rilevantissima di metodo. A una settimana circa dall’annuncio delle rilevazioni di Wikileaks è ormai lampante che quella prima interpretazione del governo italiano (la teoria del complotto) non fosse affatto una barzelletta. Solo gli stolti ormai possono credere che quella violazione del segreto americano sia stata possibile per l’abilità di qualche hacker. È evidente nella diffusione di quei documenti la manina di un regista esperto e sapiente. A livello internazionale si stanno destabilizzando- è evidente- gli Stati Uniti e soprattutto la loro politica estera che rischia di andare in frantumi su molti scacchieri mondiali (in primis il Medio Oriente). Molti si sono chiesti a chi giova tutto questo. La Turchia ha risposto secca: ad Israele. Nella risposta forse c’è un’antica inimicizia, ma non si può dire che sia del tutto priva di senso. Nel piccolo si sta destabilizzando anche l’Italia. Qui dire a chi giova è più semplice: a chi sta sfruttando quegli archivi alla Pio Pompa. Magari con qualche problema di coscienza da ieri per gente alla Pierluigi Bersani o alla Massimo D’Alema che si sono letti fra le minute i generosi e ingenui proclami di Berlusconi che garantiva l’ambasciatore Usa sulla loro serietà e affidabilità. Certo, per avere problemi di coscienza bisognerebbe averne una, e nel caso non è garantito affatto. Non ha nemmeno quel problema comunque Gianfranco Fini, l’altro beneficiario della destabilizzazione italiana provocata da Wikileaks. Da una vita i governi americani si preoccupano delle opposizioni interne di un paese quando hanno buoni rapporti con il governo in carica. E da sempre la diplomazia a stelle e strisce diffida di chi proviene dalla storia comunista.
SPARITA LA SINISTRA
Possibile che fra le notule della ambasciata Usa di Roma non ce ne fosse nemmeno una che si occupasse del Pd nelle varie sigle della sua storia? Possibile che non interessasse agli americani la presenza di ex comunisti nel governo di Romano Prodi? Eppure furono proprio loro (vi ricordate il caso Turigliatto?) a mettere in crisi dopo nemmeno un anno il governo bocciando la sua politica estera e l’alleanza con gli Usa nelle missioni internazionali. Possibile che occupandosi della politica estera italiana si passa ai raggi X premier e ministro degli esteri dell’attuale governo (Berlusconi e Franco Frattini) e invece a proposito del governo del 2004-2005 si citi solo e sempre il premier (sempre Berlusconi) e mai il suo ministro degli Esteri dell’epoca (era Fini)? No, che non è possibile. Quei documenti esistono, e parlano di Fini, di D’Alema, di Prodi, di Bertinotti e dei comunisti italiani. Ma la manina che li sta muovendo con sapienza li tiene blindati nel cassetto. È probabile che i calcoli di quella manina alla fine si rivelino errati. Anche l’Italia è fatta di suoi poteri interni, più o meno forti, più o meno nobili. Tra i loro desideri potrebbe esserci anche quello di chiudere l’era Berlusconi. E fin qui sono allineati con la manina. Ma è difficile pensare che lo vogliano fare se l’alternativa è affidare il paese a un politico di così alta levatura e indipendenza da essersi mostrato come un Gaucci ostaggio imbelle di una famigliola come quella dei Tullianos. E qui le strade con la manina si divideranno. Proprio per questo è necessario che senza indugi oggi Berlusconi alzi la testa di fronte a Wikileaks, prenda di petto la trama che lo sta avvolgendo e non ne resti in balìa. Non lo deve fare per sé, ma per questo Paese, per la dignità degli italiani e per il rispetto che si deve a una democrazia che in troppi ora calpestano.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Solo una preoccupazione : che anche i 7 morti ( per ora ) di ieri........
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Cassazione choc: non basta un massacro per dare l’ergastolodi Paolo Granzotto
«Ne ho viste tante durante la mia vita da magistrato, ma stavolta...». Queste le parole pronunciate dal procuratore Antonio Fojadelli dopo aver assistito (...)
(...) all'autopsia dei coniugi Pellicciardi, torturati e quindi uccisi il 21 agosto del 2007 in una vila di Gorgo al Monticano, nella marca trevigiana. E ancora: «Non posso paragonare gli assassini di Gorgo alle bestie perché ho troppo rispetto per gli animali».
Bisogna partire da quelle dichiarazioni per comprendere lo sgomento provocato dalla decisione della Corte di cassazione di revocare l'ergastolo all'albanese Naim Stafa e i vent'anni di reclusione comminati al «palo», il romeno Alin Bogdaneanu, ritenti colpevoli del duplice omicidio (alla mattanza parteciparono altre due canaglie: di una non si è mai conosciuta l'identità, l'altra, l'albanese Artur Lieshi, s’è suicidato in carcere). Bisogna partire da quelle dichiarazioni perché se mai ci fu un delitto efferato, bestiale, se mai ci fu violenza sadica e selvaggia, fu quella cui furono vittime Guido e Lucia Pellicciardi. Potete leggere qui a fianco di cosa si resero capaci le «belve di Goro» e non sarà un bel leggere. Ebbene, per la Corte di cassazione la somma di quelle sevizie e di quelle ferine crudeltà non costituisce quell'aggravante senza la quale cade la pena del carcere a vita. In quanto ai vent'anni inflitti a Bogdaneanu, per la Corte di cassazione rappresentano una pena «sproporzionata al reato effettivamente commesso». Ciò stabilito, i due saranno rinviati in appello perché il Tribunale proceda ad attenuare le condanne.
La legge è la legge ed è dovere del magistrato applicarla. Nessuno discute questo principio, ma qui ci troviamo di fronte a un giudizio personale che ovviamente non ha codifiche: valutare se l'uso della vanga nell'infierire sul corpo di Lucia Pellicciardi possa o non possa ritenersi una aggravante. Cioè un elemento che rende più grave il reato. E così per i vent'anni inflitti a Bogdaneanu: è la canaglia che fornì agli albanesi le informazioni sulla villa e sulle vittime, che disse loro dell'esistenza di una cassaforte, che fornì il così detto «supporto logistico» restando poi di vedetta mentre i complici portavano a termine, come sappiamo, l'impresa. Senza Bogdaneanu non ci sarebbero state torture e omicidio. Senza l'intervento di Bogdaneanu, Guido e Lucia Pellicciardi sarebbero vivi. Affermare dunque che vent'anni sono una condanna sproporzionata al reato commesso dal romeno - quando il semplice «non poteva non sapere» è stata la chiave di volta e di galera del più altisonante procedimento giudiziario degli ultimi tempi, Mani pulite - lascia il cittadino a bocca aperta. Perché il giudizio è inevitabilmente discrezionale e perché lo sminuire le colpe del romeno significa deprezzare il valore della vita dei coniugi Pellicciardi. Che deve contare ben poco se colui che li ha massacrati e l'altro, che del massacro è stato il regista, non si meritano l'ergastolo e i vent'anni di galera ai quali in nome del popolo italiano li aveva condannati un Tribunale.
Nessuno, specie nel nord est teatro delle gesta delle «belve di Goro», s'illude su come andrà a finire. Rifatto il processo e ridotte le pene ai due detenuti, grazie agli scivoli della legge Gozzini - permessi premio, semilibertà, libertà provvisoria eccetera - ce li ritroveremo fra di noi, liberi, in men che non si dica. Liberi e assistiti, aiutati, beneficiati da una dozzina di Ong con vocazione all'«impegno nel sociale» e la predisposizione a privilegiare i Caini sugli Abeli.
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lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Il bunga bunga del pm che indaga sul Cavdi Stefano Zurlo
Lo spettacolino si annuncia scoppiettante fin dal titolo: «Il dittatore del bunga bunga». Con tanto di fotomontaggio di Berlusconi, in mano una maliziosa banana e in testa un berretto alla Fidel Castro come il Woody Allen dittatore di Bananas, e logo dell’Italia dei valori che ha inventato la performance. L’appuntamento è per venerdì 10 dicembre al Paladozza di Bologna con un trenino di politici-penne-toghe da prima serata e audience alle stelle. Ci sarà Antonio Di Pietro e ci sarà Marco Travaglio, presentato come «la penna più irriverente d’Italia», ma al loro fianco si cimenterà con l’arduo tema della manifestazione anche un peso massimo della magistratura come Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo.
Per la verità, i magistrati protagonisti dell’evento saranno due: oltre a Ingroia prenderà la parola anche Bruno Tinti, il fortunato autore del pamphlet Toghe rotte, ma Tinti, proprio per evitare cortocircuiti e per non prestare il fianco a critiche, ha da tempo lasciato la professione. Ingroia invece è in servizio; non solo: è il titolare della delicatissima inchiesta sulla trattativa fra lo Stato e Cosa nostra per fermare le bombe, è il pm che ha ricevuto da Massimo Ciancimino il famigerato papello con le richieste dei corleonesi, ha rappresentato l’accusa al processo Dell’Utri (in primo grado), insomma si occupa di Arcore e dintorni da molti anni oltre a seguire e inseguire tanti altri misteri italiani: è stato lui, per esempio, a riesumare recentemente i resti, presunti, di Salvatore Giuliano per accertare una volta per tutte l’identità del corpo sepolto nel 1950, fra misteri e chiacchiere, nel cimitero di Montelepre.
In sostanza, Ingroia è uno dei pm che da tempo stringono d’assedio Palazzo Chigi e il Cavaliere. Legittimo. Ma fa una certa impressione scoprire che Ingroia prosegue con altri mezzi e su un altro palcoscenico l’attacco sferrato al Cavaliere nelle aule di giustizia. Al mattino s’indaga, la sera si gioca fra satira, musica, giornalismo. Sfruttando un sontuoso parterre: Di Pietro, Travaglio e Ingroia. Ma non solo: ci sarà anche Sergio Rizzo, il giornalista anticasta del Corriere della sera e poi Vauro, con le sue vignette puntute, e il nobel della letteratura più militante della storia, Dario Fo. E ancora, il comico Antonio Cornacchione e il cantautore Andrea Mingardi. A condurre le danze ci penserà un giornalista navigato come David Parenzo, scattante volto della tv, che cercherà il giusto mix fra gli ospiti e i temi, «ripercorrerà - come dicono gli organizzatori - gli ultimi quindici anni di storia italiana analizzando il degrado etico-morale di cui è stato vittima il nostro Paese», seguirà il filo indicato dal chilometrico titolo: «Il dittatore del bunga bunga. Lui va, io resto...»
Dunque, Ingroia, che scava sui molti misteri italiani del lungo dopoguerra - dalla morte di Mauro De Mauro ai rapporti con la mafia di Bruno Contrada - sarà una delle voci che daranno fuoco alle polveri. Per carità, esiste una trentennale tradizione militante di parte della magistratura italiana che da sempre si concepisce come contropotere. Basterà ricordare Nicoletta Gandus, il giudice del processo Mills che non perde occasione per criticare sul web, in corteo o nei dibattiti il governo Berlusconi. Sulla carta il magistrato ha tutto il diritto, come ogni altro cittadino, per far sentire le sue opinioni antipremier, ma se poi la stessa voce legge in aula la condanna ad un avvocato coimputato del presidente del Consiglio, ecco che qualcosa non quadra. Siamo al cortocircuito, all’invasione di campo, alla guerra fra diversi pezzi dello Stato. Soprattutto il magistrato - il pm e ancora di più il giudice - rischia di perdere quella credibilità e quell’autorevolezza che gli derivano dall’essere sganciato dalla cronaca, dalle passioni della politica e dagli altri poteri dello stato.
I tribunali sono abitati invece da alcuni giudici che l’opinione pubblica considera, a torto o a ragione, leader dell’opposizione: con una mano scrivono le requisitorie, con l’altra saggi e acuminati interventi che trovano sponda nelle parole dei leader, da Di Pietro a Bersani. Ingroia e il suo collega Roberto Scarpinato avevano partecipato, a settembre dell’anno scorso, al forum di lancio del quotidiano ultragiustizialista il Fatto e sempre il prolifico Ingroia ha firmato l’anno scorso un libretto brillante, ricco di spunti e polemico con il governo sin dal titolo: «C’era una volta l’intercettazione». Risultato, paradossale: il testo del pm siciliano è a disposizione dell’opinione pubblica, la legge non c’è ancora.
Piccola accortezza, l’Italia dei valori annuncia che Ingroia non sarà sul palco, con gli altri relatori, ma verrà intervistato in precedenza e risponderà in solitudine alle domande su legalità e illegalità. La sostanza non cambia. E la diretta, su siti e tv, amplificherà il messaggio. In fondo non hanno tutti i torti quelle toghe di Magistratura democratica che si concepiscono come la vera opposizione al berlusconismo. Anche perché la sinistra, in parlamento, non fa certo faville.
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Marocchino drogato e senza patente fa strage di ciclisti
Lamezia Terme (Cz)- «Rosario dove sei? Dove ti hanno portato?». Piange disperatamente Gennaro Perri, uno dei quattro ciclisti rimasti feriti nel tragico incidente di ieri mattina dove sette persone, che pedalavano in gruppo con lui, hanno perso la vita. Nessuno ha il coraggio di dirgli che Rosario è morto. Gennaro Perri, nel lettino dell'ospedale di Lamezia Terme in cui è ricoverato, racconta ancora terrorizzato la dinamica dell'incidente: «Ho visto quella Mercedes che ad un certo punto, in un tratto in rettilineo, mentre tentava un sorpasso, ha cominciato a sbandare. Non abbiamo avuto il tempo di renderci conto di quello che stava accadendo». Era una normale domenica di dicembre, di sole e bel tempo, e i soliti amici, amanti della bicicletta, si erano ritrovati tutti insieme per il solito giretto, un classico della domenica. Di solito da Lamezia Terme si pedalava verso Pizzo ma ieri la scelta è caduta nella direzione opposta ad Amantea, in provincia di Cosenza, cosi tutti in fila, come ormai facevano da almeno otto anni erano partiti intorno alle 8 di mattina, alle 13 li aspettavano a casa per il pranzo. Un pranzo che nessuno ieri ha consumato. Trascorse da poco le 12, un marocchino che guidava sotto l’effetto di cannabinoidi li ha investiti in pieno sulla Statale 18 in località Marinella di Lamezia Terme, ed è stata una strage: sette morti, ma il bilancio è ancora provvisorio, e quattro feriti, due dei quali sono in condizioni gravi. Non ancora accertata la dinamica dell’incidente, risulta tuttavia che il marocchino, Chafik Elketani, 21 anni, immigrato regolare ma senza patente perchè gli era stata ritirata sette mesi fa per un sorpasso azzardato, alla guida di una Mercedes grigio chiaro, e sempre tentando un folle sorpasso sulla Statale 18, ha investito il gruppo di ciclisti. L’investitore, che dopo il drammatico è finito con la propria autovettura in un terreno agricolo, ha riportato solo ferite di lieve entità ed è stato ricoverato presso l’Ospedale di Lamezia Terme, dove è stato sottoposto agli esami tossicologici cui è risultato positivo. Su di lui grava la pesante accusa di omicidio aggravato plurimo, per cui attualmente è in stato di arresto e piantonato. Al suo fianco, in auto, c’era anche il nipotino di dieci anni, illeso.
Il sindaco di Lamezia ha proclamato il lutto cittadino per il giorno in cui verranno celebrati i funerali delle vittime. Pesante il giudizio sull’accaduto di Sandro Mazzatorta Capogruppo della Lega in commissione di Giustizia al Senato, che affermato l’assoluta necessità di intervenire sul reato di omicidio colposo da incidenti della strada. É assolutamente inconcepibile che la condanna per una strage come quella di accaduta a Lamezia, comporti solo pochi mesi di reclusione per il responsabile, che non vengono neanche scontati per gli innumerevoli benefici che la Legge prevede.
Salvatore Mancuso era insieme al gruppo di ciclisti falciati dall'auto pirata, poche ore prima dell'impatto: «Mi sento fortunato, sono vivo per la pioggia. Dovevamo andare verso Amantea - racconta, piangendo, sul luogo della strage - ma quando siamo arrivati verso Campora San Giovanni ha iniziato a piovere ed io ed altri tre del gruppo abbiamo deciso di tornare indietro. A casa mia moglie ha ricevuto una telefonata e un amico le ha detto: non so come dirtelo, ma forse tuo marito è rimasto coinvolto in un incidente. Lei ha risposto che ero sotto la doccia, ma io ho subito capito». Quelle biciclette attorcigliate su se stesse, con accanto i corpi dei ciclisti, come cavalieri morti in battaglia accanto ai loro cavalli, è un’immagine incancellabile. «Quello che abbiamo trovato arrivando qui - racconta Silvio Rocca, uno dei soccorritori - è stato uno scenario impressionante. Indescrivibile. Nemmeno una bomba avrebbe potuto provocare qualcosa del genere». Una passione, quella per il ciclismo amatoriale, che accomunava tutte e sette le vittime: dall’avvocato al responsabile di una palestra e ad un meccanico, e che, invece, li ha divisi per sempre dalle loro famiglie nella prima giornata di freddo invernale, a pochi giorni di un Natale che per le famiglie delle vittime sarà soltanto di dolore e disperazione.
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
(In)giustizia a senso unico a Milano
di Luca Fazzo
Irruzioni nelle redazioni, superconsulenze informatiche, perquisizioni negli uffici del Comune di Milano, accuse da anni di galera contro funzionari di Palazzo Marino. Sarebbe azzardato dire che la furia investigativa messa in campo dalla Procura di Milano in questi giorni per dare la caccia alle «talpe» che hanno permesso al Giornale e a Mediaset di realizzare uno scoop (peraltro non di portata planetaria) è motivata dalla voglia di dare una lezione a chi si è permesso di intrattenere rapporti con gli organi di stampa del «Nemico». Però è certo che da anni non si vedevano i magistrati milanesi investire una simile quantità di tempo, di uomini, di risorse e determinazione per dare un volto ai responsabili di una fuga di notizie. Da che mondo è mondo dai corridoi del Palazzo di giustizia milanese accade che notizie grandi e piccole sfuggano in qualche modo alle maglie della riservatezza e finiscano in pagina sui giornali. La filosofia di fondo della Procura è sempre stata: noi facciamo il nostro lavoro e i giornalisti fanno il loro, fin quando non ci pestano troppo i piedi o fanno scappare qualche latitante non c’è motivo di arrabbiarsi troppo. E se proprio dobbiamo aprire una indagine su una fuga di notizie (come nel caso dell’avviso di garanzia a Berlusconi, 1994) la chiudiamo con un nulla di fatto.
Stavolta, invece, la Procura di Milano fa sul serio. Mentre notizie d’ogni tipo continuano indisturbate – come è giusto che sia – a finire un giorno sì e un giorno no sui giornali, una sola, singola falla nel segreto istruttorio sta diventando un caso su cui lavorano a tempo pieno investigatori e tecnici informatici. Venerdì mattina si è scomodato personalmente un procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, capo del dipartimento che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione, che è andato negli uffici del Comune di Milano a dirigere una serie di perquisizioni nei cassetti e nei computer dei funzionari accusati di avere parlato troppo coi media berlusconiani: ultima e più vistosa manifestazione di una furia investigativa che era in corso già da una decina di giorni, e che aveva portato gli investigatori di Robledo a fare irruzione nelle redazioni del Tg5, di Medianews e del Giornale, rovistando e sequestrando.
Quasi surreale, di fronte a tanto attivismo, l’esiguità dello spunto iniziale. Il 29 ottobre, nelle pagine milanesi del Giornale, viene pubblicata la notizia di una indagine condotta proprio da Robledo: quella relativa a Mirko Direnzo, di professione vigile urbano nel capoluogo lombardo, che ha passato la scorsa estate a mandare avanti uno stabilimento balneare sulla costa calabra, approfittando di un certificato medico che lo dichiarava inabile al lavoro a causa di un infortunio. La prognosi per il vigile viene di volta in volta allungata: ma nel frattempo lui è lì, in spiaggia, apparentemente in forma smagliante, che piega sdraio, monta ombrelloni e insegne, riscuote pigioni. Insomma, sembra un caso clamoroso e spudorato di assenteismo cronico. Il vigile-bagnino viene filmato dai suoi colleghi e denunciato alla Procura per falso ideologico e truffa ai danni dello Stato. Il 30 ottobre, alcune immagini dell’inchiesta vengono messe in onda durante un servizio del Tg5.
Notizia senza dubbio interessante, ma che non ha alcuna capacità di danneggiare le indagini: oltretutto le immagini del «ghisa» in costume da bagno non sono affatto segrete, perché lo stesso vigile le ha incautamente pubblicate su Facebook. Eppure la Procura di Milano si scatena alla caccia delle presunte talpe. Una squadra di investigatori accompagnata dai tecnici informatici nominati da Robledo si materializza nelle redazioni del Tg5 e di
Medianews, la struttura del gruppo Mediaset che produce contenuti per i telegiornali del Biscione. La perquisizione va avanti fino all’una e mezza di notte. Il pomeriggio successivo la stessa squadra bussa alla redazione milanese del Giornale. Qui si va avanti fino a mezzanotte, vengono sequestrati i dischi fissi del computer in uso al cronista che ha scritto l’articolo incriminato, mentre vengono torchiati i tecnici che si occupano dei computer aziendali. Un dirigente comunale finisce sotto inchiesta, poi un altro. Ma qualche giorno dopo arriva la notizia più inattesa: Repubblica scrive che la Procura si prepara ad archiviare (chissà perché) l’indagine per truffa a carico del vigile assenteista. Ad andare avanti a schiacciasassi resterebbe solo l’inchiesta sulla fuga di notizie. Indulgenza, insomma, per chi a spese dello Stato si spaccia per malato e va a farsi i fatti suoi. Ma nessuna pietà per chi (a torto o a ragione) è sospettato di parlare troppo con i giornalisti. O, almeno, con alcuni di loro.
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Fu una morte lenta e orribile. E abusarono di lei con una spranga
di Marino Smiderle
Treviso- Le belve di Gorgo in realtà erano dei normali operatori del crimine. Quanto basta, secondo la Cassazione, per rispedire l’incartamento alla Corte d’Appello affinché vengano espunte le aggravanti di crudeltà e sevizie, con la conseguente cancellazione della pena dell’ergastolo per l’albanese Naim Stafa e sensibile riduzione dei vent’anni affibbiati al basista romeno Alin Bogdaneanu. Se lo avesse saputo prima, forse, il feroce Artur Lleshi avrebbe evitato di suicidarsi in carcere.
Bisogna tornare indietro a quella lugubre notte di fine agosto, nel 2007, a Gorgo al Monticano (Treviso), per rievocare uno dei crimini più efferati che il Veneto ricordi. «Chi può aver ammazzato Guido Pellicciardi, 67 anni, e Lucia Comin, 60, con una violenza così brutale, al punto di infierire sulle parti intime della donna con una spranga?». Così scrivevamo su il Giornale all’indomani dei terrificanti risultati dell’autopsia sui due coniugi, quando ancora i tre criminali non erano stati catturati. Il procuratore di Treviso, Antonio Fojadelli, non esitò a definire gli autori di quella mattanza «le belve di Gorgo».
«Nella dependance della villa di proprietà della famiglia Durante, a Gorgo Al Monticano - proseguiva la corrispondenza dell’agosto 2007 - l’altra notte, tra l’1.30 e le 2, gli assassini non si sono limitati a uccidere. Hanno infierito sui corpi di coniugi Pellicciardi anche dopo la loro morte. La prima a morire, secondo i medici che hanno eseguito l’autopsia, sarebbe stata la donna, in seguito a un colpo violentissimo di spranga in testa. Il marito sarebbe morto un quarto d’ora dopo, a causa della rottura di una vertebra cervicale causata da una torsione fatale. Ma non è tutto. Sui due si è abbattuta una serie impressionante di colpi, con lame e spranghe, forse con lo scopo di costringerli a consegnare i codici di ingresso della villa degli imprenditori della quale i due anziani, che vivevano nella dépendance, erano i custodi».
In realtà gli assassini volevano la combinazione della cassaforte che i poveri coniugi Pellicciardi non potevano dare per il semplice motivo che non la conoscevano. La loro fu una morte lenta e orribile, che la Cassazione però sembra voler addebitare all’albanese suicida, ritagliando per Stafa un ruolo secondario, pur rientrante nella fattispecie del reato di omicidio: non infierì personalmente sulle vittime e, quindi, non gli vanno contestate la crudeltà e le sevizie. Traducendo: tra 13-14 anni potrà usufruire della semilibertà.
Il figlio delle vittime, Daniele Pellicciardi, ha commentato con tristezza: «Almeno non è stata messa in discussione l’accusa di omicidio». Già, perché se il reato fosse passato da omicidio a rapina, i due potrebbero già uscire di galera domani mattina. Conoscendo la giustizia italiana, Pellicciardi pensava potesse andare ancora peggio.
Cassazione choc: non basta un massacro per dare l’ergastolodi Paolo Granzotto
«Ne ho viste tante durante la mia vita da magistrato, ma stavolta...». Queste le parole pronunciate dal procuratore Antonio Fojadelli dopo aver assistito (...)
(...) all'autopsia dei coniugi Pellicciardi, torturati e quindi uccisi il 21 agosto del 2007 in una vila di Gorgo al Monticano, nella marca trevigiana. E ancora: «Non posso paragonare gli assassini di Gorgo alle bestie perché ho troppo rispetto per gli animali».
Bisogna partire da quelle dichiarazioni per comprendere lo sgomento provocato dalla decisione della Corte di cassazione di revocare l'ergastolo all'albanese Naim Stafa e i vent'anni di reclusione comminati al «palo», il romeno Alin Bogdaneanu, ritenti colpevoli del duplice omicidio (alla mattanza parteciparono altre due canaglie: di una non si è mai conosciuta l'identità, l'altra, l'albanese Artur Lieshi, s’è suicidato in carcere). Bisogna partire da quelle dichiarazioni perché se mai ci fu un delitto efferato, bestiale, se mai ci fu violenza sadica e selvaggia, fu quella cui furono vittime Guido e Lucia Pellicciardi. Potete leggere qui a fianco di cosa si resero capaci le «belve di Goro» e non sarà un bel leggere. Ebbene, per la Corte di cassazione la somma di quelle sevizie e di quelle ferine crudeltà non costituisce quell'aggravante senza la quale cade la pena del carcere a vita. In quanto ai vent'anni inflitti a Bogdaneanu, per la Corte di cassazione rappresentano una pena «sproporzionata al reato effettivamente commesso». Ciò stabilito, i due saranno rinviati in appello perché il Tribunale proceda ad attenuare le condanne.
La legge è la legge ed è dovere del magistrato applicarla. Nessuno discute questo principio, ma qui ci troviamo di fronte a un giudizio personale che ovviamente non ha codifiche: valutare se l'uso della vanga nell'infierire sul corpo di Lucia Pellicciardi possa o non possa ritenersi una aggravante. Cioè un elemento che rende più grave il reato. E così per i vent'anni inflitti a Bogdaneanu: è la canaglia che fornì agli albanesi le informazioni sulla villa e sulle vittime, che disse loro dell'esistenza di una cassaforte, che fornì il così detto «supporto logistico» restando poi di vedetta mentre i complici portavano a termine, come sappiamo, l'impresa. Senza Bogdaneanu non ci sarebbero state torture e omicidio. Senza l'intervento di Bogdaneanu, Guido e Lucia Pellicciardi sarebbero vivi. Affermare dunque che vent'anni sono una condanna sproporzionata al reato commesso dal romeno - quando il semplice «non poteva non sapere» è stata la chiave di volta e di galera del più altisonante procedimento giudiziario degli ultimi tempi, Mani pulite - lascia il cittadino a bocca aperta. Perché il giudizio è inevitabilmente discrezionale e perché lo sminuire le colpe del romeno significa deprezzare il valore della vita dei coniugi Pellicciardi. Che deve contare ben poco se colui che li ha massacrati e l'altro, che del massacro è stato il regista, non si meritano l'ergastolo e i vent'anni di galera ai quali in nome del popolo italiano li aveva condannati un Tribunale.
Nessuno, specie nel nord est teatro delle gesta delle «belve di Goro», s'illude su come andrà a finire. Rifatto il processo e ridotte le pene ai due detenuti, grazie agli scivoli della legge Gozzini - permessi premio, semilibertà, libertà provvisoria eccetera - ce li ritroveremo fra di noi, liberi, in men che non si dica. Liberi e assistiti, aiutati, beneficiati da una dozzina di Ong con vocazione all'«impegno nel sociale» e la predisposizione a privilegiare i Caini sugli Abeli.
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lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Il bunga bunga del pm che indaga sul Cavdi Stefano Zurlo
Lo spettacolino si annuncia scoppiettante fin dal titolo: «Il dittatore del bunga bunga». Con tanto di fotomontaggio di Berlusconi, in mano una maliziosa banana e in testa un berretto alla Fidel Castro come il Woody Allen dittatore di Bananas, e logo dell’Italia dei valori che ha inventato la performance. L’appuntamento è per venerdì 10 dicembre al Paladozza di Bologna con un trenino di politici-penne-toghe da prima serata e audience alle stelle. Ci sarà Antonio Di Pietro e ci sarà Marco Travaglio, presentato come «la penna più irriverente d’Italia», ma al loro fianco si cimenterà con l’arduo tema della manifestazione anche un peso massimo della magistratura come Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo.
Per la verità, i magistrati protagonisti dell’evento saranno due: oltre a Ingroia prenderà la parola anche Bruno Tinti, il fortunato autore del pamphlet Toghe rotte, ma Tinti, proprio per evitare cortocircuiti e per non prestare il fianco a critiche, ha da tempo lasciato la professione. Ingroia invece è in servizio; non solo: è il titolare della delicatissima inchiesta sulla trattativa fra lo Stato e Cosa nostra per fermare le bombe, è il pm che ha ricevuto da Massimo Ciancimino il famigerato papello con le richieste dei corleonesi, ha rappresentato l’accusa al processo Dell’Utri (in primo grado), insomma si occupa di Arcore e dintorni da molti anni oltre a seguire e inseguire tanti altri misteri italiani: è stato lui, per esempio, a riesumare recentemente i resti, presunti, di Salvatore Giuliano per accertare una volta per tutte l’identità del corpo sepolto nel 1950, fra misteri e chiacchiere, nel cimitero di Montelepre.
In sostanza, Ingroia è uno dei pm che da tempo stringono d’assedio Palazzo Chigi e il Cavaliere. Legittimo. Ma fa una certa impressione scoprire che Ingroia prosegue con altri mezzi e su un altro palcoscenico l’attacco sferrato al Cavaliere nelle aule di giustizia. Al mattino s’indaga, la sera si gioca fra satira, musica, giornalismo. Sfruttando un sontuoso parterre: Di Pietro, Travaglio e Ingroia. Ma non solo: ci sarà anche Sergio Rizzo, il giornalista anticasta del Corriere della sera e poi Vauro, con le sue vignette puntute, e il nobel della letteratura più militante della storia, Dario Fo. E ancora, il comico Antonio Cornacchione e il cantautore Andrea Mingardi. A condurre le danze ci penserà un giornalista navigato come David Parenzo, scattante volto della tv, che cercherà il giusto mix fra gli ospiti e i temi, «ripercorrerà - come dicono gli organizzatori - gli ultimi quindici anni di storia italiana analizzando il degrado etico-morale di cui è stato vittima il nostro Paese», seguirà il filo indicato dal chilometrico titolo: «Il dittatore del bunga bunga. Lui va, io resto...»
Dunque, Ingroia, che scava sui molti misteri italiani del lungo dopoguerra - dalla morte di Mauro De Mauro ai rapporti con la mafia di Bruno Contrada - sarà una delle voci che daranno fuoco alle polveri. Per carità, esiste una trentennale tradizione militante di parte della magistratura italiana che da sempre si concepisce come contropotere. Basterà ricordare Nicoletta Gandus, il giudice del processo Mills che non perde occasione per criticare sul web, in corteo o nei dibattiti il governo Berlusconi. Sulla carta il magistrato ha tutto il diritto, come ogni altro cittadino, per far sentire le sue opinioni antipremier, ma se poi la stessa voce legge in aula la condanna ad un avvocato coimputato del presidente del Consiglio, ecco che qualcosa non quadra. Siamo al cortocircuito, all’invasione di campo, alla guerra fra diversi pezzi dello Stato. Soprattutto il magistrato - il pm e ancora di più il giudice - rischia di perdere quella credibilità e quell’autorevolezza che gli derivano dall’essere sganciato dalla cronaca, dalle passioni della politica e dagli altri poteri dello stato.
I tribunali sono abitati invece da alcuni giudici che l’opinione pubblica considera, a torto o a ragione, leader dell’opposizione: con una mano scrivono le requisitorie, con l’altra saggi e acuminati interventi che trovano sponda nelle parole dei leader, da Di Pietro a Bersani. Ingroia e il suo collega Roberto Scarpinato avevano partecipato, a settembre dell’anno scorso, al forum di lancio del quotidiano ultragiustizialista il Fatto e sempre il prolifico Ingroia ha firmato l’anno scorso un libretto brillante, ricco di spunti e polemico con il governo sin dal titolo: «C’era una volta l’intercettazione». Risultato, paradossale: il testo del pm siciliano è a disposizione dell’opinione pubblica, la legge non c’è ancora.
Piccola accortezza, l’Italia dei valori annuncia che Ingroia non sarà sul palco, con gli altri relatori, ma verrà intervistato in precedenza e risponderà in solitudine alle domande su legalità e illegalità. La sostanza non cambia. E la diretta, su siti e tv, amplificherà il messaggio. In fondo non hanno tutti i torti quelle toghe di Magistratura democratica che si concepiscono come la vera opposizione al berlusconismo. Anche perché la sinistra, in parlamento, non fa certo faville.
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Marocchino drogato e senza patente fa strage di ciclisti
Lamezia Terme (Cz)- «Rosario dove sei? Dove ti hanno portato?». Piange disperatamente Gennaro Perri, uno dei quattro ciclisti rimasti feriti nel tragico incidente di ieri mattina dove sette persone, che pedalavano in gruppo con lui, hanno perso la vita. Nessuno ha il coraggio di dirgli che Rosario è morto. Gennaro Perri, nel lettino dell'ospedale di Lamezia Terme in cui è ricoverato, racconta ancora terrorizzato la dinamica dell'incidente: «Ho visto quella Mercedes che ad un certo punto, in un tratto in rettilineo, mentre tentava un sorpasso, ha cominciato a sbandare. Non abbiamo avuto il tempo di renderci conto di quello che stava accadendo». Era una normale domenica di dicembre, di sole e bel tempo, e i soliti amici, amanti della bicicletta, si erano ritrovati tutti insieme per il solito giretto, un classico della domenica. Di solito da Lamezia Terme si pedalava verso Pizzo ma ieri la scelta è caduta nella direzione opposta ad Amantea, in provincia di Cosenza, cosi tutti in fila, come ormai facevano da almeno otto anni erano partiti intorno alle 8 di mattina, alle 13 li aspettavano a casa per il pranzo. Un pranzo che nessuno ieri ha consumato. Trascorse da poco le 12, un marocchino che guidava sotto l’effetto di cannabinoidi li ha investiti in pieno sulla Statale 18 in località Marinella di Lamezia Terme, ed è stata una strage: sette morti, ma il bilancio è ancora provvisorio, e quattro feriti, due dei quali sono in condizioni gravi. Non ancora accertata la dinamica dell’incidente, risulta tuttavia che il marocchino, Chafik Elketani, 21 anni, immigrato regolare ma senza patente perchè gli era stata ritirata sette mesi fa per un sorpasso azzardato, alla guida di una Mercedes grigio chiaro, e sempre tentando un folle sorpasso sulla Statale 18, ha investito il gruppo di ciclisti. L’investitore, che dopo il drammatico è finito con la propria autovettura in un terreno agricolo, ha riportato solo ferite di lieve entità ed è stato ricoverato presso l’Ospedale di Lamezia Terme, dove è stato sottoposto agli esami tossicologici cui è risultato positivo. Su di lui grava la pesante accusa di omicidio aggravato plurimo, per cui attualmente è in stato di arresto e piantonato. Al suo fianco, in auto, c’era anche il nipotino di dieci anni, illeso.
Il sindaco di Lamezia ha proclamato il lutto cittadino per il giorno in cui verranno celebrati i funerali delle vittime. Pesante il giudizio sull’accaduto di Sandro Mazzatorta Capogruppo della Lega in commissione di Giustizia al Senato, che affermato l’assoluta necessità di intervenire sul reato di omicidio colposo da incidenti della strada. É assolutamente inconcepibile che la condanna per una strage come quella di accaduta a Lamezia, comporti solo pochi mesi di reclusione per il responsabile, che non vengono neanche scontati per gli innumerevoli benefici che la Legge prevede.
Salvatore Mancuso era insieme al gruppo di ciclisti falciati dall'auto pirata, poche ore prima dell'impatto: «Mi sento fortunato, sono vivo per la pioggia. Dovevamo andare verso Amantea - racconta, piangendo, sul luogo della strage - ma quando siamo arrivati verso Campora San Giovanni ha iniziato a piovere ed io ed altri tre del gruppo abbiamo deciso di tornare indietro. A casa mia moglie ha ricevuto una telefonata e un amico le ha detto: non so come dirtelo, ma forse tuo marito è rimasto coinvolto in un incidente. Lei ha risposto che ero sotto la doccia, ma io ho subito capito». Quelle biciclette attorcigliate su se stesse, con accanto i corpi dei ciclisti, come cavalieri morti in battaglia accanto ai loro cavalli, è un’immagine incancellabile. «Quello che abbiamo trovato arrivando qui - racconta Silvio Rocca, uno dei soccorritori - è stato uno scenario impressionante. Indescrivibile. Nemmeno una bomba avrebbe potuto provocare qualcosa del genere». Una passione, quella per il ciclismo amatoriale, che accomunava tutte e sette le vittime: dall’avvocato al responsabile di una palestra e ad un meccanico, e che, invece, li ha divisi per sempre dalle loro famiglie nella prima giornata di freddo invernale, a pochi giorni di un Natale che per le famiglie delle vittime sarà soltanto di dolore e disperazione.
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
(In)giustizia a senso unico a Milano
di Luca Fazzo
Irruzioni nelle redazioni, superconsulenze informatiche, perquisizioni negli uffici del Comune di Milano, accuse da anni di galera contro funzionari di Palazzo Marino. Sarebbe azzardato dire che la furia investigativa messa in campo dalla Procura di Milano in questi giorni per dare la caccia alle «talpe» che hanno permesso al Giornale e a Mediaset di realizzare uno scoop (peraltro non di portata planetaria) è motivata dalla voglia di dare una lezione a chi si è permesso di intrattenere rapporti con gli organi di stampa del «Nemico». Però è certo che da anni non si vedevano i magistrati milanesi investire una simile quantità di tempo, di uomini, di risorse e determinazione per dare un volto ai responsabili di una fuga di notizie. Da che mondo è mondo dai corridoi del Palazzo di giustizia milanese accade che notizie grandi e piccole sfuggano in qualche modo alle maglie della riservatezza e finiscano in pagina sui giornali. La filosofia di fondo della Procura è sempre stata: noi facciamo il nostro lavoro e i giornalisti fanno il loro, fin quando non ci pestano troppo i piedi o fanno scappare qualche latitante non c’è motivo di arrabbiarsi troppo. E se proprio dobbiamo aprire una indagine su una fuga di notizie (come nel caso dell’avviso di garanzia a Berlusconi, 1994) la chiudiamo con un nulla di fatto.
Stavolta, invece, la Procura di Milano fa sul serio. Mentre notizie d’ogni tipo continuano indisturbate – come è giusto che sia – a finire un giorno sì e un giorno no sui giornali, una sola, singola falla nel segreto istruttorio sta diventando un caso su cui lavorano a tempo pieno investigatori e tecnici informatici. Venerdì mattina si è scomodato personalmente un procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, capo del dipartimento che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione, che è andato negli uffici del Comune di Milano a dirigere una serie di perquisizioni nei cassetti e nei computer dei funzionari accusati di avere parlato troppo coi media berlusconiani: ultima e più vistosa manifestazione di una furia investigativa che era in corso già da una decina di giorni, e che aveva portato gli investigatori di Robledo a fare irruzione nelle redazioni del Tg5, di Medianews e del Giornale, rovistando e sequestrando.
Quasi surreale, di fronte a tanto attivismo, l’esiguità dello spunto iniziale. Il 29 ottobre, nelle pagine milanesi del Giornale, viene pubblicata la notizia di una indagine condotta proprio da Robledo: quella relativa a Mirko Direnzo, di professione vigile urbano nel capoluogo lombardo, che ha passato la scorsa estate a mandare avanti uno stabilimento balneare sulla costa calabra, approfittando di un certificato medico che lo dichiarava inabile al lavoro a causa di un infortunio. La prognosi per il vigile viene di volta in volta allungata: ma nel frattempo lui è lì, in spiaggia, apparentemente in forma smagliante, che piega sdraio, monta ombrelloni e insegne, riscuote pigioni. Insomma, sembra un caso clamoroso e spudorato di assenteismo cronico. Il vigile-bagnino viene filmato dai suoi colleghi e denunciato alla Procura per falso ideologico e truffa ai danni dello Stato. Il 30 ottobre, alcune immagini dell’inchiesta vengono messe in onda durante un servizio del Tg5.
Notizia senza dubbio interessante, ma che non ha alcuna capacità di danneggiare le indagini: oltretutto le immagini del «ghisa» in costume da bagno non sono affatto segrete, perché lo stesso vigile le ha incautamente pubblicate su Facebook. Eppure la Procura di Milano si scatena alla caccia delle presunte talpe. Una squadra di investigatori accompagnata dai tecnici informatici nominati da Robledo si materializza nelle redazioni del Tg5 e di
Medianews, la struttura del gruppo Mediaset che produce contenuti per i telegiornali del Biscione. La perquisizione va avanti fino all’una e mezza di notte. Il pomeriggio successivo la stessa squadra bussa alla redazione milanese del Giornale. Qui si va avanti fino a mezzanotte, vengono sequestrati i dischi fissi del computer in uso al cronista che ha scritto l’articolo incriminato, mentre vengono torchiati i tecnici che si occupano dei computer aziendali. Un dirigente comunale finisce sotto inchiesta, poi un altro. Ma qualche giorno dopo arriva la notizia più inattesa: Repubblica scrive che la Procura si prepara ad archiviare (chissà perché) l’indagine per truffa a carico del vigile assenteista. Ad andare avanti a schiacciasassi resterebbe solo l’inchiesta sulla fuga di notizie. Indulgenza, insomma, per chi a spese dello Stato si spaccia per malato e va a farsi i fatti suoi. Ma nessuna pietà per chi (a torto o a ragione) è sospettato di parlare troppo con i giornalisti. O, almeno, con alcuni di loro.
lunedì 06 dicembre 2010, 08:00
Fu una morte lenta e orribile. E abusarono di lei con una spranga
di Marino Smiderle
Treviso- Le belve di Gorgo in realtà erano dei normali operatori del crimine. Quanto basta, secondo la Cassazione, per rispedire l’incartamento alla Corte d’Appello affinché vengano espunte le aggravanti di crudeltà e sevizie, con la conseguente cancellazione della pena dell’ergastolo per l’albanese Naim Stafa e sensibile riduzione dei vent’anni affibbiati al basista romeno Alin Bogdaneanu. Se lo avesse saputo prima, forse, il feroce Artur Lleshi avrebbe evitato di suicidarsi in carcere.
Bisogna tornare indietro a quella lugubre notte di fine agosto, nel 2007, a Gorgo al Monticano (Treviso), per rievocare uno dei crimini più efferati che il Veneto ricordi. «Chi può aver ammazzato Guido Pellicciardi, 67 anni, e Lucia Comin, 60, con una violenza così brutale, al punto di infierire sulle parti intime della donna con una spranga?». Così scrivevamo su il Giornale all’indomani dei terrificanti risultati dell’autopsia sui due coniugi, quando ancora i tre criminali non erano stati catturati. Il procuratore di Treviso, Antonio Fojadelli, non esitò a definire gli autori di quella mattanza «le belve di Gorgo».
«Nella dependance della villa di proprietà della famiglia Durante, a Gorgo Al Monticano - proseguiva la corrispondenza dell’agosto 2007 - l’altra notte, tra l’1.30 e le 2, gli assassini non si sono limitati a uccidere. Hanno infierito sui corpi di coniugi Pellicciardi anche dopo la loro morte. La prima a morire, secondo i medici che hanno eseguito l’autopsia, sarebbe stata la donna, in seguito a un colpo violentissimo di spranga in testa. Il marito sarebbe morto un quarto d’ora dopo, a causa della rottura di una vertebra cervicale causata da una torsione fatale. Ma non è tutto. Sui due si è abbattuta una serie impressionante di colpi, con lame e spranghe, forse con lo scopo di costringerli a consegnare i codici di ingresso della villa degli imprenditori della quale i due anziani, che vivevano nella dépendance, erano i custodi».
In realtà gli assassini volevano la combinazione della cassaforte che i poveri coniugi Pellicciardi non potevano dare per il semplice motivo che non la conoscevano. La loro fu una morte lenta e orribile, che la Cassazione però sembra voler addebitare all’albanese suicida, ritagliando per Stafa un ruolo secondario, pur rientrante nella fattispecie del reato di omicidio: non infierì personalmente sulle vittime e, quindi, non gli vanno contestate la crudeltà e le sevizie. Traducendo: tra 13-14 anni potrà usufruire della semilibertà.
Il figlio delle vittime, Daniele Pellicciardi, ha commentato con tristezza: «Almeno non è stata messa in discussione l’accusa di omicidio». Già, perché se il reato fosse passato da omicidio a rapina, i due potrebbero già uscire di galera domani mattina. Conoscendo la giustizia italiana, Pellicciardi pensava potesse andare ancora peggio.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ci sono articoli che dovrebbero servire...
Angela ha scritto:"Wikileaks, una bufala mondiale."
E' esattamente così.
Grazie Luciano
Una bufala? Beati voi che la pensate così!
Però... una cosa non riesco a spiegarmi, se di bufala si tratta, come mai siano tutti così agitati? Come mai ad un tratto, si sentato tutti preda dell'effetto "Guttalax"!!!
Gregor- Numero di messaggi : 1081
Età : 73
Località : Un angolo di Paradiso... Il Mio...
Data d'iscrizione : 31.08.08
Foglio di personaggio
Gioco di Ruolo:
Scusa, Gregor....,
...ma di bufala ne parla l'articolista, o perlomeno, è il titolo del primo articolo postato e sulla base del suo ragionamento, non fa una piega.
Se poi rileggi attentamente le cose, a partire dall'ultimo capoverso dell'articolo e poi rileggi anche quello successivo di Di Nolfo con fatti noti e altri meno al popolino, ci aggiungi le polemiche soprattutto giornalistiche dei "corrieroni, stampisti e repubblichelle al seguito", sono io che non capisco il tuo post.
Ciao, buona giornata.
Se poi rileggi attentamente le cose, a partire dall'ultimo capoverso dell'articolo e poi rileggi anche quello successivo di Di Nolfo con fatti noti e altri meno al popolino, ci aggiungi le polemiche soprattutto giornalistiche dei "corrieroni, stampisti e repubblichelle al seguito", sono io che non capisco il tuo post.
Ciao, buona giornata.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Eccone uno con tema pesante per le conseguenze.
Fiducia e debito
Qualche illuso, maniacalmente italofono, suppone che il governo giocherà la sua partita finale lunedì e martedì della settimana prossima, in Parlamento. Invece saranno decisivi il mercoledì e giovedì, sul campo del Consiglio europeo. L’approvazione della legge di stabilità, divenuta definitiva ieri, è un buon viatico, ma prima della partenza i governanti saranno chiamati a discutere della loro stessa esistenza. Basta tenere a mente questi due appuntamenti, basta ricordare che l’approvazione della finanziaria era considerata preliminare al potere aprire la crisi di governo, per comprendere quanto la politica politicante, quella fatta di gruppi al ristorante e dichiarazioni non dichiaranti, abbia perso la bussola.
L’accapigliarsi nel vernacolo politichese induce a credere decisive le proprie beghe, cancellando ogni realtà che distragga i contendenti dalla loro squittente tenzone. Per esempio: fanno finta di non capire quel che accade circa lo stabilimento Fiat di Mirafiori. Lì la questione non è affatto relativa a quali sono le opinioni della Fiom, o di qualche altro sindacato, ma concerne l’inutilità degli organismi sindacali, ivi compresa Confindustria, quando non si può più intermediare spesa pubblica. Paradossalmente, il contratto nazionale metalmeccanici era lo strumento con cui Fiat, un tempo alla guida o influente membro di Confindustria, portava il resto dell’industria a stare al passo con i propri bisogni, soddisfatti anche da spesa pubblica, ora, all’opposto, esauritosi il flusso di denaro, è la stessa Fiat a volersi sbarazzare del contratto nazionale, perché quel che conta è solo la competitività delle singole imprese e dei singoli stabilimenti. L’alternativa, altrimenti, è secca: si chiude e s’investe altrove. Ma la politica non capisce o finge di non capire, così invoca la riapertura delle trattative e scantona il tema imprescindibile: un sistema paese che paga tassi più elevati di altri sul proprio debito non avrà né banche né imprese competitive, se non di nicchia. Ecco la questione, che se ne frega del trio, delle primarie, del sistema elettorale e d’ogni altra carnevalata dialettale.
Saggiamente Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker (primo ministro belga) propongono di finanziare i debiti statali con titoli di credito europei. E’ uno degli strumenti per federalizzare il debito, che ho già sostenuto essere la soluzione. I tedeschi s’oppongono, perché non intendono far pagare ai propri elettori i troppi insegnati di ginnastica greci. I francesi ancora tacciono, conquistandosi un ruolo determinante. Il fatto è che se non si federalizza il debito si rischia di vedere fallire i Paesi europei uno appresso all’altro, fino al punto di far fallire anche i più solidi, Germania compresa, perché sono defunti i debitori, ma se lo si federalizza (o anche solo lo si mette in sicurezza, come costosamente e con miopia si sta facendo) si sposta la spesa pubblica sia dal punto di vista geografico che di destinazione, passando dai più virtuosi ai più viziosi e dai servizi pubblici agli speculatori. Per evitare l’emorragia di soldi e buon senso si deve utilizzare la forza della crisi per far avanzare l’integrazione politica europea. Altrimenti meglio mollare subito, ammettere la sconfitta e tornare alle valute nazionali.
Torniamo nel cortile, fra i discolacci con la testa dura e le ginocchia sbucciate. Non ce n’è uno che proponga la seconda cosa. E così sia. Anche a me sembrerebbe la strada sbagliata. Quindi si tratta di stabilire come si resta nell’euro e come si fa ad evitare che sfasci l’Europa. Si può sostenere, come in diversi fanno, che questo governo non sia all’altezza. Nel qual caso mi sfugge perché sono stati favorevoli all’approvazione della legge di stabilità. Eventualmente, appunto, era su quella che il governo sarebbe dovuto cadere, non sui gargarismi politichesi. No, dicono quelli del trio e dell’opposizione, perché noi abbiamo senso di responsabilità e non apriamo le crisi su questioni così delicate. Bravi, e le aprite il giorno prima del Consiglio europeo, nel momento in cui si cerca di far valere il contenuto di quella stessa legge?
Credo, invece, che se si ritiene inadeguato il governo lo si deve mandare a casa al più presto. Che ci mettiamo, al suo posto? Una coriandolata di gruppi in conflitto fra loro? Oppure un club di intelligentoni (misurati da chi, su cosa?) che non dispongono di un voto che sia uno? Più si crede che il momento sia grave (e lo è), meno si può essere disposti a soluzioni pericolanti e pericolose. Quindi, semmai, si dovrebbe chiedere di tornare alle urne immediatamente, nei tempi strettamente costituzionali. Non sarebbe una bella cosa, ma per i mercati un’indicazione di linearità e stabilità superiore a quella di governicchi tenuti assieme solo dalla paura.
Nel frattempo, magari, se non sono troppo intenti a sfidarsi nel piantar chiodi con il cranio, potrebbero farci sapere, ciascuno per sé, se hanno delle idee specifiche sulle vere questioni, che qui non ci stanchiamo di richiamare. Perché, come dire?, la loro spocchiosa prosopopea da leader di caseggiato comincia ad indurre risposte men che cortesi.
Qualche illuso, maniacalmente italofono, suppone che il governo giocherà la sua partita finale lunedì e martedì della settimana prossima, in Parlamento. Invece saranno decisivi il mercoledì e giovedì, sul campo del Consiglio europeo. L’approvazione della legge di stabilità, divenuta definitiva ieri, è un buon viatico, ma prima della partenza i governanti saranno chiamati a discutere della loro stessa esistenza. Basta tenere a mente questi due appuntamenti, basta ricordare che l’approvazione della finanziaria era considerata preliminare al potere aprire la crisi di governo, per comprendere quanto la politica politicante, quella fatta di gruppi al ristorante e dichiarazioni non dichiaranti, abbia perso la bussola.
L’accapigliarsi nel vernacolo politichese induce a credere decisive le proprie beghe, cancellando ogni realtà che distragga i contendenti dalla loro squittente tenzone. Per esempio: fanno finta di non capire quel che accade circa lo stabilimento Fiat di Mirafiori. Lì la questione non è affatto relativa a quali sono le opinioni della Fiom, o di qualche altro sindacato, ma concerne l’inutilità degli organismi sindacali, ivi compresa Confindustria, quando non si può più intermediare spesa pubblica. Paradossalmente, il contratto nazionale metalmeccanici era lo strumento con cui Fiat, un tempo alla guida o influente membro di Confindustria, portava il resto dell’industria a stare al passo con i propri bisogni, soddisfatti anche da spesa pubblica, ora, all’opposto, esauritosi il flusso di denaro, è la stessa Fiat a volersi sbarazzare del contratto nazionale, perché quel che conta è solo la competitività delle singole imprese e dei singoli stabilimenti. L’alternativa, altrimenti, è secca: si chiude e s’investe altrove. Ma la politica non capisce o finge di non capire, così invoca la riapertura delle trattative e scantona il tema imprescindibile: un sistema paese che paga tassi più elevati di altri sul proprio debito non avrà né banche né imprese competitive, se non di nicchia. Ecco la questione, che se ne frega del trio, delle primarie, del sistema elettorale e d’ogni altra carnevalata dialettale.
Saggiamente Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker (primo ministro belga) propongono di finanziare i debiti statali con titoli di credito europei. E’ uno degli strumenti per federalizzare il debito, che ho già sostenuto essere la soluzione. I tedeschi s’oppongono, perché non intendono far pagare ai propri elettori i troppi insegnati di ginnastica greci. I francesi ancora tacciono, conquistandosi un ruolo determinante. Il fatto è che se non si federalizza il debito si rischia di vedere fallire i Paesi europei uno appresso all’altro, fino al punto di far fallire anche i più solidi, Germania compresa, perché sono defunti i debitori, ma se lo si federalizza (o anche solo lo si mette in sicurezza, come costosamente e con miopia si sta facendo) si sposta la spesa pubblica sia dal punto di vista geografico che di destinazione, passando dai più virtuosi ai più viziosi e dai servizi pubblici agli speculatori. Per evitare l’emorragia di soldi e buon senso si deve utilizzare la forza della crisi per far avanzare l’integrazione politica europea. Altrimenti meglio mollare subito, ammettere la sconfitta e tornare alle valute nazionali.
Torniamo nel cortile, fra i discolacci con la testa dura e le ginocchia sbucciate. Non ce n’è uno che proponga la seconda cosa. E così sia. Anche a me sembrerebbe la strada sbagliata. Quindi si tratta di stabilire come si resta nell’euro e come si fa ad evitare che sfasci l’Europa. Si può sostenere, come in diversi fanno, che questo governo non sia all’altezza. Nel qual caso mi sfugge perché sono stati favorevoli all’approvazione della legge di stabilità. Eventualmente, appunto, era su quella che il governo sarebbe dovuto cadere, non sui gargarismi politichesi. No, dicono quelli del trio e dell’opposizione, perché noi abbiamo senso di responsabilità e non apriamo le crisi su questioni così delicate. Bravi, e le aprite il giorno prima del Consiglio europeo, nel momento in cui si cerca di far valere il contenuto di quella stessa legge?
Credo, invece, che se si ritiene inadeguato il governo lo si deve mandare a casa al più presto. Che ci mettiamo, al suo posto? Una coriandolata di gruppi in conflitto fra loro? Oppure un club di intelligentoni (misurati da chi, su cosa?) che non dispongono di un voto che sia uno? Più si crede che il momento sia grave (e lo è), meno si può essere disposti a soluzioni pericolanti e pericolose. Quindi, semmai, si dovrebbe chiedere di tornare alle urne immediatamente, nei tempi strettamente costituzionali. Non sarebbe una bella cosa, ma per i mercati un’indicazione di linearità e stabilità superiore a quella di governicchi tenuti assieme solo dalla paura.
Nel frattempo, magari, se non sono troppo intenti a sfidarsi nel piantar chiodi con il cranio, potrebbero farci sapere, ciascuno per sé, se hanno delle idee specifiche sulle vere questioni, che qui non ci stanchiamo di richiamare. Perché, come dire?, la loro spocchiosa prosopopea da leader di caseggiato comincia ad indurre risposte men che cortesi.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Parentopoli ma non solo.
domenica 12 dicembre 2010 08:35
Autore: Davide Giacalone
Oggetto: Parentopoli
Le parentopoli incarnano il “familismo amorale”, capace d’incenerire l’interesse collettivo. Un tempo tutti tenevano famiglia, ora molti ne tengono diverse, con stuoli di suoceri, cognati, amanti da collocare. A questa sconcezza se ne accompagna un’altra: ciascuno vede e denuncia solo le parentopoli degli altri. Invece si tratta di una malattia endemica, cui si può porre rimedio.
Ora è il turno di Roma e del mondo vicino al suo sindaco, Gianni Alemanno. Il copione è un classico: si parte con il finto stupore, che innesca uno scandalismo tarocco per quel che già era scontato; poi si passa a dimostrare che il costume non è stato inventato dall’attuale giunta, ma le preesiste, cosa di cui nessuno dubitava; quindi si accerta che non è una questione solo romana; nel frattempo il sindaco dice di volere il massimo rigore, che, a ben vedere, poteva pensarci prima; poi denuncia la montatura contro la sua carriera nazionale; infine interviene la procura, apre un’inchiesta e ci rivediamo fra una decina d’anni. Il tutto per la mancanza del coraggio e della lucidità necessari ad ammettere l’evidenza: è normale.
E’ vero che il costume è diffuso e trasversale, ma ciò dipende da due cose: primo, l’opinione pubblica s’indigna a chiacchiere, ma poi ciascuno chiede per sé qualche cosa; secondo, ad indurlo non è la debolezza umana, ma istituzionale e di mercato.
Funziona così. Il nuovo amministratore arriva al suo posto animato dalle migliori intenzioni e desideroso di moralizzare (non bofonchiate, capita). S’insedia e scopre che, però, cambiare le cose non è né semplice né rapido. Non si scoraggia ma, intanto, gli capitano alcuni casi umani da risolvere. Casi veri, drammi reali. Non si sottrae, e chiede si sistemarli (nessun reato, opere di bene). Quelli cui la richiesta giunge si fregano le mani, ossequiosamente pronti e cinicamente previdenti. Il più stretto collaboratore dell’amministratore ha anche lui un caso umano da risolvere. Il titolare non ne ha cognizione diretta, ma si fida e, del resto, l’altro ha visto quel che è stato fatto. Poi arrivano le segnalazioni del capo politico, e non gli puoi dire di no. Quelle del tuo migliore amico, e come fai? C’è il coniuge che ti fracassa l’anima: così s’è sempre fatto, tu non agisci perché sei fesso e non conti nulla o, peggio, svantaggi solo me. E vada. Ciascuno ti dice: non ho mai chiesto niente, vorrei solo questo. A quel punto arriva il rappresentante dell’opposizione, che vede, sa e di casi ne ha dieci. Che fai? procedi. Solo che lo vedono quelli del tuo partito, compagni o camerati che siano, e ti presentano il conto: ti sei fatto gli affari tuoi, ti sei inciuciato con gli avversari, ora, che cavolo, ti occupi di noi. A quel punto non solo sei già bollito, ma quelli delle aziende cui hai continuato a far chiedere assunzioni sono anche loro dietro l’uscio: i conti non tornano, si devono aumentare le tariffe.
Così, il nostro moralizzatore è diventato, nel giro di pochi mesi, uno uguale agli altri. Solo adesso s’accorge che quanti lo celebravano come nuovo astro della politica mondiale erano dei furbacchioni, mentre l’allocco è lui.
Il rimedio non consiste nell’arruolare un altro moralizzatore, né nell’eleggere solo figli unici di madre vedova, con vocazione all’eremitaggio, e meno ancora nel varare i “codici etici” (a Roma c’è quello adottato nel 2006, e s’è visto a cosa serve!). Il rimedio sta nel non indurre in tentazione e nel rendere gli amministratori responsabili dei risultati e non delle procedure.
Cancelliamo tutte le aziende i cui vertici sono nominati dalla politica. Non c’è alcun bisogno che l’azienda dei trasporti o dell’acqua siano delle municipalizzate, serve, piuttosto, che rispondano della qualità del servizio. Più si liberalizza meno si fa clientela. Nel mercato ciascuno risponde dei propri risultati: in azienda puoi assumere amici e parenti, senza distinzione di sesso e ruolo, se poi fallisci sono affari tuoi. In quello che si alimenta di soldi pubblici (come sono le tariffe amministrate, per l’autobus o la spazzatura) devono esserci contratti che chiariscano esattamente quali sono gli scopi da raggiungere: chi li manca se ne va. Rinuncio volentieri al virtuoso ma incapace, così come è saggio consegnare agli amministratori seri qualche strumento per resistere alle pressioni.
Le raccomandazioni esistono in tutto il mondo, come anche le famiglie. Può non essere bello, ma non è letale. Mortale, invece, è l’opacità delle procedure che servono a mascherare i favoritismi. Il falso legittimismo al posto della trasparenza. Allora: in quel che è di competenza della politica l’eletto scelga liberamente, ma risponda di come vanno le cose. Se non si accetta questo elementare principio di responsabilità si va avanti per deroghe, eccezioni e sotterfugi.
Infine, che si fa con i casi pietosi? Una società non disumana li risolve alla luce del sole. In alternativa vorrei segnalare che il caso pietoso sono io, come i tanti altri che pagano le tasse, costretti a finanziare la carità in conto bontà altrui.
Autore: Davide Giacalone
Oggetto: Parentopoli
Le parentopoli incarnano il “familismo amorale”, capace d’incenerire l’interesse collettivo. Un tempo tutti tenevano famiglia, ora molti ne tengono diverse, con stuoli di suoceri, cognati, amanti da collocare. A questa sconcezza se ne accompagna un’altra: ciascuno vede e denuncia solo le parentopoli degli altri. Invece si tratta di una malattia endemica, cui si può porre rimedio.
Ora è il turno di Roma e del mondo vicino al suo sindaco, Gianni Alemanno. Il copione è un classico: si parte con il finto stupore, che innesca uno scandalismo tarocco per quel che già era scontato; poi si passa a dimostrare che il costume non è stato inventato dall’attuale giunta, ma le preesiste, cosa di cui nessuno dubitava; quindi si accerta che non è una questione solo romana; nel frattempo il sindaco dice di volere il massimo rigore, che, a ben vedere, poteva pensarci prima; poi denuncia la montatura contro la sua carriera nazionale; infine interviene la procura, apre un’inchiesta e ci rivediamo fra una decina d’anni. Il tutto per la mancanza del coraggio e della lucidità necessari ad ammettere l’evidenza: è normale.
E’ vero che il costume è diffuso e trasversale, ma ciò dipende da due cose: primo, l’opinione pubblica s’indigna a chiacchiere, ma poi ciascuno chiede per sé qualche cosa; secondo, ad indurlo non è la debolezza umana, ma istituzionale e di mercato.
Funziona così. Il nuovo amministratore arriva al suo posto animato dalle migliori intenzioni e desideroso di moralizzare (non bofonchiate, capita). S’insedia e scopre che, però, cambiare le cose non è né semplice né rapido. Non si scoraggia ma, intanto, gli capitano alcuni casi umani da risolvere. Casi veri, drammi reali. Non si sottrae, e chiede si sistemarli (nessun reato, opere di bene). Quelli cui la richiesta giunge si fregano le mani, ossequiosamente pronti e cinicamente previdenti. Il più stretto collaboratore dell’amministratore ha anche lui un caso umano da risolvere. Il titolare non ne ha cognizione diretta, ma si fida e, del resto, l’altro ha visto quel che è stato fatto. Poi arrivano le segnalazioni del capo politico, e non gli puoi dire di no. Quelle del tuo migliore amico, e come fai? C’è il coniuge che ti fracassa l’anima: così s’è sempre fatto, tu non agisci perché sei fesso e non conti nulla o, peggio, svantaggi solo me. E vada. Ciascuno ti dice: non ho mai chiesto niente, vorrei solo questo. A quel punto arriva il rappresentante dell’opposizione, che vede, sa e di casi ne ha dieci. Che fai? procedi. Solo che lo vedono quelli del tuo partito, compagni o camerati che siano, e ti presentano il conto: ti sei fatto gli affari tuoi, ti sei inciuciato con gli avversari, ora, che cavolo, ti occupi di noi. A quel punto non solo sei già bollito, ma quelli delle aziende cui hai continuato a far chiedere assunzioni sono anche loro dietro l’uscio: i conti non tornano, si devono aumentare le tariffe.
Così, il nostro moralizzatore è diventato, nel giro di pochi mesi, uno uguale agli altri. Solo adesso s’accorge che quanti lo celebravano come nuovo astro della politica mondiale erano dei furbacchioni, mentre l’allocco è lui.
Il rimedio non consiste nell’arruolare un altro moralizzatore, né nell’eleggere solo figli unici di madre vedova, con vocazione all’eremitaggio, e meno ancora nel varare i “codici etici” (a Roma c’è quello adottato nel 2006, e s’è visto a cosa serve!). Il rimedio sta nel non indurre in tentazione e nel rendere gli amministratori responsabili dei risultati e non delle procedure.
Cancelliamo tutte le aziende i cui vertici sono nominati dalla politica. Non c’è alcun bisogno che l’azienda dei trasporti o dell’acqua siano delle municipalizzate, serve, piuttosto, che rispondano della qualità del servizio. Più si liberalizza meno si fa clientela. Nel mercato ciascuno risponde dei propri risultati: in azienda puoi assumere amici e parenti, senza distinzione di sesso e ruolo, se poi fallisci sono affari tuoi. In quello che si alimenta di soldi pubblici (come sono le tariffe amministrate, per l’autobus o la spazzatura) devono esserci contratti che chiariscano esattamente quali sono gli scopi da raggiungere: chi li manca se ne va. Rinuncio volentieri al virtuoso ma incapace, così come è saggio consegnare agli amministratori seri qualche strumento per resistere alle pressioni.
Le raccomandazioni esistono in tutto il mondo, come anche le famiglie. Può non essere bello, ma non è letale. Mortale, invece, è l’opacità delle procedure che servono a mascherare i favoritismi. Il falso legittimismo al posto della trasparenza. Allora: in quel che è di competenza della politica l’eletto scelga liberamente, ma risponda di come vanno le cose. Se non si accetta questo elementare principio di responsabilità si va avanti per deroghe, eccezioni e sotterfugi.
Infine, che si fa con i casi pietosi? Una società non disumana li risolve alla luce del sole. In alternativa vorrei segnalare che il caso pietoso sono io, come i tanti altri che pagano le tasse, costretti a finanziare la carità in conto bontà altrui.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Ecco, qui ci voleva un poco di coraggio in più, Generale.
L'intelligence del Regno Unito ha sempre influenzato le vicende italiche: il caso Mitrokin insegna
Wikileaks, gli inglesi sapevano tutto
Se Obama è stato colto impreparato, non gli uomini dell'Mi5
di Piero Laporta prlprt@gmail.com
Julian Assange, patron di Wikileaks, a missione conclusa, l'assassination character di Silvio Berlusconi, è a Londra a trattare la resa.
Il buco nella rete Usa c'era davvero; gli inglesi lo sapevano. Washington ha convocato i migliori specialisti mondiali di sicurezza informatica; non un inglese fra loro. «Abbiamo altri amici più fidati», dice uno che la sa lunga.
Repentino cambio di rotta di Barak Hussein Obama sugli insediamenti israeliani; è un segnale?
Mentre Gianfranco Fini ci distrae con le sue trame inglesi, teniamo d'occhio Londra, per non farci fregare come numerose altre volte; nel 1992 per esempio, sul panfilo Britannia, di cui Assange non parla.
Finita la seconda guerra mondiale, gli inglesi non ci volevano nella Nato: eravamo superflui. Controllavano i nostri servizi segreti e la Marina, la Sicilia cui erano interessati ben più che a Malta, la finanza, pezzi importanti dello stato. Fu la Francia a esigerci nell'Alleanza. Dal golpe di Muammar Gheddafi contro il re filobritannico Idris, col centrosinistra e piazza Fontana cominciò la nostra guerra di indipendenza petrolifera (e non solo) da Londra, acerrima nemica, del centrosinistra e di Aldo Moro. Il tentativo di Enrico Mattei di liberarsi dell'egemonia inglese finì con una bomba in Sicilia, dove Londra ha legami eccellenti. Il separatismo e la vicenda di Salvatore Giuliano sono inglesi, ben più che americani, come invece si lasciò intendere. L'Evis (Esercito Volontari Indipendentisti Siciliani) era diretto dalla nobiltà siciliana, legatissima a Sua maestà britannica. Il cosidetto «lodo Moro», una delle innumerevoli balle di Francesco Cossiga, cioé la “man salva” dei palestinesi in Italia per non subirne gli attentati, fu invece una salvaguardia del territorio britannico. In quanto a noi, i danni li subimmo; basti ricordare la Sinagoga di Roma, nel 1982.
I tentacoli londinesi sono avvertibili. Divenuto consulente della commissione Mitrokhin, al primo incontro con Paolo Guzzanti, suggerii: «Per capire le Brigate rosse, parta dai piani militari del Patto di Varsavia». In quanto al dossier Mitrokhin: «Chieda a Londra il testo decrittato e abbiamo finito di lavorare». Guzzanti disse che Cossiga gli aveva confidato di aver visto i piani di invasione dell'Italia dalle mani di Michail Gorbachev. Poi aggiunse: «Il testo decrittato da Mitrokin concernente l'Italia non esiste perché gli inglesi sono rispettosi degli alleati».
Cossiga incontrò Gorbachev a Roma un anno prima che l'Urss crollasse. L'ostensione dei piani gettava una luce sinistra su Cossiga, corresponsabile della morte di Moro, che aveva aperto le porte a Tangentopoli, dimettendosi inopinatamente da presidente della Repubblica. Poi se n'era andato, dove? In Gran Bretagna. Non dissi nulla a Guzzanti perché la sua seconda affermazione, che egli fosse consapevole o meno, era una balla conclamata: gli inglesi avevano decrittato in trenta giorni tutto il dossier Mitrokhin.
Di lì a qualche mese comparve un Mario Scaramella, sedicente collegamento con i servizi inglesi. Paolo Guzzanti, mentore di Scaramella, intanto duettava con Oleg Gordievski, colonnello prima del Kgb e poi dell'Mi5. Era un'operazione, in mano ai servizi inglesi, con un paio di testate italiane nemiche di Silvio Berlusconi, che soffocava la Mitrokhin, da Londra e da Mosca (ma quest'ultima era più giustificata).. In questa brutta vicenda fu ucciso Sasha Litvinenko, agente del Kgb in fuga, che avrebbe potuto sputtanare Londra, Mosca e gli italiani manutengoli d'ambedue.
Francesco Cossiga, il 16 marzo 2005, scrivendo al Giornale, a proposito dei piani mostratigli da Gorbachev, lanciò due avvertimenti: 1) lasciate perdere; 2) gli inglesi hanno la lista dei collaborazionisti con l'Unione sovietica. Ordine ricevuto, Ordine eseguito.
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1690607&codiciTestate=1&sez=hgiornali
Wikileaks, gli inglesi sapevano tutto
Se Obama è stato colto impreparato, non gli uomini dell'Mi5
di Piero Laporta prlprt@gmail.com
Julian Assange, patron di Wikileaks, a missione conclusa, l'assassination character di Silvio Berlusconi, è a Londra a trattare la resa.
Il buco nella rete Usa c'era davvero; gli inglesi lo sapevano. Washington ha convocato i migliori specialisti mondiali di sicurezza informatica; non un inglese fra loro. «Abbiamo altri amici più fidati», dice uno che la sa lunga.
Repentino cambio di rotta di Barak Hussein Obama sugli insediamenti israeliani; è un segnale?
Mentre Gianfranco Fini ci distrae con le sue trame inglesi, teniamo d'occhio Londra, per non farci fregare come numerose altre volte; nel 1992 per esempio, sul panfilo Britannia, di cui Assange non parla.
Finita la seconda guerra mondiale, gli inglesi non ci volevano nella Nato: eravamo superflui. Controllavano i nostri servizi segreti e la Marina, la Sicilia cui erano interessati ben più che a Malta, la finanza, pezzi importanti dello stato. Fu la Francia a esigerci nell'Alleanza. Dal golpe di Muammar Gheddafi contro il re filobritannico Idris, col centrosinistra e piazza Fontana cominciò la nostra guerra di indipendenza petrolifera (e non solo) da Londra, acerrima nemica, del centrosinistra e di Aldo Moro. Il tentativo di Enrico Mattei di liberarsi dell'egemonia inglese finì con una bomba in Sicilia, dove Londra ha legami eccellenti. Il separatismo e la vicenda di Salvatore Giuliano sono inglesi, ben più che americani, come invece si lasciò intendere. L'Evis (Esercito Volontari Indipendentisti Siciliani) era diretto dalla nobiltà siciliana, legatissima a Sua maestà britannica. Il cosidetto «lodo Moro», una delle innumerevoli balle di Francesco Cossiga, cioé la “man salva” dei palestinesi in Italia per non subirne gli attentati, fu invece una salvaguardia del territorio britannico. In quanto a noi, i danni li subimmo; basti ricordare la Sinagoga di Roma, nel 1982.
I tentacoli londinesi sono avvertibili. Divenuto consulente della commissione Mitrokhin, al primo incontro con Paolo Guzzanti, suggerii: «Per capire le Brigate rosse, parta dai piani militari del Patto di Varsavia». In quanto al dossier Mitrokhin: «Chieda a Londra il testo decrittato e abbiamo finito di lavorare». Guzzanti disse che Cossiga gli aveva confidato di aver visto i piani di invasione dell'Italia dalle mani di Michail Gorbachev. Poi aggiunse: «Il testo decrittato da Mitrokin concernente l'Italia non esiste perché gli inglesi sono rispettosi degli alleati».
Cossiga incontrò Gorbachev a Roma un anno prima che l'Urss crollasse. L'ostensione dei piani gettava una luce sinistra su Cossiga, corresponsabile della morte di Moro, che aveva aperto le porte a Tangentopoli, dimettendosi inopinatamente da presidente della Repubblica. Poi se n'era andato, dove? In Gran Bretagna. Non dissi nulla a Guzzanti perché la sua seconda affermazione, che egli fosse consapevole o meno, era una balla conclamata: gli inglesi avevano decrittato in trenta giorni tutto il dossier Mitrokhin.
Di lì a qualche mese comparve un Mario Scaramella, sedicente collegamento con i servizi inglesi. Paolo Guzzanti, mentore di Scaramella, intanto duettava con Oleg Gordievski, colonnello prima del Kgb e poi dell'Mi5. Era un'operazione, in mano ai servizi inglesi, con un paio di testate italiane nemiche di Silvio Berlusconi, che soffocava la Mitrokhin, da Londra e da Mosca (ma quest'ultima era più giustificata).. In questa brutta vicenda fu ucciso Sasha Litvinenko, agente del Kgb in fuga, che avrebbe potuto sputtanare Londra, Mosca e gli italiani manutengoli d'ambedue.
Francesco Cossiga, il 16 marzo 2005, scrivendo al Giornale, a proposito dei piani mostratigli da Gorbachev, lanciò due avvertimenti: 1) lasciate perdere; 2) gli inglesi hanno la lista dei collaborazionisti con l'Unione sovietica. Ordine ricevuto, Ordine eseguito.
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1690607&codiciTestate=1&sez=hgiornali
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Politica economica e sindacale.
Confindustria non si assolva
Scritto da Davide Giacalone
Friday 17 December 2010
...Da Confindustria giunge un affresco a tinte forti, capace di restituire con crudezza le debolezze della nostra economia. Si tratta di concetti che i nostri lettori conoscono, che ripetiamo sovente. Occorrerebbe esercitarsi, però, non solo sulla (naturalmente indispensabile) misurazione dei parametri vitali, ma sulla diagnosi e sulla terapia. La via d’uscita c’è, ma non consiste nell’assumere atteggiamenti lamentosi e rivendicativi, come anche Confindustria ha preso a fare.
I dati resi pubblici dal Centro studi possono essere riassunti in due differenti ambiti. Da una parte c’è la crescita, corretta con un meno 0,2% sia per il 2010 che per il 2011, attestandosi così all’1 per l’anno in corso e all’1,1 per il prossimo. Poco, troppo poco. Poi c’è la disoccupazione: 540 mila posti di lavoro persi, fra il 2008 e il 2010, cui si possono legittimamente sommare l’equivalente di altri 480 mila, mantenuti in vita dalla cassa integrazione. Più di un milione. Troppi. Dice Confindustria che la “malattia della lenta crescita” è rimasta tale per effetto delle mancate riforme. E qui la fanno semplice, oltre che autoassolutoria.
Il nostro crescere con il contagocce, cui si è sommato il tonfo recessivo, dura da tre lustri, ma non è la malattia bensì il prodotto di non risolte rigidità e arretratezze. Che sono politiche, non si discute, ma anche sindacali, sia sul fronte dei lavoratori che degli imprenditori. Se mi soffermo, ora, su queste ultime, è solo perché da quel lato arriva l’ultima “denuncia”, non avendo mai risparmiato gli altri responsabili. Difatti, non solamente il nostro mercato del lavoro è arretrato, lo è anche quello dell’impresa e della finanza: il nostro capitalismo provinciale e familiare, fatto d’intrecci e conflitti d’interesse, poteva avere un senso e un’utilità quando si trattava di far viaggiare la flotta nazionale, i cui armatori erano spesso privi di capitali, o assai riottosi nel metterli a rischio. Il “sistema Cuccia” ha avuto grandissimi meriti, ma è finito da anni, con la globalizzazione e l’euro. Eppure la rete delle grandi imprese è ancora tessuta con troppo pochi fili, maledettamente intrecciati fra di loro. Il rimedio non può essere la delocalizzazione alla ricerca di minori costi, lasciando immutata l’arretratezza interna. Un tema con cui Confindustria deve fare i conti.
E’ vero che la Germania s’è ristrutturata in modo profondo, lavorando sodo per prepararsi a mercati cambiati, ma è anche vero che mentre loro lo facevano noi puntavamo il dito verso i loro alti tassi di disoccupazione. Misurando solo quelli, anziché la produttività, si perde occupazione futura. E ora siamo nel futuro di allora, nel tempo in cui loro raccolgono i frutti. Preparati da Gerhard Schroder, socialdemocratico, disposto anche a perderci le elezioni (rinunciando all’alleanza con la sinistra), poi da un governo di grande coalizione, infine consegnati ad Angela Merkel. Ciò è stato possibile grazie a una maggiore serietà della classe politica, certamente, ma anche grazie al fatto che in Germania né l’impresa né la stampa avevano mai soffiato sul fuoco dell’ordalia antipartitica, come è avvenuto, invece, in Italia. L’impresa italiana ha le sue responsabilità, come anche nella sventurata stagione delle privatizzazioni senza mercato, che quella stagione rese possibili.
Confindustria ci tiene, come tanti altri soggetti italiani, a dire che non si schiera. Strano modo di concepire la democrazia, dove, invece, è naturale schierarsi e schierare gli interessi. Non ideologicamente, perché anche questo è un segno di arretratezza, ma politicamente. Non basta dire che ci vuole una riforma del sistema dell’istruzione (lo dicono tutti) ci si deve schierare quando gli interessi conservativi la bloccano. Si rilancia, semmai, ma non si evade il tema. Non basta dire che va cambiato il mercato del lavoro, si deve agire, altrimenti capita che si venga scartati dagli imprenditori stessi. In una democrazia gli interessi reali non restano mai a bordo campo, plaudenti o vocianti. Giocano, prendono le pedate e provano a segnare. Specie in un Paese in cui la stampa non è esattamente indipendente dall’impresa.
Non è affatto innaturale che un imprenditore, o un sindacalista, decida, al pari di ogni altro cittadino, di candidarsi a governare. Lo è che pensi d’essere una risorsa indipendente, fuori dagli schieramenti. Confindustria ha prodotto anche questo, come se la difesa di un interesse possa divenire l’interesse generale. Invece il tema urgente è un altro: senza più uno Stato che lenisce i conflitti e alimenta lo sviluppo con la spesa pubblica, che mestiere pensano di fare i corpi intermedi? Sergio Marchionne ha risposto, a modo suo, rinunciando prima a Federmeccanica e poi a Confindustria.
Non si tratta di contestare i dati resi pubblici ieri, come pure il governo potrebbe malauguratamente fare (ci ha già provato con la Banca d’Italia), ma di stabilire a cosa servono. Spero non a piangersi addosso o a cercare, infantilmente, di dimostrare che la colpa è tutta degli altri.
www.davidegiacalone.it
Scritto da Davide Giacalone
Friday 17 December 2010
...Da Confindustria giunge un affresco a tinte forti, capace di restituire con crudezza le debolezze della nostra economia. Si tratta di concetti che i nostri lettori conoscono, che ripetiamo sovente. Occorrerebbe esercitarsi, però, non solo sulla (naturalmente indispensabile) misurazione dei parametri vitali, ma sulla diagnosi e sulla terapia. La via d’uscita c’è, ma non consiste nell’assumere atteggiamenti lamentosi e rivendicativi, come anche Confindustria ha preso a fare.
I dati resi pubblici dal Centro studi possono essere riassunti in due differenti ambiti. Da una parte c’è la crescita, corretta con un meno 0,2% sia per il 2010 che per il 2011, attestandosi così all’1 per l’anno in corso e all’1,1 per il prossimo. Poco, troppo poco. Poi c’è la disoccupazione: 540 mila posti di lavoro persi, fra il 2008 e il 2010, cui si possono legittimamente sommare l’equivalente di altri 480 mila, mantenuti in vita dalla cassa integrazione. Più di un milione. Troppi. Dice Confindustria che la “malattia della lenta crescita” è rimasta tale per effetto delle mancate riforme. E qui la fanno semplice, oltre che autoassolutoria.
Il nostro crescere con il contagocce, cui si è sommato il tonfo recessivo, dura da tre lustri, ma non è la malattia bensì il prodotto di non risolte rigidità e arretratezze. Che sono politiche, non si discute, ma anche sindacali, sia sul fronte dei lavoratori che degli imprenditori. Se mi soffermo, ora, su queste ultime, è solo perché da quel lato arriva l’ultima “denuncia”, non avendo mai risparmiato gli altri responsabili. Difatti, non solamente il nostro mercato del lavoro è arretrato, lo è anche quello dell’impresa e della finanza: il nostro capitalismo provinciale e familiare, fatto d’intrecci e conflitti d’interesse, poteva avere un senso e un’utilità quando si trattava di far viaggiare la flotta nazionale, i cui armatori erano spesso privi di capitali, o assai riottosi nel metterli a rischio. Il “sistema Cuccia” ha avuto grandissimi meriti, ma è finito da anni, con la globalizzazione e l’euro. Eppure la rete delle grandi imprese è ancora tessuta con troppo pochi fili, maledettamente intrecciati fra di loro. Il rimedio non può essere la delocalizzazione alla ricerca di minori costi, lasciando immutata l’arretratezza interna. Un tema con cui Confindustria deve fare i conti.
E’ vero che la Germania s’è ristrutturata in modo profondo, lavorando sodo per prepararsi a mercati cambiati, ma è anche vero che mentre loro lo facevano noi puntavamo il dito verso i loro alti tassi di disoccupazione. Misurando solo quelli, anziché la produttività, si perde occupazione futura. E ora siamo nel futuro di allora, nel tempo in cui loro raccolgono i frutti. Preparati da Gerhard Schroder, socialdemocratico, disposto anche a perderci le elezioni (rinunciando all’alleanza con la sinistra), poi da un governo di grande coalizione, infine consegnati ad Angela Merkel. Ciò è stato possibile grazie a una maggiore serietà della classe politica, certamente, ma anche grazie al fatto che in Germania né l’impresa né la stampa avevano mai soffiato sul fuoco dell’ordalia antipartitica, come è avvenuto, invece, in Italia. L’impresa italiana ha le sue responsabilità, come anche nella sventurata stagione delle privatizzazioni senza mercato, che quella stagione rese possibili.
Confindustria ci tiene, come tanti altri soggetti italiani, a dire che non si schiera. Strano modo di concepire la democrazia, dove, invece, è naturale schierarsi e schierare gli interessi. Non ideologicamente, perché anche questo è un segno di arretratezza, ma politicamente. Non basta dire che ci vuole una riforma del sistema dell’istruzione (lo dicono tutti) ci si deve schierare quando gli interessi conservativi la bloccano. Si rilancia, semmai, ma non si evade il tema. Non basta dire che va cambiato il mercato del lavoro, si deve agire, altrimenti capita che si venga scartati dagli imprenditori stessi. In una democrazia gli interessi reali non restano mai a bordo campo, plaudenti o vocianti. Giocano, prendono le pedate e provano a segnare. Specie in un Paese in cui la stampa non è esattamente indipendente dall’impresa.
Non è affatto innaturale che un imprenditore, o un sindacalista, decida, al pari di ogni altro cittadino, di candidarsi a governare. Lo è che pensi d’essere una risorsa indipendente, fuori dagli schieramenti. Confindustria ha prodotto anche questo, come se la difesa di un interesse possa divenire l’interesse generale. Invece il tema urgente è un altro: senza più uno Stato che lenisce i conflitti e alimenta lo sviluppo con la spesa pubblica, che mestiere pensano di fare i corpi intermedi? Sergio Marchionne ha risposto, a modo suo, rinunciando prima a Federmeccanica e poi a Confindustria.
Non si tratta di contestare i dati resi pubblici ieri, come pure il governo potrebbe malauguratamente fare (ci ha già provato con la Banca d’Italia), ma di stabilire a cosa servono. Spero non a piangersi addosso o a cercare, infantilmente, di dimostrare che la colpa è tutta degli altri.
www.davidegiacalone.it
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Tosto e concreto : ma non lo ascolteranno.
Flotte e marosi
di Davide Giacalone, oggi
Avviso ai naviganti: il vento è girato. Dopo il rinnovo della fiducia una cosa è chiara alla truppa parlamentare: la legislatura dura finché dura il governo. Questo stabilizza l’esecutivo, al di là delle colorite cronache sull’andirivieni di tanta bella gente anonima. E lo stabilizza al punto da potere rendere verosimile la voglia di galleggiare e andare avanti. Si tratta, adesso, cambiate le condizioni meteo, di tarare la rotta e scegliere le vele.
Le imbarcazioni del centro destra seguono la scia della nave ammiraglia, sempre fiduciose che sappia dove andare. Anche se non avessero tale fiducia, sanno comunque che è l’unica capace di navigare qualsiasi mare. Quindi s’accodano.. Taluni credono utile allargare la flotta alle vele di Pier Ferdinando Casini, ma non hanno le idee chiare sui tempi: l’alleanza è un fatto del passato e lo sarà del futuro, chiunque s’aggreghi al terzo polo per antiberlusconismo (coltivato dopo essere stati dal tiranno beneficiati) ha sbagliato indirizzo. Ma oggi Casini ha una potenziale rendita elettorale, data dall’essere l’unico elettoralmente sopravvissuto ad una rottura con Silvio Berlusconi, quindi il più credibile protagonista del terzopolismo (il che dimostra l’impietosa ironia della storia, essendo lui democristiano), pertanto il più capace di succhiare le ultime gocce di sangue elettorale che circolano nelle vene dei sui temporanei alleati. Il ruolo politico di Casini è cresciuto proprio mentre Gianfranco Fini si schiantava contro ad un muro e Francesco Rutelli si gettava nel vuoto, incontrando sé stesso. Siccome il tiranno è tale solo agli occhi di chi così se lo immagina, ma non può disporre di tutti i posti governativi che gli servirebbero e di tutti gli eletti che abbisognerebbero, non è da escludersi che l’alleanza si faccia, ma dopo le elezioni.
La flottiglia centrista, per le ragioni appena dette, viaggia costretta dalla disperazione. Il comandante di ciascuna bagnarola ha in cuore la voglia di vedere affondare il vicino alleato. L’unico per cui l’arrivo in porto non coinciderà con il disarmo è Casini.
A sinistra devono ancora decidere se mettere le navi in acqua, o continuare a farsi la guerra spernacchiandosi, sputandosi e lanciandosi le palline di carta, ma a secco. Tanti capitan Trinchetto non fanno mezzo mozzo utile.. Il prossimo 23 si riunirà la direzione del Partito Democratico, ed è una delle ultime occasioni in cui questo partito qui si può dare una linea. Sorbole!
Pier Luigi Bersani legga quel che scriviamo da anni, sulla pagliacciata autolesionista delle primarie, e legga poi le cose che va balbettando adesso, per cercare di fermare la macchina tritapartito. Scoprirà che è il caso di stare ad ascoltare. Dunque: non solo deve chiedere le elezioni anticipate, ma è bene ci metta convinzione e lavori per ottenerle. Se la legislatura si sbrodola in lungo alla sinistra toccherà solo fare i conti con una piazza sempre meno praticabile e sempre più occupata dalla feccia che punta contro la sinistra stessa. Tutte le ipotesi dei governi che piacciono a sinistra, ovvero da loro egemonizzati e dagli italiani non votati, sono state spazzate via. Meglio accorciare i tempi, allora.
La sinistra ha paura delle urne, perché è sicura di non ritrovarcisi. Ma questo non è un prodotto del fato, bensì dei loro errori. Chiudano la porta in faccia al dipietrismo. Espellano ogni estremismo. La smettano di dire, con Bersani, che ci vogliono le “riforme istituzionali, elettorali e della giustizia”. Dicano quali. Ci vuole poco, le conoscono tutti quelli che non hanno portato il cervello all’ammasso: decisività del voto e potere in capo a chi ne prende di più, quindi sistemi di tipo presidenziale o con il premierato; procedure giudiziarie eque, quindi con tempi contenuti e separazione delle carriere, che sfoltiscano sia l’ostruzionismo legalizzato che il contenzioso esasperato. Non devono neanche sforzarsi di dir cose di sinistra, che, tanto, non ci riescono, basterebbe il buon senso. Dopo di che s’accorgerebbero che c’è una massa di voti alla ricerca dell’alternativa al berlusconismo, che non si trova nell’antiberlusconismo. Anzi, il settore della politica più deteriormente berlusconizzato è la sinistra.
Nel complesso le diverse flotte paiono più preda che dominatrici dei marosi, mentre gli equipaggi aspirano più a fare i sugheri che i navigatori. Ogni volta che l’onda dei problemi scuote i gusci corrono tutti a legarsi agli alberi, invocando la stabilità, solo che la confondono, colpevolmente, con la stagnazione. L’Italia ha bisogno di ben altro, né tutti hanno vocazione per la ciurma.
di Davide Giacalone, oggi
Avviso ai naviganti: il vento è girato. Dopo il rinnovo della fiducia una cosa è chiara alla truppa parlamentare: la legislatura dura finché dura il governo. Questo stabilizza l’esecutivo, al di là delle colorite cronache sull’andirivieni di tanta bella gente anonima. E lo stabilizza al punto da potere rendere verosimile la voglia di galleggiare e andare avanti. Si tratta, adesso, cambiate le condizioni meteo, di tarare la rotta e scegliere le vele.
Le imbarcazioni del centro destra seguono la scia della nave ammiraglia, sempre fiduciose che sappia dove andare. Anche se non avessero tale fiducia, sanno comunque che è l’unica capace di navigare qualsiasi mare. Quindi s’accodano.. Taluni credono utile allargare la flotta alle vele di Pier Ferdinando Casini, ma non hanno le idee chiare sui tempi: l’alleanza è un fatto del passato e lo sarà del futuro, chiunque s’aggreghi al terzo polo per antiberlusconismo (coltivato dopo essere stati dal tiranno beneficiati) ha sbagliato indirizzo. Ma oggi Casini ha una potenziale rendita elettorale, data dall’essere l’unico elettoralmente sopravvissuto ad una rottura con Silvio Berlusconi, quindi il più credibile protagonista del terzopolismo (il che dimostra l’impietosa ironia della storia, essendo lui democristiano), pertanto il più capace di succhiare le ultime gocce di sangue elettorale che circolano nelle vene dei sui temporanei alleati. Il ruolo politico di Casini è cresciuto proprio mentre Gianfranco Fini si schiantava contro ad un muro e Francesco Rutelli si gettava nel vuoto, incontrando sé stesso. Siccome il tiranno è tale solo agli occhi di chi così se lo immagina, ma non può disporre di tutti i posti governativi che gli servirebbero e di tutti gli eletti che abbisognerebbero, non è da escludersi che l’alleanza si faccia, ma dopo le elezioni.
La flottiglia centrista, per le ragioni appena dette, viaggia costretta dalla disperazione. Il comandante di ciascuna bagnarola ha in cuore la voglia di vedere affondare il vicino alleato. L’unico per cui l’arrivo in porto non coinciderà con il disarmo è Casini.
A sinistra devono ancora decidere se mettere le navi in acqua, o continuare a farsi la guerra spernacchiandosi, sputandosi e lanciandosi le palline di carta, ma a secco. Tanti capitan Trinchetto non fanno mezzo mozzo utile.. Il prossimo 23 si riunirà la direzione del Partito Democratico, ed è una delle ultime occasioni in cui questo partito qui si può dare una linea. Sorbole!
Pier Luigi Bersani legga quel che scriviamo da anni, sulla pagliacciata autolesionista delle primarie, e legga poi le cose che va balbettando adesso, per cercare di fermare la macchina tritapartito. Scoprirà che è il caso di stare ad ascoltare. Dunque: non solo deve chiedere le elezioni anticipate, ma è bene ci metta convinzione e lavori per ottenerle. Se la legislatura si sbrodola in lungo alla sinistra toccherà solo fare i conti con una piazza sempre meno praticabile e sempre più occupata dalla feccia che punta contro la sinistra stessa. Tutte le ipotesi dei governi che piacciono a sinistra, ovvero da loro egemonizzati e dagli italiani non votati, sono state spazzate via. Meglio accorciare i tempi, allora.
La sinistra ha paura delle urne, perché è sicura di non ritrovarcisi. Ma questo non è un prodotto del fato, bensì dei loro errori. Chiudano la porta in faccia al dipietrismo. Espellano ogni estremismo. La smettano di dire, con Bersani, che ci vogliono le “riforme istituzionali, elettorali e della giustizia”. Dicano quali. Ci vuole poco, le conoscono tutti quelli che non hanno portato il cervello all’ammasso: decisività del voto e potere in capo a chi ne prende di più, quindi sistemi di tipo presidenziale o con il premierato; procedure giudiziarie eque, quindi con tempi contenuti e separazione delle carriere, che sfoltiscano sia l’ostruzionismo legalizzato che il contenzioso esasperato. Non devono neanche sforzarsi di dir cose di sinistra, che, tanto, non ci riescono, basterebbe il buon senso. Dopo di che s’accorgerebbero che c’è una massa di voti alla ricerca dell’alternativa al berlusconismo, che non si trova nell’antiberlusconismo. Anzi, il settore della politica più deteriormente berlusconizzato è la sinistra.
Nel complesso le diverse flotte paiono più preda che dominatrici dei marosi, mentre gli equipaggi aspirano più a fare i sugheri che i navigatori. Ogni volta che l’onda dei problemi scuote i gusci corrono tutti a legarsi agli alberi, invocando la stabilità, solo che la confondono, colpevolmente, con la stagnazione. L’Italia ha bisogno di ben altro, né tutti hanno vocazione per la ciurma.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Si, questo è uno di quelli.
giovedì 23 dicembre 2010, 08:55
Ostellino: "Cosa manca a questo centrodestra"
di Luigi Mascheroni
Piero Ostellino è molte cose. Un giornalista, un politologo, un ex direttore del Corriere della Sera , un club del quale pochi possono vantarsi di fare parte, e soprattutto un liberale. Circolo - se possibile - ancora più ristretto. Un «liberale scomodo», come si è definito una volta. «Ormai, più che altro, un vecchio liberale».
Cosa significa essere liberali?
«Essere minoritari in un Paese totalmente privo di cultura liberale, e quindi essere picchiato sia da destra che da sinistra».
Lei è di destra o di sinistra?
«Sono “altrove”, cioè dalla parte del cittadino. Una categoria di solito dimenticata dalla politica e dal giornalismo».
Perché dimenticata?
«Perché in tutti i discorsi dei politici e in tutte le pagine dei giornali non c’è mai posto per la più importante delle domande: “ Ma a me cittadino, da tutto questo cosa ne viene?”. Vale a dire: dopo tutti gli accordi, le divisioni, i provvedimenti bocciati o le leggi approvate, quanto aumentano e quanto diminuiscono la libertà e il benessere del cittadino elettore? Domandarselo significa essere dei liberali».
Questo governo se l’è domandato? Cosa ha fatto e cosa non ha fatto di liberale?
«Ha fatto diverse cose che si proponeva di fare, soprattutto la riforma Gelmini, contro la quale incredibilmente i giovani, probabilmente senza neppure sapere perché, stanno protestando: se c’è una riforma meritocratica, che limita il potere dei baroni a favore di chi studia, questa è proprio la riforma Gelmini. Certo, è perfettibile. Ma poiché la società perfetta non esiste, se non nella mente degli utopisti, dobbiamo accontentarci».
E cosa non ha fatto invece Berlusconi?
«Nel 1994 promise di fare due cose fondamentali per rilanciare l’Italia: una radicale riforma della pubblica amministrazione, tagliando la spesa pubblica; e un ridimensionamento della pressione fiscale. Ciò avrebbe significato ripresa economica e miglioramento della vita sociale. E questo non è stato realizzato».
Per colpa di chi?
«Da una parte per un’opposizione interna al centrodestra, e con questo non intendo solo Fini o Casini, ma anche qualcuno dentro Forza Italia... E forse persino lo stesso Berlusconi non ci ha creduto fino in fondo...E dall’altra, ovviamente,per l’opposizione della vera forza conservatrice di questo Paese».
La sinistra.
«La sinistra. Che non a caso comeslogan del proprio conservatorismo ha scelto “Giù le mani dalla Costituzione!”. Ma se esiste una Costituzione vecchia e anacronistica è proprio la nostra, il risultato di un compromesso tra il cattolicesimo dossettiano e il comunismo di stampo sovietico. Una Costituzione che è tutto tranne che liberale, un misto tra collettivismo comunista e corporativismo fascista. Da cui discende la natura della nostra politica che da sempre, invece che dirigere il Paese, pensa a difendere gli interessi di un gruppo piuttosto che un altro e a mediare tra i diversi interessi».
Lei ha detto che la colpa è anche di qualcuno dentro il partito del premier.
«Sono i democristiani confluiti in Forza Italia che si portano appresso il vecchio vizio della Dc di voler accontentare tutti. Correnti, “colori” e fazioni sono l’espressione più evidente delle corporazioni in cui è divisa la società. Fino a quando questa tendenza sopravvive, Berlusconi non potrà realizzare i suoi obiettivi».
A proposito di Berlusconi, è vivo o morto?
«Visto come è andata alla Camera la scorsa settimana direi proprio che è vivo. Ammazzarlo credo sia difficile. Certo però che è ferito. L’implosione del centrodestra, con l’uscita di Fini, lo ha politicamente azzoppato. Gli rimane ancora una grande attrazione elettorale, ma ha perso in parte la forza governativa. Ma in fondo questa è sempre stata la sua natura».
E qual è la sua natura?
«Gli antiberlusconiani lo dipingono come un autocrate, un dittatore, ma in realtà lui è un monopolista. La sua natura di uomo di affari prevale sulla sua posizione politica. È il migliore nel raccogliere il voto della gente comune, cioè dei moderati. Ma una volta vinte le elezioni si convince che la cosa più importante l’ha già fatta, quando invece deve iniziare a governare. Che significa anche dialogare con i suoi collaboratori, i quali spesso non hanno però il coraggio di dirgli “Non sono d’accordo”... Già di suo, poi, Berlusconi è convinto che ascoltare gli altri sia una perditadi tempo. E questo vale anche verso le forze dell’opposizione. Invece, non dico con Repubblica , ma almeno con Bersani potrebbe parlare... Male non gli farebbe».
I ministri migliori di questo governo?
«Non mi piacciono i giochetti migliore-peggiore».
Mettiamola così: quelli che l’hanno più soddisfatta.
«Tremonti, per aver cercato di tenere i conti in ordine. È grazie a lui che non abbiamo fatto la fine della Grecia: quando Berlusconi si ritirerà potrebbe essere lui il nostro Sarkozy, a patto che l’anima socialista lasci posto a quella liberale. Sacconi, un ex socialista di grande buonsenso, anche se sembra quasi un democristiano. Gelmini, per il tentativo di modernizzare l’università. Maroni, un grande ministro degli Interni per la moderazione con la quale parla e si muove. E Frattini, il miglior ministro degli Esteri possibile in un governo che ha come premier un monopolista come Berlusconi che fa già lui il ministro degli Esteri».
Quelli che l’hanno soddisfatta di meno?
«Tutti gli altri. Figure abbastanza grigie». E Fini? «Un altro prodotto del monopolismo berlusconiano. Era un oppositore interno petulante e ondivago. Ma con l’espulsione dal partito, perché di fatto è stata un’espulsione, Berlusconi lo ha fatto diventare un caso istituzionale. Mi chiedo: ma era così difficile sopportarsi? Detto questo, Fini è diventato incompatibile con la carica che ricopre non per l’appartamento di Montecarlo ma perché da presidente della Camera ha creato un partito. Non si tratta di un problema morale, ma istituzionale».
Ma è un traditore?
«No, il tradimento non è una categoria politica».
E dal punto di vista politico, cos’è Fini?
«Una figura molto modesta. Non è certo l’alfiere di una destra liberale e moderna che qualcuno vuole farci credere che sia».
La Lega?
«Partita bene, con una vocazione rivoluzionaria riassunta nel grido grezzo ma efficace “Roma ladrona” contro sprechi, favoritismi e assistenzialismo, però poi trasformatasi in una sorta di Democrazia cristiana locale, troppo attenta alle parentele e agli interessi “particolari” che le impediscono di diventare una vera forza nazionale. Insomma, mi sembra un po’ indebolita».
E la sinistra come sta? È viva o morta?
«Definitivamente defunta. E lo dico con rammarico, perché avremmo davvero bisogno di una opposizione seria e riformista. Questa sinistra invece difende gli occupati e non i giovani che cercano lavoro, i baroni e non gli studenti... è una sinistra post-comunista che ha perso il miraggio della rivoluzione e non sa dove guardare. Non ha più un riferimento».
E la nuova sinistra? Vendola e Renzi? «Vendola mi fa tenerezza, mi sembra un Pasolini che non scrive poesie, uno che fa discorsi da vecchio comunista condendoli con una retorica giovanilistica. Renzi è un rottamatore dentro una sinistra già rottamata, un toscano più incline allo sberleffo che alla retorica. Funzionano bene a livello locale, ma nessuno dei due ha la statura del leader nazionale».
Saviano, il «papa nero»?
«Mi fa pena, nel senso cristiano di pietas: ha scritto un libro di successo, la sinistra intellettuale lo ha usato per fargli dire di tutto e appena ha scritto una lettera agli studenti prendendo le distanze dalla protesta di piazza lo ha scaricato. Una vergogna».
Perché gli intellettuali di sinistra non hanno mai sopportato Berlusconi e il berlusconismo?
«Perché, a differenza dell’intellettuale liberale che diffida del potere, quello di sinistra ne è affascinato. Adora il potere. E Berlusconi ogni volta che vince le elezioni glielo toglie».
Alle prossime elezioni cosa voterà?
«Non voto più da 30 anni. Tornerò a farlo solo quando verrà riformato questo Stato fortemente illiberale».
E canaglia.
«E canaglia, sì. Perché uno Stato che truccai semafori per guadagnare sulle multe e mette le telecamere nascoste per vedere chi attraversa la frontiera con la Svizzera, come se fossimo tutti evasori fiscali, è uno Stato canaglia. Indipendentemente da chi lo governa».
Ostellino: "Cosa manca a questo centrodestra"
di Luigi Mascheroni
Piero Ostellino è molte cose. Un giornalista, un politologo, un ex direttore del Corriere della Sera , un club del quale pochi possono vantarsi di fare parte, e soprattutto un liberale. Circolo - se possibile - ancora più ristretto. Un «liberale scomodo», come si è definito una volta. «Ormai, più che altro, un vecchio liberale».
Cosa significa essere liberali?
«Essere minoritari in un Paese totalmente privo di cultura liberale, e quindi essere picchiato sia da destra che da sinistra».
Lei è di destra o di sinistra?
«Sono “altrove”, cioè dalla parte del cittadino. Una categoria di solito dimenticata dalla politica e dal giornalismo».
Perché dimenticata?
«Perché in tutti i discorsi dei politici e in tutte le pagine dei giornali non c’è mai posto per la più importante delle domande: “ Ma a me cittadino, da tutto questo cosa ne viene?”. Vale a dire: dopo tutti gli accordi, le divisioni, i provvedimenti bocciati o le leggi approvate, quanto aumentano e quanto diminuiscono la libertà e il benessere del cittadino elettore? Domandarselo significa essere dei liberali».
Questo governo se l’è domandato? Cosa ha fatto e cosa non ha fatto di liberale?
«Ha fatto diverse cose che si proponeva di fare, soprattutto la riforma Gelmini, contro la quale incredibilmente i giovani, probabilmente senza neppure sapere perché, stanno protestando: se c’è una riforma meritocratica, che limita il potere dei baroni a favore di chi studia, questa è proprio la riforma Gelmini. Certo, è perfettibile. Ma poiché la società perfetta non esiste, se non nella mente degli utopisti, dobbiamo accontentarci».
E cosa non ha fatto invece Berlusconi?
«Nel 1994 promise di fare due cose fondamentali per rilanciare l’Italia: una radicale riforma della pubblica amministrazione, tagliando la spesa pubblica; e un ridimensionamento della pressione fiscale. Ciò avrebbe significato ripresa economica e miglioramento della vita sociale. E questo non è stato realizzato».
Per colpa di chi?
«Da una parte per un’opposizione interna al centrodestra, e con questo non intendo solo Fini o Casini, ma anche qualcuno dentro Forza Italia... E forse persino lo stesso Berlusconi non ci ha creduto fino in fondo...E dall’altra, ovviamente,per l’opposizione della vera forza conservatrice di questo Paese».
La sinistra.
«La sinistra. Che non a caso comeslogan del proprio conservatorismo ha scelto “Giù le mani dalla Costituzione!”. Ma se esiste una Costituzione vecchia e anacronistica è proprio la nostra, il risultato di un compromesso tra il cattolicesimo dossettiano e il comunismo di stampo sovietico. Una Costituzione che è tutto tranne che liberale, un misto tra collettivismo comunista e corporativismo fascista. Da cui discende la natura della nostra politica che da sempre, invece che dirigere il Paese, pensa a difendere gli interessi di un gruppo piuttosto che un altro e a mediare tra i diversi interessi».
Lei ha detto che la colpa è anche di qualcuno dentro il partito del premier.
«Sono i democristiani confluiti in Forza Italia che si portano appresso il vecchio vizio della Dc di voler accontentare tutti. Correnti, “colori” e fazioni sono l’espressione più evidente delle corporazioni in cui è divisa la società. Fino a quando questa tendenza sopravvive, Berlusconi non potrà realizzare i suoi obiettivi».
A proposito di Berlusconi, è vivo o morto?
«Visto come è andata alla Camera la scorsa settimana direi proprio che è vivo. Ammazzarlo credo sia difficile. Certo però che è ferito. L’implosione del centrodestra, con l’uscita di Fini, lo ha politicamente azzoppato. Gli rimane ancora una grande attrazione elettorale, ma ha perso in parte la forza governativa. Ma in fondo questa è sempre stata la sua natura».
E qual è la sua natura?
«Gli antiberlusconiani lo dipingono come un autocrate, un dittatore, ma in realtà lui è un monopolista. La sua natura di uomo di affari prevale sulla sua posizione politica. È il migliore nel raccogliere il voto della gente comune, cioè dei moderati. Ma una volta vinte le elezioni si convince che la cosa più importante l’ha già fatta, quando invece deve iniziare a governare. Che significa anche dialogare con i suoi collaboratori, i quali spesso non hanno però il coraggio di dirgli “Non sono d’accordo”... Già di suo, poi, Berlusconi è convinto che ascoltare gli altri sia una perditadi tempo. E questo vale anche verso le forze dell’opposizione. Invece, non dico con Repubblica , ma almeno con Bersani potrebbe parlare... Male non gli farebbe».
I ministri migliori di questo governo?
«Non mi piacciono i giochetti migliore-peggiore».
Mettiamola così: quelli che l’hanno più soddisfatta.
«Tremonti, per aver cercato di tenere i conti in ordine. È grazie a lui che non abbiamo fatto la fine della Grecia: quando Berlusconi si ritirerà potrebbe essere lui il nostro Sarkozy, a patto che l’anima socialista lasci posto a quella liberale. Sacconi, un ex socialista di grande buonsenso, anche se sembra quasi un democristiano. Gelmini, per il tentativo di modernizzare l’università. Maroni, un grande ministro degli Interni per la moderazione con la quale parla e si muove. E Frattini, il miglior ministro degli Esteri possibile in un governo che ha come premier un monopolista come Berlusconi che fa già lui il ministro degli Esteri».
Quelli che l’hanno soddisfatta di meno?
«Tutti gli altri. Figure abbastanza grigie». E Fini? «Un altro prodotto del monopolismo berlusconiano. Era un oppositore interno petulante e ondivago. Ma con l’espulsione dal partito, perché di fatto è stata un’espulsione, Berlusconi lo ha fatto diventare un caso istituzionale. Mi chiedo: ma era così difficile sopportarsi? Detto questo, Fini è diventato incompatibile con la carica che ricopre non per l’appartamento di Montecarlo ma perché da presidente della Camera ha creato un partito. Non si tratta di un problema morale, ma istituzionale».
Ma è un traditore?
«No, il tradimento non è una categoria politica».
E dal punto di vista politico, cos’è Fini?
«Una figura molto modesta. Non è certo l’alfiere di una destra liberale e moderna che qualcuno vuole farci credere che sia».
La Lega?
«Partita bene, con una vocazione rivoluzionaria riassunta nel grido grezzo ma efficace “Roma ladrona” contro sprechi, favoritismi e assistenzialismo, però poi trasformatasi in una sorta di Democrazia cristiana locale, troppo attenta alle parentele e agli interessi “particolari” che le impediscono di diventare una vera forza nazionale. Insomma, mi sembra un po’ indebolita».
E la sinistra come sta? È viva o morta?
«Definitivamente defunta. E lo dico con rammarico, perché avremmo davvero bisogno di una opposizione seria e riformista. Questa sinistra invece difende gli occupati e non i giovani che cercano lavoro, i baroni e non gli studenti... è una sinistra post-comunista che ha perso il miraggio della rivoluzione e non sa dove guardare. Non ha più un riferimento».
E la nuova sinistra? Vendola e Renzi? «Vendola mi fa tenerezza, mi sembra un Pasolini che non scrive poesie, uno che fa discorsi da vecchio comunista condendoli con una retorica giovanilistica. Renzi è un rottamatore dentro una sinistra già rottamata, un toscano più incline allo sberleffo che alla retorica. Funzionano bene a livello locale, ma nessuno dei due ha la statura del leader nazionale».
Saviano, il «papa nero»?
«Mi fa pena, nel senso cristiano di pietas: ha scritto un libro di successo, la sinistra intellettuale lo ha usato per fargli dire di tutto e appena ha scritto una lettera agli studenti prendendo le distanze dalla protesta di piazza lo ha scaricato. Una vergogna».
Perché gli intellettuali di sinistra non hanno mai sopportato Berlusconi e il berlusconismo?
«Perché, a differenza dell’intellettuale liberale che diffida del potere, quello di sinistra ne è affascinato. Adora il potere. E Berlusconi ogni volta che vince le elezioni glielo toglie».
Alle prossime elezioni cosa voterà?
«Non voto più da 30 anni. Tornerò a farlo solo quando verrà riformato questo Stato fortemente illiberale».
E canaglia.
«E canaglia, sì. Perché uno Stato che truccai semafori per guadagnare sulle multe e mette le telecamere nascoste per vedere chi attraversa la frontiera con la Svizzera, come se fossimo tutti evasori fiscali, è uno Stato canaglia. Indipendentemente da chi lo governa».
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
L'esempio dello "Stato canaglia", la doppiezza.
http://www.ilgiornale.it/interni/wikileaks_rivela_dalema_a_spogli_magistratura_grave_minaccia_stato/24-12-2010/articolo-id=495920-page=0-comments=1
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
E Napolitano non ha detto una parola, il 31 a reti unificate.
Vergogniamoci, per Battisti
Scritto da Davide Giacalone
domenica 02 gennaio 2011
Questa storia di Cesare Battisti è vergognosa, non c’è dubbio, ma noi italiani faremmo meglio a non recitare unicamente la parte degli offesi. Si tratta di un volgare assassino e ladro, che solo un’accolita di intellettualoidi idioti possono scambiare per una specie di martire politico, ma in questa faccenda noi paghiamo colpe collettive. Che sono reali. Ho visto che molti chiedono al governo di far la faccia feroce, così come ci sono ministri che straparlano di boicottaggi commerciali. Invece dovrebbero boicottare sé stessi, perché di quel che accade sono largamente responsabili. Battisti merita di scontare la galera a vita, ma meritava anche un processo al quale potesse prendere parte. L’idea di processare in contumacia dei cittadini italiani di cui si conosce benissimo l’indirizzo non è affatto accettabile: si sarebbe dovuto chiedere alla Francia di riaverlo e, quindi, di processarlo. Farlo in sua assenza, nel mentre quello si proclama perseguitato, serve solo a perdere tempo e dimostrare di avere un’idea approssimativa di cosa sia la giustizia.
Visto che andiamo incontro alle orride e inutilissime ritualità d’inizio anno, con le geremiadi giudiziarie, si sappia che quelle parole fanno il giro del mondo. E se i più alti gradi della magistratura dicono che la giustizia italiana fa schifo, se il capo del governo conferma d’essere perseguitato, quindi la giustizia fa schifo, se l’opposizione lamenta che il capo del governo non è ancora stato condannato, quindi la giustizia fa schifo, cosa credete che ne concludano gli altri? Che in Italia la giustizia fa schifo. E hanno ragione.
Posto ciò, trovo grottesca la commedia inscenata da chi reclama, per Battisti, la certezza della pena. Sono assolutamente convinto che dovrebbe scontarla, ma credo debbano farlo tutti i condannati. Se Battisti fosse rimasto in Italia, invece, sarebbe libero. Come lo sono quasi tutti i terroristi. Come lo sono migliaia di mafiosi. Migliaia. Non solo: ci siamo resi globalmente protagonisti di una storia da mentecatti, con gli statunitensi che tenevano in carcere una nostra cittadina, regolarmente condannata, e noi la reclamavamo per poterla liberare e mettere a libro paga dello Stato: Silvia Baraldini. Arrivammo al ridicolo di farla ricevere dal ministro della giustizia, Oliviero Diliberto. Non crediate che ci si possa comportare da buffoni per anni e, poi, essere presi sul serio quando ci si arrabbia.
Anche perché le autorità s’arrabbiano solo a favore delle telecamere interne, per recitare la parte. La sostanza è diversa e quando Silvio Berlusconi sbotta “se lo tengano”, dice quel che pensa, quel che non si può dire, ma quel che non è privo di saggezza e convenienza (pensate all’eventualità di un suo ritorno, pentimento e liberazione: altra figura meschina). Quel che escludo è che un pragmatico come il presidente Lula abbia negato l’estradizione per ragioni ideali. La verità è che quella decisione sta nel conto dei rapporti fra Brasile e Italia.
Sono stati buoni e profittevoli per molti anni. Il Brasile è fatto anche da italiani. Abbiamo multinazionali che hanno investito molto, in Brasile, e fatto ottimi affari. Ma siamo anche il Paese che, a un certo punto, ha preferito gli affaristi agli affari, che s’è fatto conoscere con il volto di chi privilegiava l’arricchimento personale sul crescere in un Paese in crescita. Fanno ridere, quelli che ora reclamano l’embargo: sveglia, ragazzotti brilli, lo abbiamo subito. Le nostre presenze industriali si sono ridotte, le commesse pubbliche a noi dirette sono diminuite, talora lavoriamo come fornitori di altri appaltatori, il tutto mentre il mercato brasiliano registra crescite straordinarie. Sono i brasiliani che possono punirci tenendoci fuori, mica noi che possiamo vendicarci non importando calciatori e travestiti.
Le missioni governative sono state gestite con una superficialità e con una non professionalità sbalorditive. Il presidente di una potenza economica mondiale è stato da noi ricevuto come se fosse il capo di un mondo che si divide fra samba e caipirinha. Ho l’impressione che Lula avesse voglia di lasciare la presidenza avendo assestato un bello schiaffone sulle gote italiane. E lo ha fatto.
Sicché, non prendiamoci in giro, quel che è capitato con Battisti è vergognoso, ma anche nel senso che dobbiamo vergognarci. Se politica e governo vogliono rendersi utili, senza limitarsi a sgambettare sul palcoscenico dell’indignazione, dedichino il loro tempo a rendere civile la nostra giustizia, certo il diritto e seria la politica estera (che è anche economica e commerciale).
A proposito: gli spioni italiani che inquinarono anche la vita brasiliana ancora attendono un processo che stabilisca cosa è successo e chi lo volle. Paghiamo anche questo, e con gli interessi.
Davide Giacalone
Scritto da Davide Giacalone
domenica 02 gennaio 2011
Questa storia di Cesare Battisti è vergognosa, non c’è dubbio, ma noi italiani faremmo meglio a non recitare unicamente la parte degli offesi. Si tratta di un volgare assassino e ladro, che solo un’accolita di intellettualoidi idioti possono scambiare per una specie di martire politico, ma in questa faccenda noi paghiamo colpe collettive. Che sono reali. Ho visto che molti chiedono al governo di far la faccia feroce, così come ci sono ministri che straparlano di boicottaggi commerciali. Invece dovrebbero boicottare sé stessi, perché di quel che accade sono largamente responsabili. Battisti merita di scontare la galera a vita, ma meritava anche un processo al quale potesse prendere parte. L’idea di processare in contumacia dei cittadini italiani di cui si conosce benissimo l’indirizzo non è affatto accettabile: si sarebbe dovuto chiedere alla Francia di riaverlo e, quindi, di processarlo. Farlo in sua assenza, nel mentre quello si proclama perseguitato, serve solo a perdere tempo e dimostrare di avere un’idea approssimativa di cosa sia la giustizia.
Visto che andiamo incontro alle orride e inutilissime ritualità d’inizio anno, con le geremiadi giudiziarie, si sappia che quelle parole fanno il giro del mondo. E se i più alti gradi della magistratura dicono che la giustizia italiana fa schifo, se il capo del governo conferma d’essere perseguitato, quindi la giustizia fa schifo, se l’opposizione lamenta che il capo del governo non è ancora stato condannato, quindi la giustizia fa schifo, cosa credete che ne concludano gli altri? Che in Italia la giustizia fa schifo. E hanno ragione.
Posto ciò, trovo grottesca la commedia inscenata da chi reclama, per Battisti, la certezza della pena. Sono assolutamente convinto che dovrebbe scontarla, ma credo debbano farlo tutti i condannati. Se Battisti fosse rimasto in Italia, invece, sarebbe libero. Come lo sono quasi tutti i terroristi. Come lo sono migliaia di mafiosi. Migliaia. Non solo: ci siamo resi globalmente protagonisti di una storia da mentecatti, con gli statunitensi che tenevano in carcere una nostra cittadina, regolarmente condannata, e noi la reclamavamo per poterla liberare e mettere a libro paga dello Stato: Silvia Baraldini. Arrivammo al ridicolo di farla ricevere dal ministro della giustizia, Oliviero Diliberto. Non crediate che ci si possa comportare da buffoni per anni e, poi, essere presi sul serio quando ci si arrabbia.
Anche perché le autorità s’arrabbiano solo a favore delle telecamere interne, per recitare la parte. La sostanza è diversa e quando Silvio Berlusconi sbotta “se lo tengano”, dice quel che pensa, quel che non si può dire, ma quel che non è privo di saggezza e convenienza (pensate all’eventualità di un suo ritorno, pentimento e liberazione: altra figura meschina). Quel che escludo è che un pragmatico come il presidente Lula abbia negato l’estradizione per ragioni ideali. La verità è che quella decisione sta nel conto dei rapporti fra Brasile e Italia.
Sono stati buoni e profittevoli per molti anni. Il Brasile è fatto anche da italiani. Abbiamo multinazionali che hanno investito molto, in Brasile, e fatto ottimi affari. Ma siamo anche il Paese che, a un certo punto, ha preferito gli affaristi agli affari, che s’è fatto conoscere con il volto di chi privilegiava l’arricchimento personale sul crescere in un Paese in crescita. Fanno ridere, quelli che ora reclamano l’embargo: sveglia, ragazzotti brilli, lo abbiamo subito. Le nostre presenze industriali si sono ridotte, le commesse pubbliche a noi dirette sono diminuite, talora lavoriamo come fornitori di altri appaltatori, il tutto mentre il mercato brasiliano registra crescite straordinarie. Sono i brasiliani che possono punirci tenendoci fuori, mica noi che possiamo vendicarci non importando calciatori e travestiti.
Le missioni governative sono state gestite con una superficialità e con una non professionalità sbalorditive. Il presidente di una potenza economica mondiale è stato da noi ricevuto come se fosse il capo di un mondo che si divide fra samba e caipirinha. Ho l’impressione che Lula avesse voglia di lasciare la presidenza avendo assestato un bello schiaffone sulle gote italiane. E lo ha fatto.
Sicché, non prendiamoci in giro, quel che è capitato con Battisti è vergognoso, ma anche nel senso che dobbiamo vergognarci. Se politica e governo vogliono rendersi utili, senza limitarsi a sgambettare sul palcoscenico dell’indignazione, dedichino il loro tempo a rendere civile la nostra giustizia, certo il diritto e seria la politica estera (che è anche economica e commerciale).
A proposito: gli spioni italiani che inquinarono anche la vita brasiliana ancora attendono un processo che stabilisca cosa è successo e chi lo volle. Paghiamo anche questo, e con gli interessi.
Davide Giacalone
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Più che "discutibili".
Tre comportamenti discutibili
Scritto da Bartolomeo Di Monaco
domenica 02 gennaio 2011
In attesa che la politica riprenda il suo corso e che a breve si possa sapere se la legislatura ci porterà le riforme tanto auspicate, o dovremo tornare al voto affinché siano gli elettori a riprendersi la barra della nostra sgangherata nave, ieri ho parlato di alcuni miti che il 2010 ha fatto precipitare dal loro piedistallo.
Oggi vorrei ricordare alcuni comportamenti che hanno destato, ahimè, una qualche ammirazione, e non la meritavano. Mi limito a tre nomi e a tre casi, sufficienti a chiarire il mio pensiero.
Ricordate Primo Greganti (e qui)? Fu uno dei protagonisti dello scandalo che è passato sotto il nome di Mani Pulite. “Greganti finì sotto inchiesta con l’accusa di aver procurato al partito un miliardo e 200 milioni. Quando l’allora pm Antonio Di Pietro lo fece arrestare, disse che i soldi nel mirino dell’inchiesta erano soltanto suoi.” Il partito di cui si parla è il Pci/Pds.
Si rinchiuse in un ostinato silenzio e lasciò che la Cassazione lo condannasse in luogo di, o insieme ad altri colpevoli quanto lui.
Ricorderete anche il cassiere di An, Francesco Pontone, balzato agli onori della cronaca nello scandalo della casa di Montecarlo che ha coinvolto il presidente della Camera nell’estate scorsa.
Come Greganti, sono convinto che allo stesso modo anche Pontone ci tenga nascosto qualcosa che avrebbe potuto aiutarci a scoprire la verità e il grado di coinvolgimento nel fattaccio del presidente della Camera.
Si è dimesso da cassiere della Fondazione An, ha fatto trasparire un certo risentimento per essere stato trascinato nella vicenda, ma più di questo non ha ritenuto di fare.
Di Greganti, fino agli accadimenti di Mani Pulite non si era mai sentito parlare, e quindi si può dedurre che fosse un galantuomo, al pari di Francesco Pontone, che addirittura all’interno di An, ma non solo, godeva fama di uomo integerrimo.
La mia convinzione è che il loro comportamento sia stato il frutto di una moralità distorta e che il loro dovere era, ed è ancora oggi, quello di aiutarci a scoprire la verità su vicende pregiudizievoli della integrità dello Stato.
Anche se il nostro Stato abbonda al suo interno di piaghe purulente, ciò non esime ciascuno di noi dal dovere di aiutare a combattere corruzione e scandali. In specie se la nostra vita è stata ed è spesa al servizio dei cittadini, come è sempre quando si decide di coprire incarichi pubblici.
Li giudico, senza alcuna indulgenza, due casi da non imitare.
Il terzo nome che voglio portare ad esempio negativo è quello di Giovanni Conso, l’ex guardasigilli che qualche settimana fa (e tanto mai tardivamente) ci ha rivelato che fu lui a liberare dal carcere duro centinaia di mafiosi, onde porre termine agli attentati organizzati allo scopo dalla criminalità organizzata.
Giovanni Conso non è un nome qualsiasi. Si tratta di uno studioso di diritto penale di altissimo rango, che ha ricoperto cariche prestigiose.
Quando era ministro e quando nel 1993 firmò lui i decreti che liberarono i tanti mafiosi dal carcere duro, capo del Governo era Carlo Azeglio Ciampi e capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro.
Anche Conso, come Greganti e come Pontone, non ci dice tutta la verità. Ovviamente è una mia opinione. Ma essa è dettata dal fatto che un tal uomo, saggio ed avveduto, non può aver preso in solitudine, come ha affermato, una decisione così importante e grave (si trattò della capitolazione dello Stato davanti alla criminalità organizzata).
Come Greganti e Pontone, anche Giovanni Conso gode la fama di uomo probo e onesto. Anzi, per i suoi meriti, egli appare quale guida illuminata da portare ad esempio per tutti. Faccio fatica, anch’io, a vergare queste righe che lo riguardano.
Ma se volesse coprire, dando sfogo pure lui ad una moralità contorta, coloro che oggi dichiarano di non averne saputo nulla, ossia Carlo Azeglio Ciampi e Oscar Luigi Scalfaro, siamo così sicuri che non scalfisca in qualche modo la sua fama?
www.bartolomeodimonaco.it
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
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