Dal tentativo di golpe giudiziario, al supporto dei falsi moralisti.
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Dal tentativo di golpe giudiziario, al supporto dei falsi moralisti.
Questi sì che sono SFRUTTATORI, nei due articoli.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/caso-ruby.doc
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/sgarbi1.pdf
p.s. Ho sbagliato, doveva essere non un nuovo post, ma un replay sul caso Ruby : sorry.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/caso-ruby.doc
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/sgarbi1.pdf
p.s. Ho sbagliato, doveva essere non un nuovo post, ma un replay sul caso Ruby : sorry.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Dal tentativo di golpe giudiziario, al supporto dei falsi moralisti.
venerdì 21 gennaio 2011, 09:35
QUEI SERMONI SENZA DECENZA
di Giuliano Ferrara
Sono imbarazzato. Come ateo devoto (definizione che mi sono appiccicato con ironia mal compresa da una cultura politica grossolana), mi ero messo nei guai. Guai seri, guai spirituali. Per aver predicato la «buona vita» come necessità razionale dell’esistenza moderna, per aver provocato e smaniato con i miei laici no all’aborto, al divorzio, alla pillola del giorno prima, del giorno dopo e alla kill pill (ho perfino presentato una lista di ispirazione etica che ha portato via 135.000 miseri voti a Berlusconi alla Camera); e per aver detto che il preservativo non può essere una bandiera, e che va bene il piacere ma il matrimonio è una cosa seria e si fa quando serve a fare famiglia e figli, non per soddisfare il legittimo Io gay e le sue voglie, e per aver sostenuto battaglie antieugenetiche nel referendum sulla fecondazione assistita, per tutto questo mi sono preso rampogne e sermoni di decenza da molti tra i quali Barbara Spinelli ed Enzo Bianchi, l’una sacerdotessa laica, l’altro monaco della Comunità di Bose.
La differenza cristiana, mi spiegava il monaco, è la libertà morale, di coscienza, e nel pluralismo delle forme spirituali possibili occorre cercare una verità non normativa, non dogmatica, aperta. Se un laico, che affetta una devozione posticcia, maurrassiana, da scomunica, predica criteri etici con disinvoltura, è che vuol fare politica, usare la religione come instrumentum regni, roba da imperatore Costantino, da patto scabroso tra chiesa e potere, una vergogna: firmato Bianchi. Se un laico non capisce le libertà di comportamento e di costume del moderno, tradisce se stesso, compie un’operazione ambigua, svilisce la religione e la ragione insieme, si mette al servizio di un ratzingerismo da gendarmi pontifici: ed è una vergogna, ha sostenuto la Spinelli contro di me e le mie povere idee.
Ora la sacerdotessa mi edifica con il «sermone della decenza», ieri su Repubblica, giornale interessante e vario in cui adesso si apre anche un capitolo di educazione spirituale dell’umanità, ciò di cui in fondo potrei anche compiacermi. E il monaco addirittura discetta sulla Stampa (sempre a prescindere da quel peccato originale che i preti progressisti considerano un ferrovecchio teologico, bizzarria psicoanalitica di un Agostino peccatore pentito) intorno alla lussuria, con la sua solitudine, la sua riduzione del piacere a cosa, la scissione del sesso dalla procreazione, e altre indecenze. Il tutto perché oggi politicamente conviene, ad atei e credenti della sinistra moralistica e teologica, criminalizzare moralmente un Berlusconi che, secondo me, va messo sotto accusa politicamente, ma lasciato in pace sul piano della sua morale privata, la quale non è un crimine e, se è un peccato (cosa che a me pare incontrovertibile) riguarda la sua coscienza e il suo direttore spirituale, visto che le feste di Arcore non sono atti pubblici, norme o leggi.
Per i lettori ignari di Repubblica e della Stampa, passi. Ma per me e per i lettori del Foglio, dico che dovrebbero essere risparmiati sermoni sulla decenza di vivere e sulla lussuria. Nessuna norma pubblica di morale o di diritto vieta di amare le ragazze, far loro dei regali, e convocarle per feste private in cui la messinscena del piacere, e scampoli di piacere anch’essi privati, rivestono un ruolo esteticamente grottesco ma moralmente iscritto nella sfera personale dell’Autore del copione, della sua libera coscienza, del suo modo di vivere molto moderno, della specifica differenza cristiana in cui è collocabile la sua cultura e la sua smania esistenziale. Gli stessi che chiudono un occhio (e anzi due) sulla deriva nichilista e mortuaria della civiltà d’oggi, sui suoi tic, sulle condizioni in cui vivono le minorenni e i minorenni a scuola, sul conformismo della trasgressione che avvilisce la maternità e la natalità, sulla manipolazione della vita e sulla distruzione di matrimonio e famiglia, tutto così fatale e inattaccabile se non da orrendi devoti turbati dal loro stesso accecamento conservatore; quegli stessi bardi di morale e di decenza abbiano la compiacenza di ripassare un’altra volta con le loro ipocrisie sulla vita lussuriosa del capo e sulla censurabilità dei suoi criteri di condotta. Non si può passare la vita ad abbassare la soglia della norma etica, e poi issare un muro di filisteismo moralistico contro il nemico politico. La lezione è rinviata a tempi migliori. Grazie.
QUEI SERMONI SENZA DECENZA
di Giuliano Ferrara
Sono imbarazzato. Come ateo devoto (definizione che mi sono appiccicato con ironia mal compresa da una cultura politica grossolana), mi ero messo nei guai. Guai seri, guai spirituali. Per aver predicato la «buona vita» come necessità razionale dell’esistenza moderna, per aver provocato e smaniato con i miei laici no all’aborto, al divorzio, alla pillola del giorno prima, del giorno dopo e alla kill pill (ho perfino presentato una lista di ispirazione etica che ha portato via 135.000 miseri voti a Berlusconi alla Camera); e per aver detto che il preservativo non può essere una bandiera, e che va bene il piacere ma il matrimonio è una cosa seria e si fa quando serve a fare famiglia e figli, non per soddisfare il legittimo Io gay e le sue voglie, e per aver sostenuto battaglie antieugenetiche nel referendum sulla fecondazione assistita, per tutto questo mi sono preso rampogne e sermoni di decenza da molti tra i quali Barbara Spinelli ed Enzo Bianchi, l’una sacerdotessa laica, l’altro monaco della Comunità di Bose.
La differenza cristiana, mi spiegava il monaco, è la libertà morale, di coscienza, e nel pluralismo delle forme spirituali possibili occorre cercare una verità non normativa, non dogmatica, aperta. Se un laico, che affetta una devozione posticcia, maurrassiana, da scomunica, predica criteri etici con disinvoltura, è che vuol fare politica, usare la religione come instrumentum regni, roba da imperatore Costantino, da patto scabroso tra chiesa e potere, una vergogna: firmato Bianchi. Se un laico non capisce le libertà di comportamento e di costume del moderno, tradisce se stesso, compie un’operazione ambigua, svilisce la religione e la ragione insieme, si mette al servizio di un ratzingerismo da gendarmi pontifici: ed è una vergogna, ha sostenuto la Spinelli contro di me e le mie povere idee.
Ora la sacerdotessa mi edifica con il «sermone della decenza», ieri su Repubblica, giornale interessante e vario in cui adesso si apre anche un capitolo di educazione spirituale dell’umanità, ciò di cui in fondo potrei anche compiacermi. E il monaco addirittura discetta sulla Stampa (sempre a prescindere da quel peccato originale che i preti progressisti considerano un ferrovecchio teologico, bizzarria psicoanalitica di un Agostino peccatore pentito) intorno alla lussuria, con la sua solitudine, la sua riduzione del piacere a cosa, la scissione del sesso dalla procreazione, e altre indecenze. Il tutto perché oggi politicamente conviene, ad atei e credenti della sinistra moralistica e teologica, criminalizzare moralmente un Berlusconi che, secondo me, va messo sotto accusa politicamente, ma lasciato in pace sul piano della sua morale privata, la quale non è un crimine e, se è un peccato (cosa che a me pare incontrovertibile) riguarda la sua coscienza e il suo direttore spirituale, visto che le feste di Arcore non sono atti pubblici, norme o leggi.
Per i lettori ignari di Repubblica e della Stampa, passi. Ma per me e per i lettori del Foglio, dico che dovrebbero essere risparmiati sermoni sulla decenza di vivere e sulla lussuria. Nessuna norma pubblica di morale o di diritto vieta di amare le ragazze, far loro dei regali, e convocarle per feste private in cui la messinscena del piacere, e scampoli di piacere anch’essi privati, rivestono un ruolo esteticamente grottesco ma moralmente iscritto nella sfera personale dell’Autore del copione, della sua libera coscienza, del suo modo di vivere molto moderno, della specifica differenza cristiana in cui è collocabile la sua cultura e la sua smania esistenziale. Gli stessi che chiudono un occhio (e anzi due) sulla deriva nichilista e mortuaria della civiltà d’oggi, sui suoi tic, sulle condizioni in cui vivono le minorenni e i minorenni a scuola, sul conformismo della trasgressione che avvilisce la maternità e la natalità, sulla manipolazione della vita e sulla distruzione di matrimonio e famiglia, tutto così fatale e inattaccabile se non da orrendi devoti turbati dal loro stesso accecamento conservatore; quegli stessi bardi di morale e di decenza abbiano la compiacenza di ripassare un’altra volta con le loro ipocrisie sulla vita lussuriosa del capo e sulla censurabilità dei suoi criteri di condotta. Non si può passare la vita ad abbassare la soglia della norma etica, e poi issare un muro di filisteismo moralistico contro il nemico politico. La lezione è rinviata a tempi migliori. Grazie.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
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Brutto esempio per la Democrazia ( ma non avevano strombazzato che "il padrone era Silvio" ? )
venerdì 21 gennaio 2011, 08:53
E IN VIA OLGETTINA ARRIVA LO SFRATTO A TUTTE LE RAGAZZE
di Stefano Zurlo
Le perquisizioni. Le telecamere puntate. Pettegolezzi e perfidie su scala nazionale. È la gogna. E allora l’immobiliare Friza colpisce come birilli le ragazze di via Olgettina: le sfratta come pacchi pregandole più o meno gentilmente di sloggiare entro e non oltre otto giorni. Barbara Guerra, Marysthell, Nicole Minetti e le altre inquiline si sono trasformate nel giro di una settimana in appestate. Da cacciare senza tanti complimenti. Per addolcire la pillola, il padrone di casa ha inviato per ora un telegramma. Anzi, cinque telegrammi in cui si scrive che «è impossibile continuare il rapporto di locazione». Il motivo? È spiegato con una fucilata, anzi con una doppia fucilata. Punto primo: «Grave danno per l’immobiliare». Punto secondo: «Grave turbamento della tranquillità degli altri ospiti».
Tecnicamente, è una diffida. Lo sfratto dovrebbe arrivare subito dopo. La strada è segnata e la strategia è chiara: se la Minetti e le altre sgombrano, la partita è chiusa. Altrimenti, per dare loro scacco matto si ricorrerà al giudice. E si cercherà di dimostrare che quel che è successo ha sconvolto la quiete del palazzo, a due passi da Milano 2 e dal San Raffaele, e dunque le ragazze devono farsene una ragione. E preparare le valigie.
Barbara Guerra, showgirl già alla Fattoria, si rigira fra le mani il telegramma e contrattacca: «Figurarsi se me ne vado. Non ne posso più. Mi sembra di stare dentro un film. È stata una settimana terribile, l’altro giorno alcuni trans hanno pure cercato di picchiarmi. Ma darò battaglia. Io l’affitto lo pagavo e lo pago regolarmente. Con i miei soldi e non con quelli di Silvio. Fra l’altro 800 euro al mese per il mio appartamentino e non 1.300 come ho letto sui giornali. Ma non importa. Non mi arrendo». E Marysthell, la bellezza di Colorado café, quasi fa a pugni con l’inviata di Annozero.
Dunque, si andrà in tribunale. L’epurazione va avanti. La gogna pare inarrestabile. Sul palazzo è stato appiccicato un marchio indelebile: il «regno delle protette». I cronisti hanno preso d’assalto, come in una partita di rugby, il cancello di via Olgettina. E a quel punto al quartier generale della Friza hanno pensato bene di salvare in qualche modo la propria immagine. Tanto quella delle ragazze si era già bruciata in un altissimo falò. In effetti a scorrere gli articoli che a tonnellate sono stati pubblicati in questi giorni frenetici l’opinione pubblica dev’essersi fatta un’idea molto chiara. Anzi due: bionde e brune erano mantenute da Silvio, quello di via Olgettina è un condominio a luci rosse.
Vero? Falso? Si scopre che molte inquiline pagavano e di tasca loro. Insomma, il loro peccato originale è l’essere andate ad Arcore. Alla corte del Cavaliere. Basta. Basta e avanza. I loro nomi circolano nei verbali, le loro immagini si sovrappongono in un caleidoscopio impazzito a quelle del bunga bunga, di Ruby, di tutti gli altri protagonisti di questa storia. Escort, attrici, showgirl, vittime e non, indagate o testimoni. Finite in mezzo a storie vere, verosimili o false, non importa. La sentenza è già scritta e ha la forma di un foglio di via. Non si va per le spicce di questi tempi. A via Olgettina fanno terra bruciata.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
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Un buon "esempio" di "democrazia malata a senso unico".
venerdì 21 gennaio 2011, 09:31
L'ultima provocazione di Santoro In diretta il cellulare di Berlusconi
Non c’è limite allo sputtanamento e alla violazione della privacy. Dopo le intercettazioni e i particolari della vita privata e sessuale, arrivano anche i numeri di telefono. Prima quelli di Fede, Mora e Minetti diffusi dal network di Indymedia, ora anche quello del presidente del Consiglio, in diretta tv ad Annozero. Ieri sera è andata in onda l’ennesima puntata della trasmissione-processo di Santoro, titolo: “Il fidanzato d’Italia”. Il Cav, ancora una volta, nel mirino. Un toccasana per lo share del programma di Raidue. Due ore abbondanti di trasmissione per frugare tra le lenzuola di Arcore.
Sandro Ruotolo, inviato di Annozero, intervista Nadia Macrì, escort di Reggio Emilia balzata agli onori della cronaca per aver millantato una conoscenza intima con il premier. La Macrì racconta nei minimi dettagli le sue presunte notti ad Arcore (racconti in parte smentiti da madre, ex marito e fidanzato) e poi apre la rubrica del telefono per esibire il numero del Cav. Presidente Silvio Berlusconi e una sfilza di numeri che il giornalista si affretta a coprire parzialmente con un dito. Parzialmente, appunto. Ruotolo copre le ultime tre cifre dell’utenza telefonica del premier. Un accorgimento che, normalmente, è sufficiente a impedirne la rintracciabilità. Normalmente, appunto. Ma nelle 389 pagine di verbale consegnate alla Giunta per le autorizzazione della Camera dalla Procura di Milano, e misteriosamente finite alla mercè del web, è riportata la rubrica della escort brasiliana Michelle. Tra i suoi numeri c’è anche quello del presidente del Consiglio. Anche in questo caso alcune delle cifre sono coperte da omissis, ma solo le prime quattro. Si leggono distintamente gli ultimi tre numeri, proprio quelli che Ruotolo ha coperto con la mano.
Il gioco è fatto: mettendo insieme i numeri di Michelle a quelli mostrati da Annozero si ottiene il recapito telefonico del Cavaliere. Pochi minuti dopo la fine della trasmissione il tam tam impazza su internet. Alcuni siti pubblicano subito a caratteri cubitali il numero del premier e la notizia inizia a viaggiare anche su Facebook. Grazie ad Annozero. Anche questa è libertà di informazione?
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
La "voglia matta, esce e si conferma".
venerdì 21 gennaio 2011, 08:00
Lo spillo - A sinistra voglia di ghigliottina
C’è fermento nell’opposizione. Il problema è che - a forza di fermentare - si comincia ad avvertire l’inconfondibile odore di idee andate a male. Puzza di giustizialismo sommario la boutade di Rosy Bindi a «Ballarò»: «Facciamo un patto: Berlusconi se ne va dall’Italia e tra 15 anni, caso mai, gli chiederemo scusa». Di meglio ha saputo fare il dipietrista Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega: «L’opposizione esca dal Parlamento - spiega al Corriere - e si riunisca in una “Pallacorda” come il Terzo Stato nel 1789 per rifondare la democrazia». Tradotto: torniamo alla rivoluzione francese e alle teste rotolanti. D’altronde, «al berlusconismo manca la violenza squadrista per diventare come il fascismo». Bei tempi, quelli, quando ci si poteva arrangiare con una fucilazione a piazzale Loreto...
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Non servono commenti da parte mia.
21-01-2011
La procura dà i numeri
E va bene, siamo un Paese incivile, facciamo i processi in piazza e ce ne freghiamo delle leggi. Nessuno che abbia sale in zucca crede più nella giustizia, ma ciascuno può cogliere le opportunità che sorgono dal suo disfacimento. Ad esempio: telefonare ai protagonisti di un’inchiesta, alla gente intercettata, e chiedere chiarimenti e particolari. Magari si può chiamare solo per insultare, o, più caritatevolmente, per manifestare solidarietà. I numeri di telefono? Non c’è problema, li fornisce la magistratura, come tutto il resto del materiale nel quale rotolarsi con guardonesca lussuria.
I numeri possono essere utili anche nel caso si sia depressi e solinghi, senza neanche avere il privilegio di conoscere direttamente Lele Mora e la sua prestigiosa agenzia. Sebbene, occorre riconoscerlo, in questo modo la procura fa concorrenza sleale a quotidiani come il Corriere della Sera, che monetizzano la diffusione di numeri personali e di agenzie intente a intessere “relazioni sociali”, senza beninteso, che ciò abbia nulla a che vedere con il mercato della prostituzione. Magistrati disintermediatori, una chicca.
Siccome tale modo d’amministrare la giustizia mi fa ribrezzo, neanche leggo i testi delle intercettazioni. Rifiuto d’allinearmi alla barbarie. Ma mi hanno inviato i documenti, scaricati dalla rete e non sottratti nottetempo in procura, facendomi osservare che accanto ai nomi della fauna parlante c’è, puntualmente, il numero di telefono. Non volevo crederci e ho controllato: è vero. Gente non indagata (e se anche lo fosse, non cambierebbe nulla) di cui è gettata sulla piazza non solo la vita, ma anche l’indirizzo e il numero di telefono. Il tutto allo scopo, ufficiale e mendace, di documentare la necessità di effettuare una perquisizione, laddove, all’evidenza, la richiesta è totalmente inutile, perché dopo questo pandemonio, ammesso che ci fosse qualche cosa da perquisire e acquisire, a questo punto non c’è più. Quindi, inutile essere ipocriti, falsi e bugiardi, lo scopo era uno solo: imbandire, subito, il processo in piazza.
A questo punto, allora, posto che la maggioranza politica non ha la lucidità e la forza di riformare la giustizia, la minoranza di sinistra è schiava del peggiore giustizialismo, e quelli che amano il diritto e le garanzie parlano, da anni, con il muro, non resta che prendere atto della realtà e cercare di razionalizzarla: scriviamo il codice del processo incivile, descriviamo il rito dell’udienza in cortile. L’avviso di garanzia è sostituito con la notifica di sputtanamento (absit iniuria verbis). L’indagato viene inizialmente sbudellato in pubblico, a cura di un pubblico ministero nei confronti del quale non si può usare il medesimo sistema, perché, in quel caso, s’incorre nel reato di “macchina del fango”. Sicché il pm può accusarti di furto essendo ladro, di turbe psichiche essendo pazzo, di perversioni sessuali praticando il genere anche in toga e ai giardinetti (roba vera, non crediate che stia inventando). Il pubblico accorso è tenuto ad un “ooooooh” di stupore e ad una smorfia d’indignazione. Le mamme copriranno gli occhi dei pargoli.
Il modo in cui sono condotte le indagini, senza lesinare in intercettazioni e buchi delle serrature, offre la possibilità di ricorrere a competenze e professionalità esterne. Uno come Fabrizio Corona, ad esempio, lo vedo messo bene. Non solo porta anche le foto, ma, all’occorrenza, e seppure con rammarico, è pronto a pagare per gli errori commessi. Laddove, com’è noto, le toghe sono, a ciò, corporativamente riluttanti.
A quel punto la parola passa alla difesa, che non sosterrà l’innocenza dell’indagato, tanto è inutile, perché nessuno crede minimamente nella sentenza, quindi si concentrerà nel prenderne le parti innanzi all’unico giudizio che conta, quello dell’audience: che cacchio volete? perché, voi non fate lo stesso? L’efficacia dell’arringa si misurerà con l’imbarazzo dei convenuti. Se in molti faranno finta di rispondere al telefono e si allontaneranno dalla piazza giudiziaria, è segno che l’avvocato ha fatto centro. Se il cliente coltiva vizi minoritari, ci dispiace: è fottuto.
I giornali, naturalmente, daranno ampio spazio all’unica cosa capace di divertire: le accuse. Dopo di che, come si diceva all’inizio, grazie alla portentosa innovazione della procura di Milano, ciascuno potrà telefonare ai coinvolti, anche non indagati, in modo da farsi un’idea più precisa. Anzi, suggerisco che l’intera faccenda sia sponsorizzata dai gestori di telefonia mobile, i quali vedranno crescere il fatturato.
Qui, attenti, arriva l’innovazione: basta con l’andazzo turpe fin qui in voga, non è giusto che dopo il clamore delle accuse e il colore delle prime difese si passi tutto al dimenticatoio. No, se in piazza è cominciata, in piazza deve finire. La “P3”, ad esempio, che fine ha fatto? E Ottaviano Del Turco? E’ doveroso interessarsi alla sorte di ciascuna storia, accompagnandone i protagonisti nella vecchiaia. Non è giusto essere accusati in piazza e poi assolti in un angolino buio, sottovoce, con il diritto di comunicarlo solo agli intimi. Insomma, siamo seri, se si trova lo spazio per ospitare in televisione un Francesco Nuti che piange a dirotto e sbava è bene che, in nome della civiltà e della trasparenza, tornino sullo schermo le vite massacrate dalla malagiustizia, come anche gli assassini che se la godono ai tropici, pronti a farci la morale.
Quel che sostengo, insomma, è che data per assodata la degradazione incivile del diritto trasformato in rovescio, almeno si sia coerenti e si trasmetta lo spettacolo fino in fondo. Così a qualcuno verrà in mente che, forse, non sarebbe così male un sistema nel quale chi accusa è responsabile di quel che fa e di quel che spende, e chi è accusato, se colpevole di reati reali e gravi, si accomodi a scontare la pena.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Anche la Cassazione ci ha abituato a leggere "i numeri che fa e che dà".
Nemmeno io so se è innocente, ma di una cosa sono sicuro dal momento che è ufficiale : il Procuratore generale della Cassazione ha richiesto al Collegio giudicante, di togliere l'aggravante perchè NON dimostrata la partecipazione, il che avrebbe portato all'abbassamento della condanna in termini forti, praticamente nulla, il che ancora avrebbe permesso di non andare in carcere e di NON farlo decadere da Senatore, col rischio che qualcuno subentrante fosse per l'opposizione ( che per fortuna non è, dal momento che anche la subentrante si era schierata come Cuffaro, fuori dall'UDC.
Ora, delle due, l'una : i il Procuratore Generale della Cassazione è un incompetente e allora non si sa cosa stia a fare in quel ruolo, ovvero il Collegio giudicante ha VOLUTO mantenere quel tipo di condanna, per l'obbiettivo di cui sopra.
Tertum non datur.
E comunque, c’è un filo rosso che lega l’ex governatore di Sicilia Totò Cuffaro e l’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Un filo rosso che è anche un record: sono gli unici due casi in Italia in cui i giudici, in Cassazione, hanno rigettato la richiesta del pg dell’accusa optando per una condanna più severa. Di norma, infatti, la richiesta del pg viene accolta. Tranne che in questi due casi: quelli che, se ridimensionati, metterebbero seriamente in crisi il «modus operandi» di certe procure.
Ora, delle due, l'una : i il Procuratore Generale della Cassazione è un incompetente e allora non si sa cosa stia a fare in quel ruolo, ovvero il Collegio giudicante ha VOLUTO mantenere quel tipo di condanna, per l'obbiettivo di cui sopra.
Tertum non datur.
E comunque, c’è un filo rosso che lega l’ex governatore di Sicilia Totò Cuffaro e l’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Un filo rosso che è anche un record: sono gli unici due casi in Italia in cui i giudici, in Cassazione, hanno rigettato la richiesta del pg dell’accusa optando per una condanna più severa. Di norma, infatti, la richiesta del pg viene accolta. Tranne che in questi due casi: quelli che, se ridimensionati, metterebbero seriamente in crisi il «modus operandi» di certe procure.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Dal tentativo di golpe giudiziario, al supporto dei falsi moralisti.
23-01-2011
Cuffaro e le sentenze
La sentenza della cassazione chiude un processo a Salvatore Cuffaro (che ha un altro procedimento in corso), ma apre un problema politico e istituzionale gigantesco. Siamo arrivati ad un tale livello di follia collettiva, si sono così intricati i rapporti fra politica e giustizia, che si può assistere allo spettacolo del partito in cui Cuffaro milita, un partito d’opposizione, l’Unione di Centro, assieme al quale si schiera la maggioranza di centro destra, che solidarizzano con il condannato, pur affermando di rispettare la sentenza. Come se il rispetto delle sentenze possa consistere nell’eseguirne il dispositivo e considerarne falso il contenuto. Già, perché se si giudica, come la sentenza fa, Cuffaro un politico che, approfittando della sua posizione, ha favorito la mafia, allora quel giudizio ricade sul suo partito e sui suoi amici, che, oltre tutto, si trovano in Parlamento grazie al determinate contributo dei voti cuffariani. Insomma, la via dell’“umano dispiacere”, scelta da Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, non sta in piedi. La solidarietà espressa da Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliarello non può essere letta se non come un contrasto totale con il merito e il dispositivo della sentenza. Da ieri definitiva.
E’ molto, ma non basta. Perché la via della condanna è stata scelta dalla Corte di cassazione, confermando la sentenza di secondo grado, dopo che il procuratore generale, ovvero colui il quale rappresenta le ragioni della sentenza di merito e, quindi, la pretesa punitiva dello Stato, aveva sostenuto, argomentando nel dettaglio, che l’aggravante mafiosa non era affatto provata. Insomma: è vero che Cuffaro passò delle notizie a Michele Aiello, e vero che aderì ad alcune sue raccomandazioni, ma lo fece pensando di rendere piaceri ad un uomo potente, non di favorire gli interessi della mafia. Che Cuffaro fosse consapevole di questo, secondo il procuratore generale, non era stato accertato dal processo e, quindi, aveva invitato la Corte a rinviare la posizione dell’ex governatore siciliano, ora anche ex senatore. Ma i giudici, appunto, sono stati di diverso avviso. E qui si apre una questione: è il procuratore generale, Giovanni Galati, ad aver preso lucciole per lanterne, o le due sentenze di merito ad avere indotto la cassazione a non indebolire l’impianto accusatorio? La vedo così: se l’accusatore riconosce alcune ragioni, importanti, dell’accusato è segno che si tratta di un procuratore onesto e coraggioso, ma se la sentenza gli dà torto, affermando che la pena da scontare è superiore a quella da lui richiesta, allora è un incapace. Qualcuno ha sbagliato, ed è bene che si sappia.
Il nostro discorso civile si è così corrotto, ci si è così abituati a vedere politici che cercano di evitare il processo e assassini che fanno marameo da lontano, che sembra accettabile esprimere un rispetto formale e un dissenso sostanziale. Invece no, non si può. Io posso ben dire che una sentenza è sbagliata, posso giudicarla malissimo, possono dire che i giudici non ci hanno capito niente, senza per questo far venire meno il rispetto per la giustizia. Qui, invece, si è ribaltato tutto: quelli che invocano sempre le toghe ti danno del delinquente anche dopo che ti hanno assolto e quelli che sono amici dei condannati si dicono solidali, ma rispettosi. Non ha senso. Gli uni e gli altri testimoniano la morte della giustizia.
Gli amici politici di Cuffaro non hanno scelta: o lo rinnegano, oppure affermano, a chiare lettere, che le sentenze (primo e secondo grado più cassazione) sono sbagliate. Chinano il capo davanti alla pena da scontarsi, come saggiamente ha fatto il diretto interessato (con anche un toccante riferimento alla propria cultura e ai figli), ma tengono la testa alta al cospetto di un giudizio che condanna anche loro, contrastandolo. La via scelta, invece, è un codardo sgattaiolare. Che è inguardabile dal punto di vista della stoffa personale, ma anche cieco da quello politico.
Difatti, il successore di Cuffaro alla Presidenza della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, è attualmente in carica grazie all’appoggio del Partito Democratico, che alle elezioni lo aveva avversato. Lasciamo perdere i trasformismi. Lombardo provvide, fin dall’inizio, a mettere in giunta magistrati della procura di Palermo (anche colui il quale sostenne l’accusa contro il carabiniere Carmelo Canale, avendo tre volte torto), ma non per questo è riuscito a controllare il fronte giudiziario, tanto che si ritrova indagato per mafia. Posto che Lombardo è innocente, posto che il Pd applica a intermittenza il principio delle dimissioni cautelari, che succede se, per malaugurata ipotesi, fosse condannato? Gli manifestano solidarietà umana, rispettando quelli che ne hanno accertato la mafiosità?
Ci arriva un cretino a capire che è assurdo, ma non ci arriva una classe politica che se le fa sotto e non è degna d’essere considerata classe dirigente.
Cuffaro e le sentenze
La sentenza della cassazione chiude un processo a Salvatore Cuffaro (che ha un altro procedimento in corso), ma apre un problema politico e istituzionale gigantesco. Siamo arrivati ad un tale livello di follia collettiva, si sono così intricati i rapporti fra politica e giustizia, che si può assistere allo spettacolo del partito in cui Cuffaro milita, un partito d’opposizione, l’Unione di Centro, assieme al quale si schiera la maggioranza di centro destra, che solidarizzano con il condannato, pur affermando di rispettare la sentenza. Come se il rispetto delle sentenze possa consistere nell’eseguirne il dispositivo e considerarne falso il contenuto. Già, perché se si giudica, come la sentenza fa, Cuffaro un politico che, approfittando della sua posizione, ha favorito la mafia, allora quel giudizio ricade sul suo partito e sui suoi amici, che, oltre tutto, si trovano in Parlamento grazie al determinate contributo dei voti cuffariani. Insomma, la via dell’“umano dispiacere”, scelta da Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, non sta in piedi. La solidarietà espressa da Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliarello non può essere letta se non come un contrasto totale con il merito e il dispositivo della sentenza. Da ieri definitiva.
E’ molto, ma non basta. Perché la via della condanna è stata scelta dalla Corte di cassazione, confermando la sentenza di secondo grado, dopo che il procuratore generale, ovvero colui il quale rappresenta le ragioni della sentenza di merito e, quindi, la pretesa punitiva dello Stato, aveva sostenuto, argomentando nel dettaglio, che l’aggravante mafiosa non era affatto provata. Insomma: è vero che Cuffaro passò delle notizie a Michele Aiello, e vero che aderì ad alcune sue raccomandazioni, ma lo fece pensando di rendere piaceri ad un uomo potente, non di favorire gli interessi della mafia. Che Cuffaro fosse consapevole di questo, secondo il procuratore generale, non era stato accertato dal processo e, quindi, aveva invitato la Corte a rinviare la posizione dell’ex governatore siciliano, ora anche ex senatore. Ma i giudici, appunto, sono stati di diverso avviso. E qui si apre una questione: è il procuratore generale, Giovanni Galati, ad aver preso lucciole per lanterne, o le due sentenze di merito ad avere indotto la cassazione a non indebolire l’impianto accusatorio? La vedo così: se l’accusatore riconosce alcune ragioni, importanti, dell’accusato è segno che si tratta di un procuratore onesto e coraggioso, ma se la sentenza gli dà torto, affermando che la pena da scontare è superiore a quella da lui richiesta, allora è un incapace. Qualcuno ha sbagliato, ed è bene che si sappia.
Il nostro discorso civile si è così corrotto, ci si è così abituati a vedere politici che cercano di evitare il processo e assassini che fanno marameo da lontano, che sembra accettabile esprimere un rispetto formale e un dissenso sostanziale. Invece no, non si può. Io posso ben dire che una sentenza è sbagliata, posso giudicarla malissimo, possono dire che i giudici non ci hanno capito niente, senza per questo far venire meno il rispetto per la giustizia. Qui, invece, si è ribaltato tutto: quelli che invocano sempre le toghe ti danno del delinquente anche dopo che ti hanno assolto e quelli che sono amici dei condannati si dicono solidali, ma rispettosi. Non ha senso. Gli uni e gli altri testimoniano la morte della giustizia.
Gli amici politici di Cuffaro non hanno scelta: o lo rinnegano, oppure affermano, a chiare lettere, che le sentenze (primo e secondo grado più cassazione) sono sbagliate. Chinano il capo davanti alla pena da scontarsi, come saggiamente ha fatto il diretto interessato (con anche un toccante riferimento alla propria cultura e ai figli), ma tengono la testa alta al cospetto di un giudizio che condanna anche loro, contrastandolo. La via scelta, invece, è un codardo sgattaiolare. Che è inguardabile dal punto di vista della stoffa personale, ma anche cieco da quello politico.
Difatti, il successore di Cuffaro alla Presidenza della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, è attualmente in carica grazie all’appoggio del Partito Democratico, che alle elezioni lo aveva avversato. Lasciamo perdere i trasformismi. Lombardo provvide, fin dall’inizio, a mettere in giunta magistrati della procura di Palermo (anche colui il quale sostenne l’accusa contro il carabiniere Carmelo Canale, avendo tre volte torto), ma non per questo è riuscito a controllare il fronte giudiziario, tanto che si ritrova indagato per mafia. Posto che Lombardo è innocente, posto che il Pd applica a intermittenza il principio delle dimissioni cautelari, che succede se, per malaugurata ipotesi, fosse condannato? Gli manifestano solidarietà umana, rispettando quelli che ne hanno accertato la mafiosità?
Ci arriva un cretino a capire che è assurdo, ma non ci arriva una classe politica che se le fa sotto e non è degna d’essere considerata classe dirigente.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Qualcuno pensa davvero, che il "sistema" sia cambiato da allora ?
http://www.ilgiornale.it/interni/cosi_furono_nascoste_prove_nellinchiesta_pool_milano/24-01-2011/articolo-id=501390-page=0-comments=1
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Ripeto una domanda che ho già fatto : se l'obbligatorietà esiste dalla conoscenza del reato, perchè "cercare il reato per un anno" su Berlusconi ( e non lo si è ancora provato ) e da anni fare finta di non sapere ciò che questo ulteriore momento di REALTA' dimostra ?[/color]
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/lettore1.pdf
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Ripeto una domanda che ho già fatto : se l'obbligatorietà esiste dalla conoscenza del reato, perchè "cercare il reato per un anno" su Berlusconi ( e non lo si è ancora provato ) e da anni fare finta di non sapere ciò che questo ulteriore momento di REALTA' dimostra ?[/color]
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/lettore1.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Dal tentativo di golpe giudiziario, al supporto dei falsi moralisti.
La vera storia delle toghe rosse (dal libro di Misiani Toga rossa, storia di un giudice)
la vera storia delle toghe rosse
pubblicata da Alexandros Gardossi il giorno lunedì 24 gennaio 2011 alle ore 17.48
Le toghe ’rosse’
Il problema della magistratura politicizzata è ormai il problema più serio della giustizia in Italia. I sindacati che li raggruppano, Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia raggiungono ormai il 40% della rappresentatività della magistratura.
Ma vediamo cosa ne dice un loro storico rappresentante, protagonista di ’tangentopoli, e a sua volta vittima in occasione delle vicende legate al caso Squillante.
Nel 2001 Francesco Misani ha scritto insieme a Carlo Bonini il libro ’[52] La toga rossa . Storia di un giudice’. Il giudice di cui si parla è lo stesso Misani che, nel libro, si vanta apertamente di essere stato un giudice ideologicamente motivato e di aver partecipato all’abbattimento del “sistema”, ma allo stesso tempo illustra con decine di episodi e con una ricostruzione attendibile come la magistratura italiana in questi anni sia largamente uscita dai binari costituzionali per diventare una cosa del tutto diversa dall’“ordine indipendente ma non sovrano”.
All’indomani dell’emergenza terrorismo che aveva catapultato sul palcoscenico della cronaca e dell’attualità politica i giudici, scrive Bonini che «Autonomia ed indipendenza, agli occhi dell’opinione pubblica, si trasformano in altrettanti attributi che non individuano tanto le garanzie di uno dei poteri dello Stato rispetto agli altri, quanto la sua inevitabile prevalenza (corsivo nostro - nda). É un processo evolutivo che si andrà sviluppando negli anni Ottanta, con la lotta alla mafia, e coronerà negli anni Novanta con il pool e la stagione di Tangentopoli».
L’egemonia odierna del giudiziario, cui il solo Berlusconi oggi oppone resistenza, è insomma un prodotto storico della fragilità delle istituzioni democratiche italiane, che di fronte alle grandi emergenze del Dopoguerra hanno mostrato la corda e innescato la supplenza della principale istituzione non democratica del sistema.
Il PCI, spiega Misiani, ha favorito per ragioni di bottega questa evoluzione: «Il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo andava crescendo, grazie anche all’appoggio della sinistra e del PCI in primo luogo, che su noi magistrati, o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione». Ma il PCI si è ritrovato di fatto come l’apprendista stregone: non lui, ma i magistrati “protetti”, hanno beneficiato della rivoluzione.
Spiega Misiani che dentro a Md «Tangentopoli mise d’accordo tutti, anche chi come me faticava a risolvere la cosiddetta contraddizione del garantista. Di fatto, Md colse in Mani Pulite l’occasione che si offriva all’intera magistratura di legittimarsi due volte. Innanzitutto, di fronte ad un’opinione pubblica che nel corso degli anni Ottanta aveva lanciato più di un segnale di sfiducia. . . Inoltre, di legittimarsi come nuovo e unico potere superstite del terremoto cominciato nel ’92».
Più chiaro di così. . .
La fenomenologia della “toga rossa” è imperniata su tre elementi:
1. un pregiudizio relativo alle leggi dello Stato, considerate non l’espressione della volontà popolare attraverso i suoi rappresentanti politici (Parlamento e Governo), ma uno strumento dell’egemonia borghese nella società, e quindi funzionali agli interessi della borghesia;
2. la contestazione pubblica del sistema, delle sue leggi e delle stesse procedure giudiziarie;
3. l’uso della funzione giudiziaria per promuovere gli interessi di classe delle classi subalterne (ovvero della sinistra politica) piegando le leggi vigenti e manipolando fin dove possibile le procedure giudiziarie.
Questi tre elementi si manifestano in maniera molto vistosa negli anni ruggenti di Magistratura democratica (Md), che sono quelli fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta. Nella mozione del congresso di Roma di Md del dicembre 1971 leggiamo: «Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe. . . obiettivo politico di Md è la realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare la giustizia delle sue caratteristiche di strumento di tutela degli interessi delle classi dominanti per renderla funzionale alle esigenze di uguaglianza, partecipazione ed emancipazione, sociale ed economica, delle classi lavoratrici».
In questa visione si ritrovavano sia la componente filo-PCI, maggioritaria in Md, con esponenti del calibro di Giancarlo Caselli, Edmondo Bruti Liberati, Elena Paciotti, ecc., sia l’ala “gruppettara” (simpatizzanti della sinistra extraparlamentare) cui appartenevano personaggi come Francesco Misiani, Francesco Greco (poi esponente di punta del pool di Milano), ecc.
La contestazione pubblica del sistema da parte delle “toghe rosse” era l’elemento che più le differenziava dagli altri magistrati (che si limitavano ad applicare le leggi) ed avveniva in molti modi.
I gruppettari prediligevano la partecipazione a convegni, riunioni e trasmissioni radiofoniche di Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Radio Onda Rossa, ecc. nelle corso dei quali pronunciavano dichiarazioni incendiarie a favore dell’“abbattimento dello Stato borghese”, presidi delle aule dove si svolgevano processi con giudici a loro sgraditi, esposti e richieste di misure disciplinari contro colleghi e superiori (iniziative che si ritorcevano contro chi le aveva promosse).
Ma la maggioranza di Md, organica al PCI, pur operando con diverso stile, non è mai stata da meno, sia negli anni Settanta che Ottanta.
Nel 1970 Md come tale promosse la raccolta di firme (poi fallita) per un referendum popolare per l’abolizione dei reati di opinione e sindacali, ed era l’epoca dei picchettaggi violenti nelle fabbriche e della violenza verbale (ma non solo) dell’ultrasinistra. PCI, Psiup e PSI aderirono all’iniziativa.
Nel 1984 Md si battè in prima fila contro il decreto legge che stabiliva il blocco parziale del pagamento della “contingenza” nelle buste paga dei dipendenti, definendolo «una grave violazione della legalità costituzionale» e contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso decisa dal parlamento, in risposta ai missili sovietici, bollata come «oggettivamente eversiva dell’ordinamento costituzionale».
Sulle pagine di ’Democrazia e diritto’ e di ’Nuovasocietà’ Giancarlo Caselli ha continuato per anni a testimoniare che per Md i magistrati non dovevano certamente limitarsi ad applicare le leggi, ma dovevano partecipare alla trasformazione politica del paese. «La magistratura - così rifletteva il 6 luglio 1979 - viene vista come compattamente schierata accanto ai “potenti”, secondo una concezione certamente giustificata da vicende di ieri e di oggi, ma che non tiene nel giusto conto... il delinearsi, all’interno della “corporazione”, di nuove tendenze sul ruolo dei giudici nella società attuale. Mentre è necessario che queste nuove tendenze siano da tutti ben conosciute se si vuole realizzare intorno ad esse un “sostegno di massa” che le sviluppi ulteriormente.
Altrimenti potrebbero essere ricacciate indietro: con evidente svantaggio per quelle forze politiche e sociali che anche dal mutato atteggiamento di una parte almeno della magistratura possono ricevere un contributo per la trasformazione in senso democratico del nostro paese».
Come si nota, Caselli auspicava il cortocircuito opinione pubblica-magistrati politicizzati già tredici anni prima di Tangentopoli.
Queste posizioni hanno anche influenzato indagini e sentenze passate per le mani delle “toghe rosse”, e questo evidentemente è il capitolo più inquietante.
Scrive Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori». «Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione, fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto». Ma non sono stati soltanto i “poveracci” a beneficiare della parzialità di giudizio delle “toghe rosse”.
Il caso più vistoso di potenti beneficiari della sensibilità politica dei magistrati è certamente quello dello scandalo del Sisde del 1993. Di fronte al diluvio di rivelazioni dannose per i vertici istituzionali del paese da parte del prefetto Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, e dei suoi uomini arrestati con accuse di peculato riguardo l’uso di fondi a loro disposizione, gli allora procuratori di Roma Vittorio Mele e Michele Coiro (Md) agirono non per far venire a galla tutta la verità, ma per insabbiarla.
Come si ricorderà, Malpica e gli altri giunsero ad accusare Oscar Scalfaro e Nicola Mancino di averli spinti a mentire riguardo ai fondi extracontabilità del Sisde affinché non emergesse che anche loro ne avevano ricevuti.
Quel che successe dentro alla Procura di Roma Misiani lo descrive così: «Frisani, e con lui Torri (i due PM dell’inchiesta - ndr), era convinto che si dovesse procedere senza esitazioni nei confronti di chiunque. E i sostituti più giovani apprezzavano questo atteggiamento come un esempio di esercizio imparziale dell’azione penale, sganciato da ogni valutazione di opportunità.
Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro Saviotti. . .
La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito. E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere».
Prevalse la seconda posizione, e venne deciso di arrestare il flusso delle rivelazioni degli inquisiti sollevando un nuovo capo di imputazione contro di loro: “attentato agli organi costituzionali” art. 289 del Codice penale.
La trovata funzionò, e il caso Sisde prese a sgonfiarsi.
Commenta Misiani: «Con quella scelta sul 289 è indubbio che una parte di Magistratura democratica e Michele (Coiro - ndr) in primis ottennero una legittimazione politica forte da parte delle istituzioni. Avevano dimostrato - e non per opportunismo - che nel momento del bisogno la magistratura di sinistra sapeva, perché convinta, fare quadrato».
Le caratteristiche di Md che abbiamo sin qui illustrato le ritroviamo tutte nel pool di Milano negli anni di Tangentopoli e dopo: la polemica ed i giudizi distruttivi contro gli altri poteri ma anche contro altri magistrati, la manipolazione delle procedure di legge per perseguire obiettivi particolarmente “sentiti”.
Si pensi al “pronunciamento” televisivo dei magistrati del Pool nel luglio 1994 contro il decreto Biondi, all’appello contro la riforma della custodia cautelare firmato da un centinaio di PM, alla demonizzazione della classe politica tutta intera da parte di Gherardo Colombo nella sua famosa intervista al Corriere della Sera nel 1998, e alla solidarietà espressa a lui da 60 magistrati di Milano contro l’iniziativa disciplinare che era stata aperta nei suoi riguardi.
Colombo aveva detto: «. . . negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può raccontare a partire da una parola: ricatto. . . Io dico che nel metabolismo politico-sociale del paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso».
Si pensi a Francesco Saverio Borrelli che dopo l’arresto del giudice Squillante arriva ad attaccare la Procura di Roma in toto dichiarando: «I magistrati romani subiscono una pressione atmosferica che talvolta può essere sentita inconsapevolmente e talvolta può portare a connivenze o complicità».
Che i magistrati del Pool abbiano fatto uno strappo alla regola più di una volta non lo diciamo noi, ma protagonisti come Italo Ghitti e Francesco Misiani.
Dichiarò il Gip storico di Mani Pulite, poco prima di abbandonare il suo incarico, a proposito delle continue violazioni del segreto istruttorio: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei PM e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool».
E a proposito del radicamento a Milano dell’inchiesta Enimont, le cose sarebbero andate così: «. . . ci fu una riunione presso il procuratore Mele... A parte il procuratore Volpari... tutti gli altri partecipanti ritenevano in cuor loro che dal punto di vista giuridico la questione di competenza andasse risolta a favore di Roma. Malgrado ciò, prevalse l’opinione caldeggiata da Mele, secondo la quale valeva la pena di liberarsi di un procedimento così fastidioso e scottante».
Ai dubbi di Misiani Gherardo Colombo avrebbe poi risposto: «Forse non hai capito, Ciccio, ma qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non fare le inchieste. A Milano, in questo momento storico irripetibile, si possono fare. Qui a Roma no».
In conclusione, attraverso tre decenni di emergenze (terrorismo, mafia, Tangentopoli) i magistrati italiani hanno assunto - nella concomitante crisi delle altre istituzioni - un profilo squisitamente politico, che all’inizio del periodo apparteneva soltanto alle “toghe rosse”.
Non soltanto formulano giudizi di merito sulle vicende politiche e su quelle del mondo della giustizia, ma agiscono sulla base di tali valutazioni nel contesto di iniziative o di omissioni di atti giudiziari. Inevitabilmente la loro discrezionalità solleva le proteste dei politici (anche di quelli di sinistra, ma solo quando sono al governo) e le perplessità dell’opinione pubblica.
Un soggetto che agisce politicamente senza risponderne a nessuno fa problema in termini di deficit democratico, perché esercita un potere che in democrazia deve avere il suggello delle urne, cosa che qui non avviene.
Il gran ricorso dei magistrati del Pool di Milano alla piazza mediatica, alle dichiarazioni ed agli appelli enfatizzati da giornali e tivù, testimonia che essi stessi hanno presente il problema: cercano il consenso dell’opinione pubblica proprio perché sanno di essere un potere politico e ambiscono alla legittimazione democratica. (da ’La vera storia delle toghe rosse’)
https://www.facebook.com/note.php?note_id=146518052073436&id=100000896446800
la vera storia delle toghe rosse
pubblicata da Alexandros Gardossi il giorno lunedì 24 gennaio 2011 alle ore 17.48
Le toghe ’rosse’
Il problema della magistratura politicizzata è ormai il problema più serio della giustizia in Italia. I sindacati che li raggruppano, Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia raggiungono ormai il 40% della rappresentatività della magistratura.
Ma vediamo cosa ne dice un loro storico rappresentante, protagonista di ’tangentopoli, e a sua volta vittima in occasione delle vicende legate al caso Squillante.
Nel 2001 Francesco Misani ha scritto insieme a Carlo Bonini il libro ’[52] La toga rossa . Storia di un giudice’. Il giudice di cui si parla è lo stesso Misani che, nel libro, si vanta apertamente di essere stato un giudice ideologicamente motivato e di aver partecipato all’abbattimento del “sistema”, ma allo stesso tempo illustra con decine di episodi e con una ricostruzione attendibile come la magistratura italiana in questi anni sia largamente uscita dai binari costituzionali per diventare una cosa del tutto diversa dall’“ordine indipendente ma non sovrano”.
All’indomani dell’emergenza terrorismo che aveva catapultato sul palcoscenico della cronaca e dell’attualità politica i giudici, scrive Bonini che «Autonomia ed indipendenza, agli occhi dell’opinione pubblica, si trasformano in altrettanti attributi che non individuano tanto le garanzie di uno dei poteri dello Stato rispetto agli altri, quanto la sua inevitabile prevalenza (corsivo nostro - nda). É un processo evolutivo che si andrà sviluppando negli anni Ottanta, con la lotta alla mafia, e coronerà negli anni Novanta con il pool e la stagione di Tangentopoli».
L’egemonia odierna del giudiziario, cui il solo Berlusconi oggi oppone resistenza, è insomma un prodotto storico della fragilità delle istituzioni democratiche italiane, che di fronte alle grandi emergenze del Dopoguerra hanno mostrato la corda e innescato la supplenza della principale istituzione non democratica del sistema.
Il PCI, spiega Misiani, ha favorito per ragioni di bottega questa evoluzione: «Il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo andava crescendo, grazie anche all’appoggio della sinistra e del PCI in primo luogo, che su noi magistrati, o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse e attenzione». Ma il PCI si è ritrovato di fatto come l’apprendista stregone: non lui, ma i magistrati “protetti”, hanno beneficiato della rivoluzione.
Spiega Misiani che dentro a Md «Tangentopoli mise d’accordo tutti, anche chi come me faticava a risolvere la cosiddetta contraddizione del garantista. Di fatto, Md colse in Mani Pulite l’occasione che si offriva all’intera magistratura di legittimarsi due volte. Innanzitutto, di fronte ad un’opinione pubblica che nel corso degli anni Ottanta aveva lanciato più di un segnale di sfiducia. . . Inoltre, di legittimarsi come nuovo e unico potere superstite del terremoto cominciato nel ’92».
Più chiaro di così. . .
La fenomenologia della “toga rossa” è imperniata su tre elementi:
1. un pregiudizio relativo alle leggi dello Stato, considerate non l’espressione della volontà popolare attraverso i suoi rappresentanti politici (Parlamento e Governo), ma uno strumento dell’egemonia borghese nella società, e quindi funzionali agli interessi della borghesia;
2. la contestazione pubblica del sistema, delle sue leggi e delle stesse procedure giudiziarie;
3. l’uso della funzione giudiziaria per promuovere gli interessi di classe delle classi subalterne (ovvero della sinistra politica) piegando le leggi vigenti e manipolando fin dove possibile le procedure giudiziarie.
Questi tre elementi si manifestano in maniera molto vistosa negli anni ruggenti di Magistratura democratica (Md), che sono quelli fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta. Nella mozione del congresso di Roma di Md del dicembre 1971 leggiamo: «Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe. . . obiettivo politico di Md è la realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare la giustizia delle sue caratteristiche di strumento di tutela degli interessi delle classi dominanti per renderla funzionale alle esigenze di uguaglianza, partecipazione ed emancipazione, sociale ed economica, delle classi lavoratrici».
In questa visione si ritrovavano sia la componente filo-PCI, maggioritaria in Md, con esponenti del calibro di Giancarlo Caselli, Edmondo Bruti Liberati, Elena Paciotti, ecc., sia l’ala “gruppettara” (simpatizzanti della sinistra extraparlamentare) cui appartenevano personaggi come Francesco Misiani, Francesco Greco (poi esponente di punta del pool di Milano), ecc.
La contestazione pubblica del sistema da parte delle “toghe rosse” era l’elemento che più le differenziava dagli altri magistrati (che si limitavano ad applicare le leggi) ed avveniva in molti modi.
I gruppettari prediligevano la partecipazione a convegni, riunioni e trasmissioni radiofoniche di Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Radio Onda Rossa, ecc. nelle corso dei quali pronunciavano dichiarazioni incendiarie a favore dell’“abbattimento dello Stato borghese”, presidi delle aule dove si svolgevano processi con giudici a loro sgraditi, esposti e richieste di misure disciplinari contro colleghi e superiori (iniziative che si ritorcevano contro chi le aveva promosse).
Ma la maggioranza di Md, organica al PCI, pur operando con diverso stile, non è mai stata da meno, sia negli anni Settanta che Ottanta.
Nel 1970 Md come tale promosse la raccolta di firme (poi fallita) per un referendum popolare per l’abolizione dei reati di opinione e sindacali, ed era l’epoca dei picchettaggi violenti nelle fabbriche e della violenza verbale (ma non solo) dell’ultrasinistra. PCI, Psiup e PSI aderirono all’iniziativa.
Nel 1984 Md si battè in prima fila contro il decreto legge che stabiliva il blocco parziale del pagamento della “contingenza” nelle buste paga dei dipendenti, definendolo «una grave violazione della legalità costituzionale» e contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso decisa dal parlamento, in risposta ai missili sovietici, bollata come «oggettivamente eversiva dell’ordinamento costituzionale».
Sulle pagine di ’Democrazia e diritto’ e di ’Nuovasocietà’ Giancarlo Caselli ha continuato per anni a testimoniare che per Md i magistrati non dovevano certamente limitarsi ad applicare le leggi, ma dovevano partecipare alla trasformazione politica del paese. «La magistratura - così rifletteva il 6 luglio 1979 - viene vista come compattamente schierata accanto ai “potenti”, secondo una concezione certamente giustificata da vicende di ieri e di oggi, ma che non tiene nel giusto conto... il delinearsi, all’interno della “corporazione”, di nuove tendenze sul ruolo dei giudici nella società attuale. Mentre è necessario che queste nuove tendenze siano da tutti ben conosciute se si vuole realizzare intorno ad esse un “sostegno di massa” che le sviluppi ulteriormente.
Altrimenti potrebbero essere ricacciate indietro: con evidente svantaggio per quelle forze politiche e sociali che anche dal mutato atteggiamento di una parte almeno della magistratura possono ricevere un contributo per la trasformazione in senso democratico del nostro paese».
Come si nota, Caselli auspicava il cortocircuito opinione pubblica-magistrati politicizzati già tredici anni prima di Tangentopoli.
Queste posizioni hanno anche influenzato indagini e sentenze passate per le mani delle “toghe rosse”, e questo evidentemente è il capitolo più inquietante.
Scrive Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori». «Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione, fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto». Ma non sono stati soltanto i “poveracci” a beneficiare della parzialità di giudizio delle “toghe rosse”.
Il caso più vistoso di potenti beneficiari della sensibilità politica dei magistrati è certamente quello dello scandalo del Sisde del 1993. Di fronte al diluvio di rivelazioni dannose per i vertici istituzionali del paese da parte del prefetto Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, e dei suoi uomini arrestati con accuse di peculato riguardo l’uso di fondi a loro disposizione, gli allora procuratori di Roma Vittorio Mele e Michele Coiro (Md) agirono non per far venire a galla tutta la verità, ma per insabbiarla.
Come si ricorderà, Malpica e gli altri giunsero ad accusare Oscar Scalfaro e Nicola Mancino di averli spinti a mentire riguardo ai fondi extracontabilità del Sisde affinché non emergesse che anche loro ne avevano ricevuti.
Quel che successe dentro alla Procura di Roma Misiani lo descrive così: «Frisani, e con lui Torri (i due PM dell’inchiesta - ndr), era convinto che si dovesse procedere senza esitazioni nei confronti di chiunque. E i sostituti più giovani apprezzavano questo atteggiamento come un esempio di esercizio imparziale dell’azione penale, sganciato da ogni valutazione di opportunità.
Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro Saviotti. . .
La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito. E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere».
Prevalse la seconda posizione, e venne deciso di arrestare il flusso delle rivelazioni degli inquisiti sollevando un nuovo capo di imputazione contro di loro: “attentato agli organi costituzionali” art. 289 del Codice penale.
La trovata funzionò, e il caso Sisde prese a sgonfiarsi.
Commenta Misiani: «Con quella scelta sul 289 è indubbio che una parte di Magistratura democratica e Michele (Coiro - ndr) in primis ottennero una legittimazione politica forte da parte delle istituzioni. Avevano dimostrato - e non per opportunismo - che nel momento del bisogno la magistratura di sinistra sapeva, perché convinta, fare quadrato».
Le caratteristiche di Md che abbiamo sin qui illustrato le ritroviamo tutte nel pool di Milano negli anni di Tangentopoli e dopo: la polemica ed i giudizi distruttivi contro gli altri poteri ma anche contro altri magistrati, la manipolazione delle procedure di legge per perseguire obiettivi particolarmente “sentiti”.
Si pensi al “pronunciamento” televisivo dei magistrati del Pool nel luglio 1994 contro il decreto Biondi, all’appello contro la riforma della custodia cautelare firmato da un centinaio di PM, alla demonizzazione della classe politica tutta intera da parte di Gherardo Colombo nella sua famosa intervista al Corriere della Sera nel 1998, e alla solidarietà espressa a lui da 60 magistrati di Milano contro l’iniziativa disciplinare che era stata aperta nei suoi riguardi.
Colombo aveva detto: «. . . negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può raccontare a partire da una parola: ricatto. . . Io dico che nel metabolismo politico-sociale del paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso».
Si pensi a Francesco Saverio Borrelli che dopo l’arresto del giudice Squillante arriva ad attaccare la Procura di Roma in toto dichiarando: «I magistrati romani subiscono una pressione atmosferica che talvolta può essere sentita inconsapevolmente e talvolta può portare a connivenze o complicità».
Che i magistrati del Pool abbiano fatto uno strappo alla regola più di una volta non lo diciamo noi, ma protagonisti come Italo Ghitti e Francesco Misiani.
Dichiarò il Gip storico di Mani Pulite, poco prima di abbandonare il suo incarico, a proposito delle continue violazioni del segreto istruttorio: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei PM e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool».
E a proposito del radicamento a Milano dell’inchiesta Enimont, le cose sarebbero andate così: «. . . ci fu una riunione presso il procuratore Mele... A parte il procuratore Volpari... tutti gli altri partecipanti ritenevano in cuor loro che dal punto di vista giuridico la questione di competenza andasse risolta a favore di Roma. Malgrado ciò, prevalse l’opinione caldeggiata da Mele, secondo la quale valeva la pena di liberarsi di un procedimento così fastidioso e scottante».
Ai dubbi di Misiani Gherardo Colombo avrebbe poi risposto: «Forse non hai capito, Ciccio, ma qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non fare le inchieste. A Milano, in questo momento storico irripetibile, si possono fare. Qui a Roma no».
In conclusione, attraverso tre decenni di emergenze (terrorismo, mafia, Tangentopoli) i magistrati italiani hanno assunto - nella concomitante crisi delle altre istituzioni - un profilo squisitamente politico, che all’inizio del periodo apparteneva soltanto alle “toghe rosse”.
Non soltanto formulano giudizi di merito sulle vicende politiche e su quelle del mondo della giustizia, ma agiscono sulla base di tali valutazioni nel contesto di iniziative o di omissioni di atti giudiziari. Inevitabilmente la loro discrezionalità solleva le proteste dei politici (anche di quelli di sinistra, ma solo quando sono al governo) e le perplessità dell’opinione pubblica.
Un soggetto che agisce politicamente senza risponderne a nessuno fa problema in termini di deficit democratico, perché esercita un potere che in democrazia deve avere il suggello delle urne, cosa che qui non avviene.
Il gran ricorso dei magistrati del Pool di Milano alla piazza mediatica, alle dichiarazioni ed agli appelli enfatizzati da giornali e tivù, testimonia che essi stessi hanno presente il problema: cercano il consenso dell’opinione pubblica proprio perché sanno di essere un potere politico e ambiscono alla legittimazione democratica. (da ’La vera storia delle toghe rosse’)
https://www.facebook.com/note.php?note_id=146518052073436&id=100000896446800
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Due articoli che meritano riflessioni.
http://www.tempi.it/farina-%C2%ABcuffaro-vive-una-condanna-ingiusta-pressioni-senza-precedenti-sui-magistrati%C2%BB
http://www.tempi.it/prima-notte-prigione-cuffaro-condannato-anche-se-mancano-la-prove-ecco-chi-%C3%A8-tot%C3%B2
non andate oltre, fermatevi a riflettere.
http://www.tempi.it/prima-notte-prigione-cuffaro-condannato-anche-se-mancano-la-prove-ecco-chi-%C3%A8-tot%C3%B2
non andate oltre, fermatevi a riflettere.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Ma è ancora lì, in "magistratura" a fare danni.
http://www.ilgiornale.it/interni/il_pm_che_indaga_silvio_e_quelle_famiglie_distrutte/26-01-2011/articolo-id=501814-page=0-comments=1
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Dal titolo iniziale, forse qualche riflessione vera andrebbe fatta.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/01/domenica-30-gennaio-2011.doc
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Altro esempio, oppure no ?
Mail mandata al Direttore del CORSERVA.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/e-le-altrei.doc
http://www.ilgiornale.it/fotogallery/perquisizioni_contro_giornale_racconto_delodissea/id=2797-foto=1-slideshow=0
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/e-le-altrei.doc
http://www.ilgiornale.it/fotogallery/perquisizioni_contro_giornale_racconto_delodissea/id=2797-foto=1-slideshow=0
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Cose mai viste : volete ulteriori prove ?
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/perquisizioni.doc
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Dal tentativo di golpe giudiziario, al supporto dei falsi moralisti.
la vera storia delle toghe rosse
Il problema della magistratura politicizzata è ormai il problema più serio
della giustizia in Italia. I sindacati che li raggruppano, Magistratura Democratica
e Movimento per la giustizia raggiungono ormai il 40% della rappresentatività
della magistratura.
Ma vediamo cosa ne dice un loro storico rappresentante, protagonista di
’tangentopoli, e a sua volta vittima in occasione delle vicende legate al caso
Squillante.
Nel 2001 Francesco Misani ha scritto insieme a Carlo Bonini il libro ’[52] La
toga rossa . Storia di un giudice’. Il giudice di cui si parla è lo stesso Misani
che, nel libro, si vanta apertamente di essere stato un giudice ideologicamente
motivato e di aver partecipato all’abbattimento del “sistema”, ma allo
stesso tempo illustra con decine di episodi e con una ricostruzione attendibile
come la magistratura italiana in questi anni sia largamente uscita dai
binari costituzionali per diventare una cosa del tutto diversa dall’“ordine
indipendente ma non sovrano”.
All’indomani dell’emergenza terrorismo che aveva catapultato sul palcoscenico
della cronaca e dell’attualità politica i giudici, scrive Bonini che «Autonomia
ed indipendenza, agli occhi dell’opinione pubblica, si trasformano
in altrettanti attributi che non individuano tanto le garanzie di uno dei poteri
dello Stato rispetto agli altri, quanto la sua inevitabile prevalenza (corsivo
nostro – nda). É un processo evolutivo che si andrà sviluppando negli anni
Ottanta, con la lotta alla mafia, e coronerà negli anni Novanta con il pool e
la stagione di Tangentopoli».
L’egemonia odierna del giudiziario, cui il solo Berlusconi oggi oppone resistenza,
è insomma un prodotto storico della fragilità delle istituzioni democratiche
italiane, che di fronte alle grandi emergenze del Dopoguerra hanno
mostrato la corda e innescato la supplenza della principale istituzione non
democratica del sistema.
Il PCI, spiega Misiani, ha favorito per ragioni di bottega questa evoluzione:
«Il nostro potere di supplenza rispetto all’esecutivo andava crescendo,
grazie anche all’appoggio della sinistra e del PCI in primo luogo, che su noi
magistrati, o, almeno, su una parte di noi, aveva deciso di investire risorse
e attenzione». Ma il PCI si è ritrovato di fatto come l’apprendista stregone:
non lui, ma i magistrati “protetti”, hanno beneficiato della rivoluzione.
Spiega Misiani che dentro a Md «Tangentopoli mise d’accordo tutti, anche
chi come me faticava a risolvere la cosiddetta contraddizione del garantista.
Di fatto, Md colse in Mani Pulite l’occasione che si offriva all’intera magistratura
di legittimarsi due volte. Innanzitutto, di fronte ad un’opinione pubblica che nel corso degli anni Ottanta aveva lanciato più di un segnale
di sfiducia. . . Inoltre, di legittimarsi come nuovo e unico potere superstite
del terremoto cominciato nel ’92».
Più chiaro di così. . .
La fenomenologia della “toga rossa” è imperniata su tre elementi:
1. un pregiudizio relativo alle leggi dello Stato, considerate non l’espressione
della volontà popolare attraverso i suoi rappresentanti politici
(Parlamento e Governo), ma uno strumento dell’egemonia borghese
nella società, e quindi funzionali agli interessi della borghesia;
2. la contestazione pubblica del sistema, delle sue leggi e delle stesse
procedure giudiziarie;
3. l’uso della funzione giudiziaria per promuovere gli interessi di classe
delle classi subalterne (ovvero della sinistra politica) piegando le leggi
vigenti e manipolando fin dove possibile le procedure giudiziarie.
Questi tre elementi si manifestano in maniera molto vistosa negli anni ruggenti
di Magistratura democratica (Md), che sono quelli fra la fine degli anni
Sessanta e la fine degli anni Settanta. Nella mozione del congresso di Roma
di Md del dicembre 1971 leggiamo: «Il nostro comune assunto teorico
è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe. . . obiettivo politico di Md
è la realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare
la giustizia delle sue caratteristiche di strumento di tutela degli interessi
delle classi dominanti per renderla funzionale alle esigenze di uguaglianza,
partecipazione ed emancipazione, sociale ed economica, delle classi lavoratrici».
In questa visione si ritrovavano sia la componente filo-PCI, maggioritaria
in Md, con esponenti del calibro di Giancarlo Caselli, Edmondo Bruti Liberati,
Elena Paciotti, ecc., sia l’ala “gruppettara” (simpatizzanti della sinistra
extraparlamentare) cui appartenevano personaggi come Francesco Misiani,
Francesco Greco (poi esponente di punta del pool di Milano), ecc.
La contestazione pubblica del sistema da parte delle “toghe rosse” era l’elemento
che più le differenziava dagli altri magistrati (che si limitavano ad
applicare le leggi) ed avveniva in molti modi.
I gruppettari prediligevano la partecipazione a convegni, riunioni e trasmissioni
radiofoniche di Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Radio Onda
Rossa, ecc. nelle corso dei quali pronunciavano dichiarazioni incendiarie a
favore dell’“abbattimento dello Stato borghese”, presidi delle aule dove si
svolgevano processi con giudici a loro sgraditi, esposti e richieste di misure
disciplinari contro colleghi e superiori (iniziative che si ritorcevano contro
chi le aveva promosse).
Ma la maggioranza di Md, organica al PCI, pur operando con diverso stile,
non è mai stata da meno, sia negli anni Settanta che Ottanta.
Nel 1970 Md come tale promosse la raccolta di firme (poi fallita) per un referendum
popolare per l’abolizione dei reati di opinione e sindacali, ed era
l’epoca dei picchettaggi violenti nelle fabbriche e della violenza verbale (ma
non solo) dell’ultrasinistra. PCI, Psiup e PSI aderirono all’iniziativa.
Nel 1984 Md si battè in prima fila contro il decreto legge che stabiliva il
blocco parziale del pagamento della “contingenza” nelle buste paga dei dipendenti,
definendolo «una grave violazione della legalità costituzionale»
e contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso decisa dal parlamento,
in risposta ai missili sovietici, bollata come «oggettivamente eversiva
dell’ordinamento costituzionale».
Sulle pagine di ’Democrazia e diritto’ e di ’Nuovasocietà’ Giancarlo Caselli
ha continuato per anni a testimoniare che per Md i magistrati non dovevano
certamente limitarsi ad applicare le leggi, ma dovevano partecipare alla
trasformazione politica del paese. «La magistratura – così rifletteva il 6 luglio
1979 – viene vista come compattamente schierata accanto ai “potenti”,
secondo una concezione certamente giustificata da vicende di ieri e di oggi,
ma che non tiene nel giusto conto… il delinearsi, all’interno della “corporazione”,
di nuove tendenze sul ruolo dei giudici nella società attuale. Mentre
è necessario che queste nuove tendenze siano da tutti ben conosciute se si
vuole realizzare intorno ad esse un “sostegno di massa” che le sviluppi ulteriormente.
Altrimenti potrebbero essere ricacciate indietro: con evidente
svantaggio per quelle forze politiche e sociali che anche dal mutato atteggiamento
di una parte almeno della magistratura possono ricevere un contributo
per la trasformazione in senso democratico del nostro paese».
Come si nota, Caselli auspicava il cortocircuito opinione pubblica-magistrati
politicizzati già tredici anni prima di Tangentopoli.
Queste posizioni hanno anche influenzato indagini e sentenze passate per
le mani delle “toghe rosse”, e questo evidentemente è il capitolo più inquietante.
Scrive Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni
di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto,
la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al
minimo e poi mettevamo fuori». «Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre
sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione, fino al punto di
disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto». Ma non sono
stati soltanto i “poveracci” a beneficiare della parzialità di giudizio delle
“toghe rosse”.
Il caso più vistoso di potenti beneficiari della sensibilità politica dei magistrati
è certamente quello dello scandalo del Sisde del 1993. Di fronte al
diluvio di rivelazioni dannose per i vertici istituzionali del paese da parte
del prefetto Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, e dei suoi uomini arrestati
con accuse di peculato riguardo l’uso di fondi a loro disposizione, gli
allora procuratori di Roma Vittorio Mele e Michele Coiro (Md) agirono non
per far venire a galla tutta la verità, ma per insabbiarla.
Come si ricorderà, Malpica e gli altri giunsero ad accusare Oscar Scalfaro e
Nicola Mancino di averli spinti a mentire riguardo ai fondi extracontabilità
del Sisde affinché non emergesse che anche loro ne avevano ricevuti.
Quel che successe dentro alla Procura di Roma Misiani lo descrive così: «Frisani,
e con lui Torri (i due PM dell’inchiesta – ndr), era convinto che si dovesse procedere senza esitazioni nei confronti di chiunque. E i sostituti più
giovani apprezzavano questo atteggiamento come un esempio di esercizio
imparziale dell’azione penale, sganciato da ogni valutazione di opportunità.
Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i
suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro
Saviotti. . .
La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a
un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico
che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito.
E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere».
Prevalse la seconda posizione, e venne deciso di arrestare il flusso delle rivelazioni
degli inquisiti sollevando un nuovo capo di imputazione contro
di loro: “attentato agli organi costituzionali” art. 289 del Codice penale.
La trovata funzionò, e il caso Sisde prese a sgonfiarsi.
Commenta Misiani: «Con quella scelta sul 289 è indubbio che una parte di
Magistratura democratica e Michele (Coiro – ndr) in primis ottennero una
legittimazione politica forte da parte delle istituzioni. Avevano dimostrato
- e non per opportunismo – che nel momento del bisogno la magistratura di
sinistra sapeva, perché convinta, fare quadrato».
Le caratteristiche di Md che abbiamo sin qui illustrato le ritroviamo tutte nel
pool di Milano negli anni di Tangentopoli e dopo: la polemica ed i giudizi
distruttivi contro gli altri poteri ma anche contro altri magistrati, la manipolazione
delle procedure di legge per perseguire obiettivi particolarmente
“sentiti”.
Si pensi al “pronunciamento” televisivo dei magistrati del Pool nel luglio
1994 contro il decreto Biondi, all’appello contro la riforma della custodia
cautelare firmato da un centinaio di PM, alla demonizzazione della classe
politica tutta intera da parte di Gherardo Colombo nella sua famosa intervista
al Corriere della Sera nel 1998, e alla solidarietà espressa a lui da 60
magistrati di Milano contro l’iniziativa disciplinare che era stata aperta nei
suoi riguardi.
Colombo aveva detto: «. . . negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica
è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può
raccontare a partire da una parola: ricatto. . . Io dico che nel metabolismo
politico-sociale del paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono
queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica
non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso».
Si pensi a Francesco Saverio Borrelli che dopo l’arresto del giudice Squillante
arriva ad attaccare la Procura di Roma in toto dichiarando: «I magistrati
romani subiscono una pressione atmosferica che talvolta può essere sentita
inconsapevolmente e talvolta può portare a connivenze o complicità».
Che i magistrati del Pool abbiano fatto uno strappo alla regola più di una
volta non lo diciamo noi, ma protagonisti come Italo Ghitti e Francesco Misiani.
Dichiarò il Gip storico di Mani Pulite, poco prima di abbandonare il suo incarico, a proposito delle continue violazioni del segreto istruttorio: «Ci fu
un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli
uffici dei PM e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di
alcuni magistrati del Pool».
E a proposito del radicamento a Milano dell’inchiesta Enimont, le cose sarebbero
andate così: «. . . ci fu una riunione presso il procuratore Mele… A
parte il procuratore Volpari… tutti gli altri partecipanti ritenevano in cuor
loro che dal punto di vista giuridico la questione di competenza andasse
risolta a favore di Roma. Malgrado ciò, prevalse l’opinione caldeggiata da
Mele, secondo la quale valeva la pena di liberarsi di un procedimento così
fastidioso e scottante».
Ai dubbi di Misiani Gherardo Colombo avrebbe poi risposto: «Forse non hai
capito, Ciccio, ma qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può
fare o non fare le inchieste. A Milano, in questo momento storico irripetibile,
si possono fare. Qui a Roma no».
In conclusione, attraverso tre decenni di emergenze (terrorismo, mafia, Tangentopoli)
i magistrati italiani hanno assunto – nella concomitante crisi delle
altre istituzioni – un profilo squisitamente politico, che all’inizio del periodo
apparteneva soltanto alle “toghe rosse”.
Non soltanto formulano giudizi di merito sulle vicende politiche e su quelle
del mondo della giustizia, ma agiscono sulla base di tali valutazioni nel
contesto di iniziative o di omissioni di atti giudiziari. Inevitabilmente la loro
discrezionalità solleva le proteste dei politici (anche di quelli di sinistra,
ma solo quando sono al governo) e le perplessità dell’opinione pubblica.
Un soggetto che agisce politicamente senza risponderne a nessuno fa problema in termini di deficit democratico, perché esercita un potere che in democrazia deve avere il suggello delle urne, cosa che qui non avviene.
Il gran ricorso dei magistrati del Pool di Milano alla piazza mediatica, alle
dichiarazioni ed agli appelli enfatizzati da giornali e tivù, testimonia che
essi stessi hanno presente il problema: cercano il consenso dell’opinione
pubblica proprio perché sanno di essere un potere politico e ambiscono alla legittimazione democratica. (da ’La vera storia delle toghe rosse’)
http://lakyluke.wordpress.com/
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Non perdetevi queste verità.
Divertitevi e poi incazzatevi, per la presa che ci hanno voluto fare negli anni e che continuano a cercare di fare, ancora.
Addirittura con "strumenti" demenziali : ha ragione Berlusconi quando dice che "bisogna fare all'atto del Concorso, la visita mentale e psicologica e poi ripeterla dopo un tot di anni, come verifica funzionale".
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/cimici.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/trattativa1.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/trattativa2.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/marte1.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/marte2.pdf
Addirittura con "strumenti" demenziali : ha ragione Berlusconi quando dice che "bisogna fare all'atto del Concorso, la visita mentale e psicologica e poi ripeterla dopo un tot di anni, come verifica funzionale".
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/cimici.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/trattativa1.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/trattativa2.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/marte1.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/marte2.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Lo metto qui, per dimostrare cosa sono i "falsi moralisti".
5 febbraio 2011
Chi comanda sul Pd
Giornaloni, banchieri, pm, grandi scrittori. Storia di una tragedia politica, l’eterodirezione
Non ci fosse stato il piccolo particolare di quello che a oggi appare un rifiuto – perché Raffaele Cantone magistrato e scrittore non si vede nel ruolo di sindaco di Napoli – l’ultima iniziativa di Roberto Saviano, verdetto di irregolarità sulle primarie del Pd partenopeo e indicazione del nuovo candidato per le comunali, sarebbe passata alla storia come la ciambella con il buco, il caso di scuola, l’antonomasia dell’eterodirezione. Papa straniero che impone un papa straniero. Un esterno che ne designa un altro. Ma il “no grazie” del magistrato è solo il dettaglio che separa dalla perfezione e non inficia l’esemplarità della vicenda. A prescindere dall’epilogo, la capacità di Saviano di dare la linea e soprattutto quella del Pd intero di farsela dare, con tempistica accelerata e dunque rivelatrice (fra l’appello sul sito di Repubblica e l’adesione di Bersani l’intervallo è stato brevissimo) hanno creato nel partito e nelle aree attigue, autoironie, amarezze e turbamento. “Ma è mai possibile che decida Saviano?”, si chiedeva il direttore del Riformista Stefano Cappellini sulla prima pagina del quotidiano ribellandosi alla forza dell’icona di Repubblica. “E per di più un magistrato…”, si doleva sulla Stampa il filosofo Biagio De Giovanni. Il direttore di Europa Stefano Menichini optava per la versione dell’autonomia del segretario, una semplice coincidenza temporale o per il sospetto che, semmai, a Saviano qualcuno avesse chiesto una mano. I veltroniani si sperticavano nel ricordare che era stato Veltroni a proporre Cantone, prima di Saviano, nella manifestazione pubblica di Modem, al teatro Eliseo, rivendicazione della sintonia più che del copyright.
Il caso è rivelatore di un atteggiamento psicologico e di una sostanza politica riassumibili in una parola “eterodirezione”, la più usata fin dagli anni ’90 per descrivere o contestare il rapporto del Pd e, prima, dei partiti e dei leader del centrosinistra, con gli esterni, il gruppo Repubblica-l’Espresso in primo luogo, ma anche il Corriere o chiunque e qualunque cosa sia stato di volta in volta in grado di rivelare le sue potenzialità di attore della politica. Oggi, nella debolezza identitaria e di proposta, gli esterni si sono moltiplicati e frantumati spesso a loro volta indeboliti e sembra essere proprio il Pd a conferire loro la forza o lo spazio che in realtà avrebbero perso. L’eterodirezione, da accusa reciproca, da moto di insofferenza almeno come dissimulazione, si è trasformata in un’ammissione, l’argomento di un dibattito sottotraccia a livello dei dirigenti intermedi, condensata nell’immagine di “un Pd sballottato dagli eventi, dalle agende di altri o dalle emergenze” o nel cahier de doléances dell’alternativa che non si costruisce.
Da Casini a Vendola, da Marchionne alla Fiom, dalla Camusso a Bonanni alla Confindustria, dal tremontismo in salsa leghista al bocconismo liberal, fino al rapporto con la magistratura e con la chiesa e alle fascinazioni internazionali, oggi per la Merkel, ieri Zapatero o Obama, eterodirezione è diventata l’etichetta di una caccia ai contenuti, un indefesso bric à brac politicoculturale e anche relazionale. Certo, Repubblica resta la sirena più ammaliante e temuta per storia e capacità di influire sull’elettorato classico del Pd, per fissare i paletti invalicabili dell’antiberlusconismo, l’impraticabilità di ogni negoziato con il Cav. dai tempi di quello che Claudio Rinaldi definì il “mal di Bicamerale” che costò la rottura definitiva fra Carlo De Benedetti e Massimo D’Alema, fino ai giorni, questi in cui l’impraticabilità politica consente di accontentare Largo Fochetti con una liberatoria durezza dei no al piano economico del premier e a ogni confronto sulla questione del debito.
Si è visto con chiarezza nei giorni immediatamente successivi al secondo Lingotto veltroniano: gli accenti entusiastici dell’endorsement di Eugenio Scalfari pro Veltroni hanno provocato nelle diverse anime del Pd effetti opposti, ma significativi di uno stesso fenomeno; ovvero che lo sguardo benevolo del fondatore di Repubblica può ancora fare la gioia o la disperazione dei leader del centrosinistra.
“Scalfari ha esagerato, Veltroni ha concordato la recensione prima del Lingotto”, giuravano i bersanian-dalemian-lettiani nei conciliaboli di Montecitorio e nel documento interno del bersaniano Stefano Fassina rivelato da Claudio Cerasa sul Foglio si criticava “qualche autorevole quotidiano convinto di poter tornare ad eterodirigere il Pd”. Sul fronte opposto i veltroniani si diffondevano sulle proprietà tonificanti di un omaggio a loro dire del tutto “inaspettato” e talmente euforizzante da spingere l’ex segretario al bis il sabato successivo, con la chiamata alla mobilitazione di piazza via lettera a Repubblica in puro stile barocco veltroniano. A dispetto del disincanto di un fedelissimo di rango come l’economista Michele Salvati, intellettuale di punta della fondazione Democratica: “Gli editoriali di Scalfari non si sa bene come prenderli – ha detto al Foglio – ma i Veltroni e i D’Alema, nonostante la loro qualità, sarebbero impresentabili in un contesto elettorale”.
Gli insider giurano che Repubblica non è nemmeno più un partito, che anche dentro il giornale un tempo monolitico si fanno sentire anime diverse; che De Benedetti non la pensa come Scalfari e nemmeno come Ezio Mauro; che sulla Fiat ci sono state cinque linee diverse (Massimo Giannini, Luciano Gallino, Ezio Mauro e Mario Pirani oltre che Scalfari); e che “Repubblica è un po’ come il Pd”: il che ovviamente rende più amara l’eterodirezione.
“Viene da dire basta arrendetevi, l’eterodirezione ha vinto su tutta la linea, è un argomento usurante che avrebbe bisogno di essere smentito dai fatti. E dai risultati elettorali” osserva Andrea Romano, intellettuale di punta di ItaliaFutura fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, con un passato alla testa di Italianieuropei il think tank dalemiano. “Mai il Guardian o l’Independent hanno avuto con il Labour un rapporto simile a quello che c’è fra Repubblica e il Pd”. Stefano Menichini invece tiene a sottolineare che l’eterodirezione in Italia riguarda tutti e non solo il Pd: “Si potrebbe dire che anche il Giornale dell’epoca Feltri ha eterodiretto il Pdl sul caso Boffo o con le campagne su Fini”, salvo precisare che lui vorrebbe un Pd più autonomo. Mentre Nicola Latorre ci tiene a salvare la specificità del caso Napoli, “non c’entra con l’eterodirezione, è una storia a sé”.
La questione tiene banco dagli anni 90, coda delle vecchie dispute metafisiche del pci su popolo e partito. Con il marchio dell’eterodirezione dei fax di Scalfari, il 30 giugno 1994 nacque l’idea stessa di Veltroni leader del Pds e con la ribellione a quel marchio il leader fu D’Alema. “D’Alema è l’unico che ha combattuto l’eterodirezione andando allo scontro con De Benedetti, con l’Anm sulla giustizia e sulla Bicamerale e con Cofferati sul ruolo del sindacato; ma è finita presto nel ’97, e poi si è adeguato”, osserva Claudio Velardi, oggi alla testa di una società di comunicazione politica, all’epoca capo dello staff dalemiano ed estensore di piani di guerra con ambizioni dirigiste sui media che riletti in questi giorni fanno sorridere (“Nei confronti dei giornali e dei media in genere, il nostro deve essere un atteggiamento egemonico – scrivevano i due spin doctor nel 1997 – dobbiamo ragionare sulla possibilità di portare alla guida del Corriere e di Repubblica due direttori di garanzia… Non amici di D’Alema o dell’Ulivo. Ci servono due direttori che riconoscano il primato della politica”). Teorizza Salvati che “la più grande eterodirezione in realtà è stata Prodi, un esterno”. Risale ad allora il conflitto mai risolto del leader senza partito con i partiti e tra partiti e società civile e popolo delle primarie. L’insofferenza dei bersanian-dalemiani per le primarie ha anche quella radice, l’impossibilità per il partito di gestire fino in fondo, di controllare. Napoli 2011 in questo senso è il casus belli perfetto.
Uno scambio epistolare nella posta del Corriere fra il responsabile economico del Pd Stefano Fassina e l’editorialista Dario Di Vico la dice lunga sulla diversa fisionomia che il problema eterodirezione ha assunto negli ultimi due anni con la crisi economica. Scrive Fassina a Di Vico, autore di un pezzo critico (“Quel segretario catturato dalla piazza”) sulle ambiguità del Pd rispetto alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre 2010 e sulla tendenza a ignorare precari, popolo delle partite Iva, lavoratori delle microaziende: “Non c’è contraddizione, ma coerenza fra la presenza alla manifestazione della Fiom e una proposta di fisco leggero sulle partita Iva… Le proposte del Pd sono coerenti con l’analisi di fondo contenuta nella Caritas in veritate”. Risponde Di Vico: “Disegnare una linea di continuità fra papa Ratzinger e Cremaschi passando per le uova a Bonanni è un esercizio che non porta da nessuna parte”.
Il botta e risposta è il manifesto di quello che lo stesso Di Vico descrive al Foglio come “sincretismo debole”, il tentativo di cercare “fonti culturali ovunque anche a costo di rivelare una buona dose di minoritarismo”.
Spazzati via dalla crisi economica, gli anni delle liberalizzazioni, l’egemonia liberaldemocratica alla Francesco Giavazzi caldeggiata dal Corriere e il feeling con la Banca d’Italia, l’eterodirezione è diventata plurima. Lo stesso Bersani che fra i suoi successi del biennio al governo amava annoverare le cosiddette lenzuolate, nate in debito e in contaminazione con quella cultura, appare stretto fra opposte pulsioni.
Da una parte c’è la suggestione del tremontismo, che, secondo Andrea Romano, “nel suo binomio con la Lega, è il vero potere forte visto che i salotti del capitalismo finanziario non esistono più”. Osserva Romano che “Tremonti usa con intelligenza Berlinguer, lo cita in una prospettiva anticapitalistica, ma medievale e leghista che però fa presa sull’ala antimercatista del Pd, quella che sotto sotto crede nel ritorno dello stato. E che dunque abbocca”. Di convegno in convegno, Tremonti è passato dalle citazioni di Togliatti – sparse ad arte nei suoi discorsi pubblici – alla dissertazione sui discorsi di Berlinguer degli anni 70, con speciale attenzione a quello del 1977 sull’austerità, pronunciata alla presenza di Emanuele Macaluso, passando per le polemiche con i professori bocconiani, spiazzanti per il Pd che li aveva eletti a punti di riferimento dalla fine degli anni 90 al 2008. Naturalmente nel rapporto con il ministro dell’Economia che è soprattutto appannaggio di D’Alema e di Enrico Letta, via Aspen, e nell’asse nordista che lega Tremonti al mondo bresciano del banchiere Giovanni Bazoli, non c’è solo questa fascinazione culturale, c’è tattica politica, gioco delle alleanze, tentativi di costruire un dialogo in funzione antiberlusconiana. Discorso che non vale solo per Tremonti.
In questa fase sincretica, la Fiom è una tentazione e per certi versi un porto. Garantisce la piazza, è muscolare e ne ha licenza e know how, è antica, ha il comitato centrale. Fischia la Camusso, ma parla alla pancia e al cuore. Non è solo il vecchio imperativo “non avere nemici a sinistra”, ma qualcosa di più e di più emotivo a spingere nella direzione dell’accumulo di materiali lasciandosi tentare da quelli forti o semplicemente cool.
“Non ci sono più, hanno funzioni diverse le figure tipiche dell’intellettuale di volta in volta di riferimento come sono stati in passato Beppe Vacca, Nicola Rossi, Giorgio Bosetti, non ci sono più le riviste”, lamenta Di Vico, e Salvati si associa sottolineando che i numerosi think tank e fondazioni sono ormai solo relazionali: “C’è Pietro Ichino che vale un think tank, ma è solo”, dice l’economista mentre enfatizza l’importanza della scelta ichiniana fatta da Veltroni al Lingotto.
L’eterodirezione ha corollari temibili, per esempio che, nella debolezza dei progetti e delle leadership, nel deficit identitario, gli eterodirettori perdano l’interesse a eterodirigere e si rivolgano altrove. E’ successo con i mondi intermedi, con la rete delle piccole imprese così come la Lega delle cooperative.
In un’intervista al Corriere di pochi giorni fa, il presidente di Legacoop Giuliano Poletti decretava la fine del collateralismo, spiegava che la Cgil è una controparte proprio come per la Confindustria, che l’idea delle cooperative, come terza via fra stato e mercato imposta per anni dalla politica, è finita per sempre e in sostanza che della politica a quel mondo che con la politica è nato e cresciuto interessa molto poco. A riprova che se il sincretismo significa paralisi e deficit di proposta si perdono pezzi.
“L’eterodirezione serve a tenere insieme la ‘ditta’ come dice Bersani evitando risse – sostiene ancora Salvati – da sempre e anche oggi nel Pd si combattono due linee, una più liberale l’altra più tradizionale e vicina ai sindacati. Riconducibili alla fine a veltroniani e dalemiani. Se il Pd scegliesse si spaccherebbe e per evitare questa spaccatura, da sempre ricorre all’esterno”.
Così ecco il caso Fiat con il partito che evita la posizione comune, ma anche la resa dei conti restando così semplicemente diviso fra marchionnisti come Sergio Chiamparino, Walter Veltroni, Enrico Letta e non, come Bersani, saldamente sulla linea Camusso, sostegno al referendum nel nome del no, ma sperando nella vittoria dei sì. In modo tale da contenere le diverse posizioni.
Questo clan unitario, pur nella rissosità interna, serve a mettere a fuoco anche altri aspetti: per esempio quel che resta del rapporto con i grandi personaggi dell’economia magari non ascrivibile alla categoria dell’eterodirezione, ma sicuramente a quella dell’attenzione. L’affievolimento della relazione fra Pd e poteri forti è confermata da qualunque osservatore ed esemplificata nel mutamento/indebolimento, uno per tutti, del rapporto con Mario Draghi. Le relazioni personali – one to one direbbero in gergo manageriale – invece resistono e condizionano soprattutto gli equilibri interni al partito, il gioco delle correnti, l’assetto oligarchico. D’Alema con Cesare Geronzi, Enrico Letta con Giovanni Bazoli e in qualche modo con Corrado Passera e perfino Marco Tronchetti Provera (che mantiene contatti con Nicola Latorre,) l’imprenditore romano Raffaele Ranucci con Veltroni, così come in un diverso contesto di influenza Scalfari/Mieli con Veltroni, al di là della reale efficacia e significato dell’endorsement servono a garantire la non prevalenza dell’uno sull’altro e la possibilità dei ritorni. Eterna, come si vede dalle reazioni opposte speculari di Bersani e Veltroni, al “surge et ambula” di Scalfari per quest’ultimo.
Cene e convegnistica, dibattiti e presentazioni di libri mostrano la mappa delle relazioni. Qualche volta anche le gaffe. Come capitato a Sergio Chiamparino sindaco di Torino che nel 2008 inviò a politici e personalità locali il programma per gli ultimi tre anni di mandato senza accorgersi che il paper in questione portava il marchio della provenienza, lo studio del più importante avvocato di Torino Angelo Benessia, presidente della fondazione San Paolo. Dal punto di vista dei poteri forti, se un interesse resta, il rapporto è legato a una fiche da giocare per il dopo Berlusconi, quando sarà. E, secondo un retropensiero decrittato a bassa voce nelle analisi più disincantate, come uno scudo antropologico, un lavacro preventivo o una collocazione di sicurezza rispetto a eventuali sempre possibili collisioni con la magistratura.
Anche con la magistratura il rapporto è flebile, riassumibile in un riguardo oggi facilmente gestibile vista l’estremizzazione dello scontro tra Berlusconi e la procura di Milano. Ma anche in questo caso la “direzione” è altrove. Perché lo scontro con Berlusconi è totale appannaggio di Ilda Boccassini e Edmondo Bruti Liberati. A questo va aggiunto anche un altro spunto di riflessione. Perché nel giro di 15 anni anche i magistrati hanno trovato referenti diversi e più forti di quelli del Pd, con cui mantengono rapporti accademici, a partire da Luciano Violante: Di Pietro, ovviamente, e un giornale, il Fatto, oltre al feeling storico e mai tramontato con Repubblica e con Micromega, e oltre alla fluida congerie movimentista già dei girotondi.
Restano tracce relazionali in fenomeni di culturalizzazione: Antonio Ingroia procuratore dell’antimafia di Palermo che ha scritto sull’ultimo numero di Italianieuropei “Quale stato di diritto”, Bruti Liberati, che insieme a Violante compariva nel numero monografico sulla giustizia della stessa rivista, prima tuttavia di diventare capo della procura di Milano. Veltroni che affida lezioni presso la sua scuola di politica, Democratica a Piero Grasso procuratore nazionale antimafia e lancia Cantone dopo aver arruolato in passato un altro magistrato e scrittore, Gianrico Carofiglio. L’eterodirezione messa così appare una condanna. Confina con la subalternità e con l’ansia di legittimazione. Visibile per esempio nel rapporto con la chiesa e il Vaticano, altre temibili fonti culturali da inglobare, di cui tenere conto almeno con una candidatura o una citazione come Fassina con la Caritas in veritate. Con un riflesso culturale antico e ineliminabile la ricerca di quello che è bene pensare. Dice al Foglio lo storico Giovanni Sabbatucci: “Venuta meno l’ideologia e il welfare, capisaldi della sinistra, quale può essere la cosa con cui un partito di sinistra giustifica se stesso se non essere i migliori? In mancanza di una dottrina, la vulnerabilità alle suggestioni dei nuovi massimalismi e la glassa dei buoni sentimenti”. Una glassa che trova sbocchi mediatici e scorciatoie logiche per esempio negli elenchi di valori e icone associati senza la fatica del predicato verbale sperimentati da Fabio Fazio e ancora Saviano in “Vieni via con me” o nel sentimentalismo di Vendola, nella nostalgia scalfariana per il sogno veltroniano e più pericolosamente di Veltroni e degli altri leader per i vecchi se stessi.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Alessandra Sardoni
Chi comanda sul Pd
Giornaloni, banchieri, pm, grandi scrittori. Storia di una tragedia politica, l’eterodirezione
Non ci fosse stato il piccolo particolare di quello che a oggi appare un rifiuto – perché Raffaele Cantone magistrato e scrittore non si vede nel ruolo di sindaco di Napoli – l’ultima iniziativa di Roberto Saviano, verdetto di irregolarità sulle primarie del Pd partenopeo e indicazione del nuovo candidato per le comunali, sarebbe passata alla storia come la ciambella con il buco, il caso di scuola, l’antonomasia dell’eterodirezione. Papa straniero che impone un papa straniero. Un esterno che ne designa un altro. Ma il “no grazie” del magistrato è solo il dettaglio che separa dalla perfezione e non inficia l’esemplarità della vicenda. A prescindere dall’epilogo, la capacità di Saviano di dare la linea e soprattutto quella del Pd intero di farsela dare, con tempistica accelerata e dunque rivelatrice (fra l’appello sul sito di Repubblica e l’adesione di Bersani l’intervallo è stato brevissimo) hanno creato nel partito e nelle aree attigue, autoironie, amarezze e turbamento. “Ma è mai possibile che decida Saviano?”, si chiedeva il direttore del Riformista Stefano Cappellini sulla prima pagina del quotidiano ribellandosi alla forza dell’icona di Repubblica. “E per di più un magistrato…”, si doleva sulla Stampa il filosofo Biagio De Giovanni. Il direttore di Europa Stefano Menichini optava per la versione dell’autonomia del segretario, una semplice coincidenza temporale o per il sospetto che, semmai, a Saviano qualcuno avesse chiesto una mano. I veltroniani si sperticavano nel ricordare che era stato Veltroni a proporre Cantone, prima di Saviano, nella manifestazione pubblica di Modem, al teatro Eliseo, rivendicazione della sintonia più che del copyright.
Il caso è rivelatore di un atteggiamento psicologico e di una sostanza politica riassumibili in una parola “eterodirezione”, la più usata fin dagli anni ’90 per descrivere o contestare il rapporto del Pd e, prima, dei partiti e dei leader del centrosinistra, con gli esterni, il gruppo Repubblica-l’Espresso in primo luogo, ma anche il Corriere o chiunque e qualunque cosa sia stato di volta in volta in grado di rivelare le sue potenzialità di attore della politica. Oggi, nella debolezza identitaria e di proposta, gli esterni si sono moltiplicati e frantumati spesso a loro volta indeboliti e sembra essere proprio il Pd a conferire loro la forza o lo spazio che in realtà avrebbero perso. L’eterodirezione, da accusa reciproca, da moto di insofferenza almeno come dissimulazione, si è trasformata in un’ammissione, l’argomento di un dibattito sottotraccia a livello dei dirigenti intermedi, condensata nell’immagine di “un Pd sballottato dagli eventi, dalle agende di altri o dalle emergenze” o nel cahier de doléances dell’alternativa che non si costruisce.
Da Casini a Vendola, da Marchionne alla Fiom, dalla Camusso a Bonanni alla Confindustria, dal tremontismo in salsa leghista al bocconismo liberal, fino al rapporto con la magistratura e con la chiesa e alle fascinazioni internazionali, oggi per la Merkel, ieri Zapatero o Obama, eterodirezione è diventata l’etichetta di una caccia ai contenuti, un indefesso bric à brac politicoculturale e anche relazionale. Certo, Repubblica resta la sirena più ammaliante e temuta per storia e capacità di influire sull’elettorato classico del Pd, per fissare i paletti invalicabili dell’antiberlusconismo, l’impraticabilità di ogni negoziato con il Cav. dai tempi di quello che Claudio Rinaldi definì il “mal di Bicamerale” che costò la rottura definitiva fra Carlo De Benedetti e Massimo D’Alema, fino ai giorni, questi in cui l’impraticabilità politica consente di accontentare Largo Fochetti con una liberatoria durezza dei no al piano economico del premier e a ogni confronto sulla questione del debito.
Si è visto con chiarezza nei giorni immediatamente successivi al secondo Lingotto veltroniano: gli accenti entusiastici dell’endorsement di Eugenio Scalfari pro Veltroni hanno provocato nelle diverse anime del Pd effetti opposti, ma significativi di uno stesso fenomeno; ovvero che lo sguardo benevolo del fondatore di Repubblica può ancora fare la gioia o la disperazione dei leader del centrosinistra.
“Scalfari ha esagerato, Veltroni ha concordato la recensione prima del Lingotto”, giuravano i bersanian-dalemian-lettiani nei conciliaboli di Montecitorio e nel documento interno del bersaniano Stefano Fassina rivelato da Claudio Cerasa sul Foglio si criticava “qualche autorevole quotidiano convinto di poter tornare ad eterodirigere il Pd”. Sul fronte opposto i veltroniani si diffondevano sulle proprietà tonificanti di un omaggio a loro dire del tutto “inaspettato” e talmente euforizzante da spingere l’ex segretario al bis il sabato successivo, con la chiamata alla mobilitazione di piazza via lettera a Repubblica in puro stile barocco veltroniano. A dispetto del disincanto di un fedelissimo di rango come l’economista Michele Salvati, intellettuale di punta della fondazione Democratica: “Gli editoriali di Scalfari non si sa bene come prenderli – ha detto al Foglio – ma i Veltroni e i D’Alema, nonostante la loro qualità, sarebbero impresentabili in un contesto elettorale”.
Gli insider giurano che Repubblica non è nemmeno più un partito, che anche dentro il giornale un tempo monolitico si fanno sentire anime diverse; che De Benedetti non la pensa come Scalfari e nemmeno come Ezio Mauro; che sulla Fiat ci sono state cinque linee diverse (Massimo Giannini, Luciano Gallino, Ezio Mauro e Mario Pirani oltre che Scalfari); e che “Repubblica è un po’ come il Pd”: il che ovviamente rende più amara l’eterodirezione.
“Viene da dire basta arrendetevi, l’eterodirezione ha vinto su tutta la linea, è un argomento usurante che avrebbe bisogno di essere smentito dai fatti. E dai risultati elettorali” osserva Andrea Romano, intellettuale di punta di ItaliaFutura fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, con un passato alla testa di Italianieuropei il think tank dalemiano. “Mai il Guardian o l’Independent hanno avuto con il Labour un rapporto simile a quello che c’è fra Repubblica e il Pd”. Stefano Menichini invece tiene a sottolineare che l’eterodirezione in Italia riguarda tutti e non solo il Pd: “Si potrebbe dire che anche il Giornale dell’epoca Feltri ha eterodiretto il Pdl sul caso Boffo o con le campagne su Fini”, salvo precisare che lui vorrebbe un Pd più autonomo. Mentre Nicola Latorre ci tiene a salvare la specificità del caso Napoli, “non c’entra con l’eterodirezione, è una storia a sé”.
La questione tiene banco dagli anni 90, coda delle vecchie dispute metafisiche del pci su popolo e partito. Con il marchio dell’eterodirezione dei fax di Scalfari, il 30 giugno 1994 nacque l’idea stessa di Veltroni leader del Pds e con la ribellione a quel marchio il leader fu D’Alema. “D’Alema è l’unico che ha combattuto l’eterodirezione andando allo scontro con De Benedetti, con l’Anm sulla giustizia e sulla Bicamerale e con Cofferati sul ruolo del sindacato; ma è finita presto nel ’97, e poi si è adeguato”, osserva Claudio Velardi, oggi alla testa di una società di comunicazione politica, all’epoca capo dello staff dalemiano ed estensore di piani di guerra con ambizioni dirigiste sui media che riletti in questi giorni fanno sorridere (“Nei confronti dei giornali e dei media in genere, il nostro deve essere un atteggiamento egemonico – scrivevano i due spin doctor nel 1997 – dobbiamo ragionare sulla possibilità di portare alla guida del Corriere e di Repubblica due direttori di garanzia… Non amici di D’Alema o dell’Ulivo. Ci servono due direttori che riconoscano il primato della politica”). Teorizza Salvati che “la più grande eterodirezione in realtà è stata Prodi, un esterno”. Risale ad allora il conflitto mai risolto del leader senza partito con i partiti e tra partiti e società civile e popolo delle primarie. L’insofferenza dei bersanian-dalemiani per le primarie ha anche quella radice, l’impossibilità per il partito di gestire fino in fondo, di controllare. Napoli 2011 in questo senso è il casus belli perfetto.
Uno scambio epistolare nella posta del Corriere fra il responsabile economico del Pd Stefano Fassina e l’editorialista Dario Di Vico la dice lunga sulla diversa fisionomia che il problema eterodirezione ha assunto negli ultimi due anni con la crisi economica. Scrive Fassina a Di Vico, autore di un pezzo critico (“Quel segretario catturato dalla piazza”) sulle ambiguità del Pd rispetto alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre 2010 e sulla tendenza a ignorare precari, popolo delle partite Iva, lavoratori delle microaziende: “Non c’è contraddizione, ma coerenza fra la presenza alla manifestazione della Fiom e una proposta di fisco leggero sulle partita Iva… Le proposte del Pd sono coerenti con l’analisi di fondo contenuta nella Caritas in veritate”. Risponde Di Vico: “Disegnare una linea di continuità fra papa Ratzinger e Cremaschi passando per le uova a Bonanni è un esercizio che non porta da nessuna parte”.
Il botta e risposta è il manifesto di quello che lo stesso Di Vico descrive al Foglio come “sincretismo debole”, il tentativo di cercare “fonti culturali ovunque anche a costo di rivelare una buona dose di minoritarismo”.
Spazzati via dalla crisi economica, gli anni delle liberalizzazioni, l’egemonia liberaldemocratica alla Francesco Giavazzi caldeggiata dal Corriere e il feeling con la Banca d’Italia, l’eterodirezione è diventata plurima. Lo stesso Bersani che fra i suoi successi del biennio al governo amava annoverare le cosiddette lenzuolate, nate in debito e in contaminazione con quella cultura, appare stretto fra opposte pulsioni.
Da una parte c’è la suggestione del tremontismo, che, secondo Andrea Romano, “nel suo binomio con la Lega, è il vero potere forte visto che i salotti del capitalismo finanziario non esistono più”. Osserva Romano che “Tremonti usa con intelligenza Berlinguer, lo cita in una prospettiva anticapitalistica, ma medievale e leghista che però fa presa sull’ala antimercatista del Pd, quella che sotto sotto crede nel ritorno dello stato. E che dunque abbocca”. Di convegno in convegno, Tremonti è passato dalle citazioni di Togliatti – sparse ad arte nei suoi discorsi pubblici – alla dissertazione sui discorsi di Berlinguer degli anni 70, con speciale attenzione a quello del 1977 sull’austerità, pronunciata alla presenza di Emanuele Macaluso, passando per le polemiche con i professori bocconiani, spiazzanti per il Pd che li aveva eletti a punti di riferimento dalla fine degli anni 90 al 2008. Naturalmente nel rapporto con il ministro dell’Economia che è soprattutto appannaggio di D’Alema e di Enrico Letta, via Aspen, e nell’asse nordista che lega Tremonti al mondo bresciano del banchiere Giovanni Bazoli, non c’è solo questa fascinazione culturale, c’è tattica politica, gioco delle alleanze, tentativi di costruire un dialogo in funzione antiberlusconiana. Discorso che non vale solo per Tremonti.
In questa fase sincretica, la Fiom è una tentazione e per certi versi un porto. Garantisce la piazza, è muscolare e ne ha licenza e know how, è antica, ha il comitato centrale. Fischia la Camusso, ma parla alla pancia e al cuore. Non è solo il vecchio imperativo “non avere nemici a sinistra”, ma qualcosa di più e di più emotivo a spingere nella direzione dell’accumulo di materiali lasciandosi tentare da quelli forti o semplicemente cool.
“Non ci sono più, hanno funzioni diverse le figure tipiche dell’intellettuale di volta in volta di riferimento come sono stati in passato Beppe Vacca, Nicola Rossi, Giorgio Bosetti, non ci sono più le riviste”, lamenta Di Vico, e Salvati si associa sottolineando che i numerosi think tank e fondazioni sono ormai solo relazionali: “C’è Pietro Ichino che vale un think tank, ma è solo”, dice l’economista mentre enfatizza l’importanza della scelta ichiniana fatta da Veltroni al Lingotto.
L’eterodirezione ha corollari temibili, per esempio che, nella debolezza dei progetti e delle leadership, nel deficit identitario, gli eterodirettori perdano l’interesse a eterodirigere e si rivolgano altrove. E’ successo con i mondi intermedi, con la rete delle piccole imprese così come la Lega delle cooperative.
In un’intervista al Corriere di pochi giorni fa, il presidente di Legacoop Giuliano Poletti decretava la fine del collateralismo, spiegava che la Cgil è una controparte proprio come per la Confindustria, che l’idea delle cooperative, come terza via fra stato e mercato imposta per anni dalla politica, è finita per sempre e in sostanza che della politica a quel mondo che con la politica è nato e cresciuto interessa molto poco. A riprova che se il sincretismo significa paralisi e deficit di proposta si perdono pezzi.
“L’eterodirezione serve a tenere insieme la ‘ditta’ come dice Bersani evitando risse – sostiene ancora Salvati – da sempre e anche oggi nel Pd si combattono due linee, una più liberale l’altra più tradizionale e vicina ai sindacati. Riconducibili alla fine a veltroniani e dalemiani. Se il Pd scegliesse si spaccherebbe e per evitare questa spaccatura, da sempre ricorre all’esterno”.
Così ecco il caso Fiat con il partito che evita la posizione comune, ma anche la resa dei conti restando così semplicemente diviso fra marchionnisti come Sergio Chiamparino, Walter Veltroni, Enrico Letta e non, come Bersani, saldamente sulla linea Camusso, sostegno al referendum nel nome del no, ma sperando nella vittoria dei sì. In modo tale da contenere le diverse posizioni.
Questo clan unitario, pur nella rissosità interna, serve a mettere a fuoco anche altri aspetti: per esempio quel che resta del rapporto con i grandi personaggi dell’economia magari non ascrivibile alla categoria dell’eterodirezione, ma sicuramente a quella dell’attenzione. L’affievolimento della relazione fra Pd e poteri forti è confermata da qualunque osservatore ed esemplificata nel mutamento/indebolimento, uno per tutti, del rapporto con Mario Draghi. Le relazioni personali – one to one direbbero in gergo manageriale – invece resistono e condizionano soprattutto gli equilibri interni al partito, il gioco delle correnti, l’assetto oligarchico. D’Alema con Cesare Geronzi, Enrico Letta con Giovanni Bazoli e in qualche modo con Corrado Passera e perfino Marco Tronchetti Provera (che mantiene contatti con Nicola Latorre,) l’imprenditore romano Raffaele Ranucci con Veltroni, così come in un diverso contesto di influenza Scalfari/Mieli con Veltroni, al di là della reale efficacia e significato dell’endorsement servono a garantire la non prevalenza dell’uno sull’altro e la possibilità dei ritorni. Eterna, come si vede dalle reazioni opposte speculari di Bersani e Veltroni, al “surge et ambula” di Scalfari per quest’ultimo.
Cene e convegnistica, dibattiti e presentazioni di libri mostrano la mappa delle relazioni. Qualche volta anche le gaffe. Come capitato a Sergio Chiamparino sindaco di Torino che nel 2008 inviò a politici e personalità locali il programma per gli ultimi tre anni di mandato senza accorgersi che il paper in questione portava il marchio della provenienza, lo studio del più importante avvocato di Torino Angelo Benessia, presidente della fondazione San Paolo. Dal punto di vista dei poteri forti, se un interesse resta, il rapporto è legato a una fiche da giocare per il dopo Berlusconi, quando sarà. E, secondo un retropensiero decrittato a bassa voce nelle analisi più disincantate, come uno scudo antropologico, un lavacro preventivo o una collocazione di sicurezza rispetto a eventuali sempre possibili collisioni con la magistratura.
Anche con la magistratura il rapporto è flebile, riassumibile in un riguardo oggi facilmente gestibile vista l’estremizzazione dello scontro tra Berlusconi e la procura di Milano. Ma anche in questo caso la “direzione” è altrove. Perché lo scontro con Berlusconi è totale appannaggio di Ilda Boccassini e Edmondo Bruti Liberati. A questo va aggiunto anche un altro spunto di riflessione. Perché nel giro di 15 anni anche i magistrati hanno trovato referenti diversi e più forti di quelli del Pd, con cui mantengono rapporti accademici, a partire da Luciano Violante: Di Pietro, ovviamente, e un giornale, il Fatto, oltre al feeling storico e mai tramontato con Repubblica e con Micromega, e oltre alla fluida congerie movimentista già dei girotondi.
Restano tracce relazionali in fenomeni di culturalizzazione: Antonio Ingroia procuratore dell’antimafia di Palermo che ha scritto sull’ultimo numero di Italianieuropei “Quale stato di diritto”, Bruti Liberati, che insieme a Violante compariva nel numero monografico sulla giustizia della stessa rivista, prima tuttavia di diventare capo della procura di Milano. Veltroni che affida lezioni presso la sua scuola di politica, Democratica a Piero Grasso procuratore nazionale antimafia e lancia Cantone dopo aver arruolato in passato un altro magistrato e scrittore, Gianrico Carofiglio. L’eterodirezione messa così appare una condanna. Confina con la subalternità e con l’ansia di legittimazione. Visibile per esempio nel rapporto con la chiesa e il Vaticano, altre temibili fonti culturali da inglobare, di cui tenere conto almeno con una candidatura o una citazione come Fassina con la Caritas in veritate. Con un riflesso culturale antico e ineliminabile la ricerca di quello che è bene pensare. Dice al Foglio lo storico Giovanni Sabbatucci: “Venuta meno l’ideologia e il welfare, capisaldi della sinistra, quale può essere la cosa con cui un partito di sinistra giustifica se stesso se non essere i migliori? In mancanza di una dottrina, la vulnerabilità alle suggestioni dei nuovi massimalismi e la glassa dei buoni sentimenti”. Una glassa che trova sbocchi mediatici e scorciatoie logiche per esempio negli elenchi di valori e icone associati senza la fatica del predicato verbale sperimentati da Fabio Fazio e ancora Saviano in “Vieni via con me” o nel sentimentalismo di Vendola, nella nostalgia scalfariana per il sogno veltroniano e più pericolosamente di Veltroni e degli altri leader per i vecchi se stessi.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Alessandra Sardoni
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Eversori con nome e cognome.
Ecco una selezione ampia, per quanto lontana dall'essere completa di dichiarazioni politiche dei magistrati:
- "Il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire" (Italo Ghitti, aprile 199...2).
- "Il capitalismo è una cosa sporca" (Fabio De Pasquale, ottobre 1996).
- "Si processano i fenomeni, non solo i singoli" (Piercamillo Davigo, ottobre 1996).
- "Se per comunista si intende chi cerca di fare il proprio dovere, ebbene si, lo sono (G. Colombo, luglio 1995).
- "Non si trattava tanto di scoprire quello che è successo in Italia in questi anni... è mancata l'analisi su come ha funzionato, su cosa è e cosa vuole il capitalismo italiano" (Francesco Greco, maggio 1996).
- "Il Parlamento, si sa, è quel lo che è. Non è cambiato ed è l'espressione di una vecchia logica partitica" (Gerardo D'Ambrosio, aprile 1993).
- "Il partito dei giudici non esiste, ma se mai dovesse esistere o vi convinceste che esiste, iscrivetevi" (Gian Carlo Caselli, ottobre 1995).
- "Quanti più sono gli iscritti al partito dei giudici tanto maggiori sono le probabilità che le cose possano andare in un certo modo" (G. Caselli, ottobre 1995).
- "Che senso ha parlare di un Parlamento realmente sovrano ?" (A. Di Pietro, ottobre 1995).
- "Mi auguro che la Bicamerale prima di prendere decisioni su questa materia (la Giustizia, ndr) voglia sentire il parere del l'Associazione italiana magistrati" (F. S. Borrelli, febbraio 1997).
- "Dico solo che i lavori della Bicamerale non favoriscono la giustizia ma la sua inefficienza" (P. Da vigo, novembre 1997).
- "Stiamo processando un regime prima della sua caduta" (P. Davigo, giugno 1992).
- "Restano da compiere ancora i rastrellamenti" (P. Davigo, marzo 1994).
- "Ci sono troppi avvocati in Italia" (P. Davigo, settembre 1995).
- "Non incarceriamo la gente per farla parlare, la scarceriamo dopo che ha parlato" (F. S. Bor relli, giugno 1993).
- "Non esistono innocen ti, ma solo colpevoli non ancora scoperti" (P. Davigo, ottobre 1993).
- "Se fossi in Berlusconi mi guarderei bene dall'attaccare Di Pietro" (G. D'Ambrosio, aprile 1995).
- "Se non mandate a casa la casta dei mandarini, sarà guerriglia con la giustizia" (P. Davigo, ottobre 1996).
- "Il fatto è che un'intera classe politica, o quasi, se ne deve andare" (Felice Casson, luglio 1992).
- "Se una parte del vecchio sistema viene lasciata in grado di condizionare o di ricattare il nuovo potere, allora la Seconda repubblica non nascerà mai" (F. Greco, gennaio 1996).
- "Quello immediatamente successivo all'arresto, è un momento magico" (Marcello Maddalena, aprile 1997).”
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- "Il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire" (Italo Ghitti, aprile 199...2).
- "Il capitalismo è una cosa sporca" (Fabio De Pasquale, ottobre 1996).
- "Si processano i fenomeni, non solo i singoli" (Piercamillo Davigo, ottobre 1996).
- "Se per comunista si intende chi cerca di fare il proprio dovere, ebbene si, lo sono (G. Colombo, luglio 1995).
- "Non si trattava tanto di scoprire quello che è successo in Italia in questi anni... è mancata l'analisi su come ha funzionato, su cosa è e cosa vuole il capitalismo italiano" (Francesco Greco, maggio 1996).
- "Il Parlamento, si sa, è quel lo che è. Non è cambiato ed è l'espressione di una vecchia logica partitica" (Gerardo D'Ambrosio, aprile 1993).
- "Il partito dei giudici non esiste, ma se mai dovesse esistere o vi convinceste che esiste, iscrivetevi" (Gian Carlo Caselli, ottobre 1995).
- "Quanti più sono gli iscritti al partito dei giudici tanto maggiori sono le probabilità che le cose possano andare in un certo modo" (G. Caselli, ottobre 1995).
- "Che senso ha parlare di un Parlamento realmente sovrano ?" (A. Di Pietro, ottobre 1995).
- "Mi auguro che la Bicamerale prima di prendere decisioni su questa materia (la Giustizia, ndr) voglia sentire il parere del l'Associazione italiana magistrati" (F. S. Borrelli, febbraio 1997).
- "Dico solo che i lavori della Bicamerale non favoriscono la giustizia ma la sua inefficienza" (P. Da vigo, novembre 1997).
- "Stiamo processando un regime prima della sua caduta" (P. Davigo, giugno 1992).
- "Restano da compiere ancora i rastrellamenti" (P. Davigo, marzo 1994).
- "Ci sono troppi avvocati in Italia" (P. Davigo, settembre 1995).
- "Non incarceriamo la gente per farla parlare, la scarceriamo dopo che ha parlato" (F. S. Bor relli, giugno 1993).
- "Non esistono innocen ti, ma solo colpevoli non ancora scoperti" (P. Davigo, ottobre 1993).
- "Se fossi in Berlusconi mi guarderei bene dall'attaccare Di Pietro" (G. D'Ambrosio, aprile 1995).
- "Se non mandate a casa la casta dei mandarini, sarà guerriglia con la giustizia" (P. Davigo, ottobre 1996).
- "Il fatto è che un'intera classe politica, o quasi, se ne deve andare" (Felice Casson, luglio 1992).
- "Se una parte del vecchio sistema viene lasciata in grado di condizionare o di ricattare il nuovo potere, allora la Seconda repubblica non nascerà mai" (F. Greco, gennaio 1996).
- "Quello immediatamente successivo all'arresto, è un momento magico" (Marcello Maddalena, aprile 1997).”
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Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
La "mafia" alla guida delle Istituzioni.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/maf3.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/maf4.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2011/02/maf4.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
L'ho già detto a suo tempo : la PAZZIA non ha limiti.
http://www.ilgiornale.it/interni/finiani_e_pd_oltre_ogni_limite_il_cav_terrorista_e_dittatore/politica-pdl-partito_democratico-fini-parlamento-fli-berlusconi-dittatura-terrorismo-pd-finiani/10-02-2011/articolo-id=505082-page=0-comments=1
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
da Giustizia Giusta.
Da GIUSTIZIAGIUSTA
Certa magistratura
lunedì 14 febbraio 2011
di Gianluca Perricone
Inizieremo forse a credere nella buona fede di certa magistratura quando verremo a sapere che finalmente è stato scoperto e denunciato qualche soggetto che ha reso pubblici testi di sms o contenuti di conversazioni intercettate quando gli stessi pubblici non potevano essere resi.
Finora, invece, siamo costretti a stare dalla parte della Sara Tommasi di turno e continuiamo a chiederci come si sia potuto leggere sulla stampa il contenuto di messaggi telefonici inviati dalla starlette pur non essendo la stessa né indagata né convocata di fronte al pm come persona informata sui fatti.
E verrebbe anche da chiedersi (proprio perché non indagata, almeno finora) perché il telefonino a lei in uso fosse sotto intercettazione e perché è stata decisa una perquisizione domiciliare con tanto di sequestro di computer.
Come direbbe Luciano Violante, sulla pubblicazioni delle intercettazioni telefoniche, l’Italia è oramai “come il sud America”: una mattanza alla quale viene sottoposto l’indagato di turno, soprattutto se dello stesso se ne cerca la distruzione, il definitivo annientamento che non riesce per via democratica tramite responso delle urne.
Scriveva l’altro giorno il Riformista che «oramai non bisogna nemmeno aspettare le ordinanze di custodia cautelare per assistere alla pubblicazione indiscriminata di telefonate e sms. La divulgazione avviene quasi in tempo reale rispetto alle indagini stesse. Non è nemmeno più corretto parlare di corto circuito mediatico-giudiziario, definizione che ha bene fotografato il sistema consolidatosi ai tempi di Tangentopoli. Qui siamo oltre, siamo alla inquietante fusione tra carte dei pm e carte dei giornali, siamo in una specie di Grande Fratello che ogni giorno porta questo format voyeuristico nelle case degli italiani, in spregio a qualunque limite imposto dalla rilevanza penale, dal rispetto della privacy, dalle garanzie degli indagati».
In realtà certa magistratura ha sorpassato ogni limite nella propria politicizzazione essendo ben consapevole di essere rimasta l’unico strumento in grado di mandare (forse) a casa l’avversario politico: in totale assenza di idee dall’opposizione, non resta che aggrapparsi a escort e prostitute. Le quali, del resto, proprio perché “strumenti di accusa” in mano al pm di turno quasi mai vengono indagate per una falsa testimonianza per qualche dichiarazione (magari in tv) ben oltre il limite della fantasia o per un tentativo di ricatto o di estorsione: niente, meno di niente.
Allora certa magistratura inizierà ad essere credibile solo quando smetterà di dare la caccia alle “prede politiche ad essa avverse” iniziando a fare, per davvero, il proprio lavoro che (come da Costituzione) non è certo quello di sovvertire l’orientamento politico espresso dalle elezioni.
Fino a questo momento diamo ragione a Massimo Pini quando, al Corriere della Sera, ha dichiarato che «quando un pm mette sotto accusa un premier, bisogna chiedersi quali sono le vere motivazioni… Il processo a un capo di governo non è mai un fatto puramente giudiziario».
Gli atti di certa magistratura ne sono una palese conferma.
Il peggio potremo averlo domani
lunedì 14 febbraio 2011
di Mauro Mellini
Sono molti in questi giorni, pur convinti che la iattura di questo nostro Paese non sia Berlusconi, ma il fatto che a destra o a sinistra non si vedano che uomini politici molto peggiori di lui, a chiedersi se veramente non sia da sperare che un “passo indietro” del Presidente del Consiglio ponga fine a questa incredibile bagarre, al conflitto tra l’ordine giudiziario ed i poteri dello Stato, alla sagra della politicizzazione della giustizia, alla paralisi delle riforme, alla squalifica del Parlamento e della vita politica. E via amaramente discorrendo.
Una motivazione, peraltro d’assai poco conto perché ricorrente nelle chiacchiere di politica: peggio di così non potrebbe andare.
Nossignori. Peggio, molto peggio potrebbe andare domani e proprio nell’ipotesi che il passo indietro il Cavaliere sia costretto a farlo. Ipotesi tutt’altro che improbabile, ché, anzi, tutto lascia ritenere sia difficilmente evitabile. L’assalto giudiziario alla diligenza governativa è di una violenza, di un’ampiezza e di una mancanza di scrupoli senza precedenti. E, soprattutto, sembra che Berlusconi abbia scelto l’unica via che lo possa portare alla sconfitta con assoluta sicurezza: vivere alla giornata, protestare contro le singole “operazioni giudiziarie” in suo danno. Evitare per quanto possibile lo scontro frontale, evitare di denunciare il conflitto tra l’ordine giudiziario e i poteri dello Stato; evitare di parlare in termini troppo drammatici (!!??!!) del golpe in atto, fare appello ai “moderati” ed alla moderazione, anziché passare al contrattacco contro la magistratura deviata e golpista, denunziando gli errori recenti, ma, soprattutto quelli meno recenti, che risalgono almeno ad un paio di decenni prima di Mani Pulite, che hanno consentito alla macchina della giustizia, sgangherata in quanto tale, di trasformarsi in una mina vagante contro le strutture dello Stato.
Denunziare, soprattutto, le responsabilità del “partito dello sgoverno” creatosi con l’accorrere di ascari del mondo politico e di portatori degli “interessi forti” tradizionalmente corporativi ed anarcoidi, che si affollano attorno alla Magistratura eversiva.
Forse non c’è più tempo perché questi errori, madornali possano essere rimediati. Forse non c’è né la coscienza dell’errore, né la visione e la volontà del rimedio.
Ed allora è inutile persino augurarsi che il Cavaliere trovi, magari, un medico capace di prescrivergli dosi più tollerabili di Viagra e neppure che si munisca di un buon avvocato. E tuttavia non è il Cavaliere, ma a noi stessi ed al nostro Paese che dobbiamo una riflessione ed una constatazione (più che una previsione). Il domani di un eventuale (tale volendolo ancora considerare) disarcionamento del Cavaliere ci riserva il peggio. Il peggio all’assetto istituzionale e politico del Paese. Il peggio per la Giustizia e quel tanto che ne resta.
Credo sia ingrato compito di chi già ha avuto quello della Cassandra di fronte al precipitare del degrado della giustizia e che, suo malgrado, ha giorno per giorno condotto un’analisi di questo degrado che gli avvenimenti si sono incaricati e si incaricano di confermare, di non nascondere anche a chi non ha intenzione alcuna di ascoltarle, alcune ovvie considerazioni ed una previsione purtroppo estremamente facile e lineare.
Che all’indomani di un defenestramento di Berlusconi i magistrati che hanno gettato alle ortiche anche la parvenza dell’obiettività e della moderazione, che si sono misurati nella giostra del “tiro al Cavaliere”, che hanno intrapreso la “lotta” al berlusconismo, che hanno trovato (certo non senza averli cercati) i supporti dei Santoro, dei Travaglio, dei Beppe Grillo etc. etc., rientrino soddisfatti e placati nella “normalità” e nella ricerca del miglioramento delle loro, magari assai modeste, qualità professionali: chi pensa tutto questo non solo si illude, ma mi pare abbia bisogno di una vigorosa e delicata cura dell’apparato cerebrale.
Se otterranno lo scalpo di Berlusconi i magistrati oltranzisti, già egemoni nella corporazione, diverranno intoccabili all’interno ed all’esterno di essa. Non si illudano quelli che in questi anni “sono stati dalla loro parte” di esser destinati, in tal caso, ad un trattamento appena migliore. Essi, senza accorgersene, sono stati gli “utili idioti” del golpismo giudiziario e saranno trattati come tali. Parlo di quelli “dalla parte dei magistrati” del mondo propriamente politico. Perché quelli dei “poteri forti” poco sono apparsi e poco assai saranno ripudiati domani: continueranno a stare dietro le quinte. Ma, ad esempio, quelli del Pd si preparino a subire quello che sta subendo Berlusconi. Già una certa insofferenza per la loro “moderazione” serpeggia nel partito dei Magistrati, benché, Berlusconi bene o male ancora in sella, il P.d.M. non possa certo fare a meno del Pd.
Insomma: la caduta di Berlusconi vedrà crescere a dismisura l’arroganza e la strafottenza della corporazione delle toghe.
Secondo: all’interno della corporazione crescerà il peso e la supremazia degli estremisti e non mancheranno “aggiustamenti” dell’ordinamento giudiziario diretti a consolidare questo tipo di supremazia.
Terzo: la qualità dei magistrati subirà una considerevole caduta e l’ignoranza, da sempre elemento di evoluzione dell’ordinamento giuridico, produrrà un altro grave passo avanti verso il c.d. “diritto libero”, cioè una ulteriore caduta del “principio di legalità”. “Diritto libero” che Piero Calamandrei definiva teoria giuridica dei regimi totalitari.
Quarto: il sistema democratico liberale, che ha creato il sistema dello “Stato di diritto”, correrà con questo il più grave dei pericoli per la sua sopravvivenza dopo la caduta del regime comunista sovietico e quella del fascismo e del nazismo.
Non è catastrofismo gratuito e polemico, strumentale. Purtroppo in Italia non si è posta la minima attenzione al fenomeno, in altri Paesi meglio analizzato, del pangiurisdizionalismo. Che dovrebbe essere e si è spacciato per un perfezionamento del concetto stesso di “Stato di diritto” e che, come molti perfezionamenti meccanicistici, rischia di esserne la tomba.
Mai come oggi mi auguro di sbagliare tutto.
Certa magistratura
lunedì 14 febbraio 2011
di Gianluca Perricone
Inizieremo forse a credere nella buona fede di certa magistratura quando verremo a sapere che finalmente è stato scoperto e denunciato qualche soggetto che ha reso pubblici testi di sms o contenuti di conversazioni intercettate quando gli stessi pubblici non potevano essere resi.
Finora, invece, siamo costretti a stare dalla parte della Sara Tommasi di turno e continuiamo a chiederci come si sia potuto leggere sulla stampa il contenuto di messaggi telefonici inviati dalla starlette pur non essendo la stessa né indagata né convocata di fronte al pm come persona informata sui fatti.
E verrebbe anche da chiedersi (proprio perché non indagata, almeno finora) perché il telefonino a lei in uso fosse sotto intercettazione e perché è stata decisa una perquisizione domiciliare con tanto di sequestro di computer.
Come direbbe Luciano Violante, sulla pubblicazioni delle intercettazioni telefoniche, l’Italia è oramai “come il sud America”: una mattanza alla quale viene sottoposto l’indagato di turno, soprattutto se dello stesso se ne cerca la distruzione, il definitivo annientamento che non riesce per via democratica tramite responso delle urne.
Scriveva l’altro giorno il Riformista che «oramai non bisogna nemmeno aspettare le ordinanze di custodia cautelare per assistere alla pubblicazione indiscriminata di telefonate e sms. La divulgazione avviene quasi in tempo reale rispetto alle indagini stesse. Non è nemmeno più corretto parlare di corto circuito mediatico-giudiziario, definizione che ha bene fotografato il sistema consolidatosi ai tempi di Tangentopoli. Qui siamo oltre, siamo alla inquietante fusione tra carte dei pm e carte dei giornali, siamo in una specie di Grande Fratello che ogni giorno porta questo format voyeuristico nelle case degli italiani, in spregio a qualunque limite imposto dalla rilevanza penale, dal rispetto della privacy, dalle garanzie degli indagati».
In realtà certa magistratura ha sorpassato ogni limite nella propria politicizzazione essendo ben consapevole di essere rimasta l’unico strumento in grado di mandare (forse) a casa l’avversario politico: in totale assenza di idee dall’opposizione, non resta che aggrapparsi a escort e prostitute. Le quali, del resto, proprio perché “strumenti di accusa” in mano al pm di turno quasi mai vengono indagate per una falsa testimonianza per qualche dichiarazione (magari in tv) ben oltre il limite della fantasia o per un tentativo di ricatto o di estorsione: niente, meno di niente.
Allora certa magistratura inizierà ad essere credibile solo quando smetterà di dare la caccia alle “prede politiche ad essa avverse” iniziando a fare, per davvero, il proprio lavoro che (come da Costituzione) non è certo quello di sovvertire l’orientamento politico espresso dalle elezioni.
Fino a questo momento diamo ragione a Massimo Pini quando, al Corriere della Sera, ha dichiarato che «quando un pm mette sotto accusa un premier, bisogna chiedersi quali sono le vere motivazioni… Il processo a un capo di governo non è mai un fatto puramente giudiziario».
Gli atti di certa magistratura ne sono una palese conferma.
Il peggio potremo averlo domani
lunedì 14 febbraio 2011
di Mauro Mellini
Sono molti in questi giorni, pur convinti che la iattura di questo nostro Paese non sia Berlusconi, ma il fatto che a destra o a sinistra non si vedano che uomini politici molto peggiori di lui, a chiedersi se veramente non sia da sperare che un “passo indietro” del Presidente del Consiglio ponga fine a questa incredibile bagarre, al conflitto tra l’ordine giudiziario ed i poteri dello Stato, alla sagra della politicizzazione della giustizia, alla paralisi delle riforme, alla squalifica del Parlamento e della vita politica. E via amaramente discorrendo.
Una motivazione, peraltro d’assai poco conto perché ricorrente nelle chiacchiere di politica: peggio di così non potrebbe andare.
Nossignori. Peggio, molto peggio potrebbe andare domani e proprio nell’ipotesi che il passo indietro il Cavaliere sia costretto a farlo. Ipotesi tutt’altro che improbabile, ché, anzi, tutto lascia ritenere sia difficilmente evitabile. L’assalto giudiziario alla diligenza governativa è di una violenza, di un’ampiezza e di una mancanza di scrupoli senza precedenti. E, soprattutto, sembra che Berlusconi abbia scelto l’unica via che lo possa portare alla sconfitta con assoluta sicurezza: vivere alla giornata, protestare contro le singole “operazioni giudiziarie” in suo danno. Evitare per quanto possibile lo scontro frontale, evitare di denunciare il conflitto tra l’ordine giudiziario e i poteri dello Stato; evitare di parlare in termini troppo drammatici (!!??!!) del golpe in atto, fare appello ai “moderati” ed alla moderazione, anziché passare al contrattacco contro la magistratura deviata e golpista, denunziando gli errori recenti, ma, soprattutto quelli meno recenti, che risalgono almeno ad un paio di decenni prima di Mani Pulite, che hanno consentito alla macchina della giustizia, sgangherata in quanto tale, di trasformarsi in una mina vagante contro le strutture dello Stato.
Denunziare, soprattutto, le responsabilità del “partito dello sgoverno” creatosi con l’accorrere di ascari del mondo politico e di portatori degli “interessi forti” tradizionalmente corporativi ed anarcoidi, che si affollano attorno alla Magistratura eversiva.
Forse non c’è più tempo perché questi errori, madornali possano essere rimediati. Forse non c’è né la coscienza dell’errore, né la visione e la volontà del rimedio.
Ed allora è inutile persino augurarsi che il Cavaliere trovi, magari, un medico capace di prescrivergli dosi più tollerabili di Viagra e neppure che si munisca di un buon avvocato. E tuttavia non è il Cavaliere, ma a noi stessi ed al nostro Paese che dobbiamo una riflessione ed una constatazione (più che una previsione). Il domani di un eventuale (tale volendolo ancora considerare) disarcionamento del Cavaliere ci riserva il peggio. Il peggio all’assetto istituzionale e politico del Paese. Il peggio per la Giustizia e quel tanto che ne resta.
Credo sia ingrato compito di chi già ha avuto quello della Cassandra di fronte al precipitare del degrado della giustizia e che, suo malgrado, ha giorno per giorno condotto un’analisi di questo degrado che gli avvenimenti si sono incaricati e si incaricano di confermare, di non nascondere anche a chi non ha intenzione alcuna di ascoltarle, alcune ovvie considerazioni ed una previsione purtroppo estremamente facile e lineare.
Che all’indomani di un defenestramento di Berlusconi i magistrati che hanno gettato alle ortiche anche la parvenza dell’obiettività e della moderazione, che si sono misurati nella giostra del “tiro al Cavaliere”, che hanno intrapreso la “lotta” al berlusconismo, che hanno trovato (certo non senza averli cercati) i supporti dei Santoro, dei Travaglio, dei Beppe Grillo etc. etc., rientrino soddisfatti e placati nella “normalità” e nella ricerca del miglioramento delle loro, magari assai modeste, qualità professionali: chi pensa tutto questo non solo si illude, ma mi pare abbia bisogno di una vigorosa e delicata cura dell’apparato cerebrale.
Se otterranno lo scalpo di Berlusconi i magistrati oltranzisti, già egemoni nella corporazione, diverranno intoccabili all’interno ed all’esterno di essa. Non si illudano quelli che in questi anni “sono stati dalla loro parte” di esser destinati, in tal caso, ad un trattamento appena migliore. Essi, senza accorgersene, sono stati gli “utili idioti” del golpismo giudiziario e saranno trattati come tali. Parlo di quelli “dalla parte dei magistrati” del mondo propriamente politico. Perché quelli dei “poteri forti” poco sono apparsi e poco assai saranno ripudiati domani: continueranno a stare dietro le quinte. Ma, ad esempio, quelli del Pd si preparino a subire quello che sta subendo Berlusconi. Già una certa insofferenza per la loro “moderazione” serpeggia nel partito dei Magistrati, benché, Berlusconi bene o male ancora in sella, il P.d.M. non possa certo fare a meno del Pd.
Insomma: la caduta di Berlusconi vedrà crescere a dismisura l’arroganza e la strafottenza della corporazione delle toghe.
Secondo: all’interno della corporazione crescerà il peso e la supremazia degli estremisti e non mancheranno “aggiustamenti” dell’ordinamento giudiziario diretti a consolidare questo tipo di supremazia.
Terzo: la qualità dei magistrati subirà una considerevole caduta e l’ignoranza, da sempre elemento di evoluzione dell’ordinamento giuridico, produrrà un altro grave passo avanti verso il c.d. “diritto libero”, cioè una ulteriore caduta del “principio di legalità”. “Diritto libero” che Piero Calamandrei definiva teoria giuridica dei regimi totalitari.
Quarto: il sistema democratico liberale, che ha creato il sistema dello “Stato di diritto”, correrà con questo il più grave dei pericoli per la sua sopravvivenza dopo la caduta del regime comunista sovietico e quella del fascismo e del nazismo.
Non è catastrofismo gratuito e polemico, strumentale. Purtroppo in Italia non si è posta la minima attenzione al fenomeno, in altri Paesi meglio analizzato, del pangiurisdizionalismo. Che dovrebbe essere e si è spacciato per un perfezionamento del concetto stesso di “Stato di diritto” e che, come molti perfezionamenti meccanicistici, rischia di esserne la tomba.
Mai come oggi mi auguro di sbagliare tutto.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
di Pietro Mancini
La sinistra usa la “gnocca” per sfrattare Berlusconi. Ma delle prostitute che Tarantini mandava alla giunta pugliese del PD? E di Delbono che portava l’amante in vacanza con i soldi della regione? E perché Santoro assume la Innocenzi, e prima di lei la Costamagna, la Borromeo e la Gambassi? Tutte gnocche. Ma di sinistra. Quindi brave e non infami.
La sinistra, politica e mediatica, sta usando le prostitute e le belle signorine come arma per tentare di sfrattare il Presidente del Consiglio da Palazzo Chigi. Su Rai3, ex tele-Kabul, le mega-stipendiate, donna Lucia Annunziata, dalemiana, e Bianca Berlinguer hanno persino riciclato la nota, e illibata, signora (diciamo…) Patrizia d’Addario, da Bari.
Silenzio assoluto, invece, sulle prostitute, che l’imprenditore Tarantini infilava nei lettoni Ikea, non di Putin, degli assessori PD - corrente del noto moralista, Max D’Alema - della giunta Vendola, allo scopo di vincere gli appaltoni sanitari. E sull’amante dell’ex sindaco prodiano di Bologna, che Flavio Delbono portava alle Seychelles, spesata da “mamma Regione”.
Domenica scorsa, le femministe hanno manifestato in oltre 230 città italiane per chiedere “più rispetto per la libertà e i diritti delle donne“. Ma, nei cortei, non c’era nemmeno l’ombra di uno striscione, che annunciasse qualche iniziativa concreta a favore dei diritti delle migliaia di giornaliste precarie della RAI, mal pagate e che da anni attendono, invano, di essere utilizzate nei programmi di approfondimento, in prima serata, e nei TG della televisione pubblica. Da Michele Santoro, in prima linea contro l’”infame Sultano”, per le precarie, non c’è spazio. Ad Annozero sono gradite e assunte solo le bellone: prima Luisella Costamagna, poi la contessina Beatrice Borromeo, quindi la campiomessa di scherma, Margherita Granbassi, per finire con Giulia Innocenzi, che stasera mitraglierà il capo del governo sulla tv, diretta da Masi, sbeffeggiato da Travaglio nel suo corsivo sul Fatto Quotidiano: tutto normale, “Morfeo” Garimberti?
La Innocenzi ha accusato di “delegittimazione dell’avversario” e addirittura di “prostituzione” i “giornalisti-infami servi”, cioè quelli non allineati nella massiccia operazione politico-mediatica di sputtanamento dell’odiato Cavaliere. Ma nè la Innocenzi, nè Sant’oro hanno risposto alle domande, che il direttore di Libero Maurizio Belpietro ha rivolto, nel corso del programma “L’ultima parola”: “Quali sono i criteri di Michele per la scelta delle sue collaboratrici? E’possibile che, tra i 18 mila dipendenti del carrozzone di viale Mazzini e tra le tante colleghe precarie, non ce ne sia una capace di leggere quelle poche domandine, scritte dal conduttore, che la Innocenzi è incaricata di rivolgere, al termine dei processoni a Silvio? Perché quelle brave, impegnate, precarie, “Sant’oro” non le vuole? Perché “Il Gran Fazioso di Salerno”, invece, vuole donne come te, gentile Innocenzi? Voi siete le veline di sinistra! Siete esattamente la stessa cosa!”
Nessuna risposta è stata fornita, solo accuse a Belpietro di diffondere veleni, di insultare la….innocente Innocenzi e, ca va sans dire, di essere uno degli infami artefici della “vergognosa macchina del fango” anti-progressisti. Insomma, il solito copione: “infamie e “veleni” le domande della stampa ai campioni, duri e puri (?), dell’opposizione, giornalismo investigativo e di inchiesta le paginate piene delle telefonate e degli sms delle ragazze, non indagate, che frequentavano la villa di Arcore.
E le giornaliste precarie della RAI continuino, in silenzio, ad aspettare, pazientamente, senza protestare, il loro turno! I conduttori progressisti continueranno a mitragliare Minetti – in bocca al lupo, Nicole, per la nuovo rubrica su Affaritaliani.it – e Mara Carfagna, in quanto la bella presenza, a destra, è sinonimo di arrivismo e di volgarità. E nessuno si azzardi a definir “veline” le collaboratrici di “Sant’oro” e compagni! Le bellone di sinistra sono assunte soltanto per le loro indubbie qualità professionali, giammai per la loro avvenenza… O no?
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
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