Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
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CONFERME BRUTTE per il csz.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/12/ciampi-ex2.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
Trattativa Stato-mafia
Scritto da Bartolomeo Di Monaco
Wednesday 12 January 2011
...Oggi faccio parlare due giornalisti, uno di Libero e uno del Corriere della Sera, i quali, suppongo, hanno partecipato alla stessa udienza nell’aula giudiziaria di Palermo e hanno udito le stesse parole e visto gli stessi protagonisti.
Eppure il resoconto di Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera, non riporta alcuna traccia del riferimento fatto dal giudice Sabella sulla trattiva tra Stato e Mafia sotto il governo Ciampi “co-diretto al Quirinale da Scalfaro”.
Delle due l’una: o il giornalista di Libero, Chris Bonface, s’è inventato tutto, o il giornalista del Corsera ha avuto dei crampi alle dita.
Siccome mi pare una faccenda seria, mi consentano i due giornalisti di riportare integralmente i loro articoli, apparsi ieri sui loro rispetti quotidiani, perché i lettori se ne facciano un’idea.
Comincio dall’articolo di Libero (che è stato pubblicato ieri anche da Legno Storto, ma per facilitare il confronto tra i due cronisti ritengo opportuno pubblicarlo di nuovo):
Data 12-01-2011
Libero
Pagina 7
Foglio 1
Processo Mori
Un giudice conferma: il governo Ciampi trattò con la mafia
::: Chris Bonface
Sì, lo stato italiano cercò dì trattare la resa con la mafia all’epoca di Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi presidente del Consiglio, Nicola Mancino ministro dell’Interno e Giovanni Conso ministro della Giustizia, La rivelazione è arrivata ieri in un’aula di tribunale a Palermo da un testimone di eccezione: il magistrato Alfonso Sabella. attualmente in servizio al tribunale dì Roma. Chiamato a deporre al processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, Sabella ha ricordato i suoi anni da pm a Palermo, quelli al Dap e soprattutto quelli alla procura dì Firenze quando collaborò con il pm della Dna Gabriele Chelazzi (oggi scomparso) all’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Sabelli, che è uno dei magistrati più apprezzati dalle associazioni antimafia, ha rivelato che Chelazzi era convinto che il generale Mori avesse avuto da organi dello Stato un mandato a trattare con i boss di Cosa Nostra. Secondo io stesso magistrato «io Stato, dopo le stragi del ’93, tentò di dare un segno di disponibilità a Cosa Nostra alleggerendo il numero dei boss sottoposti al regime carcerario duro previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario». la deposizione di Sabella è importante perché nonostante tutte le smentite, omissioni e parziali rivelazioni sulla trattativa fra Stato e mafia sotto il governo Scalfaro – Ciampi, sta emergendo con chiarezza come allora ci si arrese alle condizioni imposte da Cosa nostra. Secondo il ricordo di Sabella il suo collega Chelazzi carpì qualche elemento per ricostruire questa oscura vicenda «da un incontro che si svolse fra il generale Mori e l’ex vicecapo del Dap Francesco Di Maggio». Nel colloquio ci furono riferimenti espliciti alla direttiva governativa di trattare con i boss di Cosa Nostra. E il clamoroso risultato fu la liberazione dal giogo del carcere duro per oltre 130 boss mafiosi dell’Ucciardone e per centinaia di detenuti mafiosi e camorristi nelle carceri campane. Fra i beneficiari vi furono alcuni dei protagonisti delle stragi del ’92 in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e perfino uno dei rapitori e barbari assassini (sciolsero il corpo nell’acido) del giovanissimo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino. A calarsi le braghe davanti a siffatti nobiluomini fu il tanto celebrato governo tecnico della fine della prima Repubblica, che oggi parte del Pd vorrebbe erigere a modello per sostituire l’odiato Silvio Berlusconi. Ma quel governo Ciampi co-diretto al Quirinale da Scalfaro, uno dei grandi moralisti della Repubblica, non solo invece di combatterla si arrese senza condizioni alla mafia, ma si è tenuto questo segreto per quasi due decenni. Fino a quando chissà se per ingenuità o per rimorso nel novembre scorso il quasi novantenne professore Conso ha deciso di rivelare i primi particolari di quel che accadde, sostenendo eli avere fatto tutto da solo senza informare nessuno, proprio per vedere se quella grazia concessa ai boss fosse in grado di salvare l’Italia da nuove stragi. La versione di Conso è stata ritenuta sia dalla commissione antimafia che lo ha ascoltato sia dai magistrati palermitani che hanno aperto una inchiesta, assai poco credibile. Proprio per questo i pm palermitani alla vigilia di Natale hanno interrogato per lunghe ore a Roma sia Ciampi che Scalfaro, segregando il contenuto di quei verbali.
______________________
Questo invece è l’articolo apparso, sempre ieri, sul Corriere della Sera:
CORRIERE DELLA SERA
Processo Mori/ Ultimo: accuse incredibili
Data 12-01-2011
Pagina 24/25
Foglio 1
L’ex pm antimafia: carabinieri del Ros, metodi non limpidi
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO — I carabinieri del Ros, il reparto d’eccellenza contro il crimine organizzato, avevano metodi d’indagine che non piacevano ai magistrati antimafia di Palermo. Almeno ad alcuni. «Non riferivano mai quello che facevano, e questo provocò diffidenza», racconta l’ex pubblico ministero Alfonso Sabella, che nella seconda metà degli anni Novanta coordinò le ricerche dei principali latitanti di Cosa Nostra: «Non avevo mai il quadro completo della situazione, mentre le altre forze di polizia fornivano le notizie quasi in tempo reale».
Sabella depone come testimone d’accusa al processo in cui l’ex capo del Ros Mario Mori è imputato di favoreggiamento aggravato per la presunta mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, nel 1995, insieme al suo collaboratore dell’epoca Mauro Obinu. Ma per un’udienza diventa una sorta di processo al «metodo Ros», controfigura di quello in cui a Milano l’attuale capo del Raggruppamento operazioni speciali, il generale Giampaolo Ganzer, è stato condannato in primo grado a 14 anni di carcere. I reati sono diversi, ma il caso vuole che anche lì fosse imputato il colonnello Obinu, condannato a 7 anni; e sullo sfondo restano le modalità operative, almeno per il passato, di questo fiore all’occhiello dell’Arma.
«Io so che eravamo i migliori, se abbiamo sbagliato 0 fatto qualcosa di illegale ce lo dimostrino», commenta orgoglioso fuori dall’aula il generale Mori. Dentro l’ex pm Sabella, oggi giudice a Roma, ricorda che lui e altri chiesero all’allora procuratore Caselli di togliere al Ros l’esclusiva delle ricerche di Provenzano: «Non mi convinceva il metodo di lavoro, c’era scarsa limpidezza. Venivamo dalla mancata perquisizione del covo di Riina, il “peccato originale”; io dicevo sempre che con quello che trovammo in tasca a Leoluca Bagarella avevo fatto 200 arresti, figuriamoci quanto si poteva fare col materiale conservato da Riina». Per quella vicenda il colonnello Mori è già stato processato e assolto, ma nella storia dei tormentati rapporti tra Ros e Procura di Palermo resta un nodo mai completamente sciolto. Ora il giudice Sabella ne aggiunge altri: «Quando arrestarono il latitante Mico Farinella, nel 1994, scoprii che in tre precedenti occasioni l’avevano visto senza prenderlo. Io non ne sapevo nulla, e mi arrabbiai moltissimo. Poi si vociferava su rapporti di confidenza tra i carabinieri e uomini di Provenzano, in particolare un certo Maniscalco che successivamente confessò di aver aiutato alcuni pentiti che progettavano omicidi. Quando Maniscalco fu assolto da questa accusa, seppi che dal Ros chiesero di non fare appello».
Il magistrato aggiunge altri particolari, di quando lavorava a Palermo e delle valutazioni del suo collega Gabriele Chelazzi (morto nel 2003) che indagando sulla trattativa Stato-mafia s’era convinto di un ruolo del generale Mori: «Voleva inquisirlo per favoreggiamento della mafia, io replicai che secondo me aveva sempre agito nell’interesse dello Stato. Lui mi rispose: “Lo dica e opponga il segreto di Stato”. Io penso che il Ros agisse non come forza di polizia giudiziaria, ma per acquisire e usare informazioni sotto la direzione di altri. Sono mie opinioni, cosi come ritengo che Provenzano abbia tradito Riina, non impedendone la cattura».
Dopo Sabella, sul banco dei testimoni sale il colonnello Sergio De Caprio, che guidò l’arresto di Riina e ora mostra l’altra faccia del «metodo Ros». Protetto dal solito paravento per impedire che venga ripreso in volto, l’ex capitano Ultimo difende il lavoro suo e dei suoi uomini: «Abbiamo sempre riferito ai magistrati delegati ciò che dovevamo riferire. È incredibile anche solo pensare che uomini del Ros abbiano avuto rapporti con uomini di Provenzano. Ci sono carabinieri che hanno sacrificato la vita per le nostre indagini, capito? Noi abbiamo lavorato per il popolo e la giustizia, e il generale Mori ha sempre combattuto con noi. Era uno di noi, con lui non ci sono mai stati contrasti».
L’ufficiale nega il ritardato arresto del mafioso Farinella: «L’abbiamo preso appena avemmo la sicurezza che fosse lui. Solo dopo ci siamo resi conto che in passato l’avevamo già visto, ma senza riconoscerlo». E quando l’avvocato Basilio Milio, difensore di Mori, gli chiede se è vero che, come riferito dal figlio Massimo, l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino diede indicazioni sulla zona in cui si nascondeva Totò Riina, risponde sicuro e un po’ stizzito: «E falso».
Giovanni Bianconi
www.bartolomeodimonaco.it
Scritto da Bartolomeo Di Monaco
Wednesday 12 January 2011
...Oggi faccio parlare due giornalisti, uno di Libero e uno del Corriere della Sera, i quali, suppongo, hanno partecipato alla stessa udienza nell’aula giudiziaria di Palermo e hanno udito le stesse parole e visto gli stessi protagonisti.
Eppure il resoconto di Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera, non riporta alcuna traccia del riferimento fatto dal giudice Sabella sulla trattiva tra Stato e Mafia sotto il governo Ciampi “co-diretto al Quirinale da Scalfaro”.
Delle due l’una: o il giornalista di Libero, Chris Bonface, s’è inventato tutto, o il giornalista del Corsera ha avuto dei crampi alle dita.
Siccome mi pare una faccenda seria, mi consentano i due giornalisti di riportare integralmente i loro articoli, apparsi ieri sui loro rispetti quotidiani, perché i lettori se ne facciano un’idea.
Comincio dall’articolo di Libero (che è stato pubblicato ieri anche da Legno Storto, ma per facilitare il confronto tra i due cronisti ritengo opportuno pubblicarlo di nuovo):
Data 12-01-2011
Libero
Pagina 7
Foglio 1
Processo Mori
Un giudice conferma: il governo Ciampi trattò con la mafia
::: Chris Bonface
Sì, lo stato italiano cercò dì trattare la resa con la mafia all’epoca di Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi presidente del Consiglio, Nicola Mancino ministro dell’Interno e Giovanni Conso ministro della Giustizia, La rivelazione è arrivata ieri in un’aula di tribunale a Palermo da un testimone di eccezione: il magistrato Alfonso Sabella. attualmente in servizio al tribunale dì Roma. Chiamato a deporre al processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, Sabella ha ricordato i suoi anni da pm a Palermo, quelli al Dap e soprattutto quelli alla procura dì Firenze quando collaborò con il pm della Dna Gabriele Chelazzi (oggi scomparso) all’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Sabelli, che è uno dei magistrati più apprezzati dalle associazioni antimafia, ha rivelato che Chelazzi era convinto che il generale Mori avesse avuto da organi dello Stato un mandato a trattare con i boss di Cosa Nostra. Secondo io stesso magistrato «io Stato, dopo le stragi del ’93, tentò di dare un segno di disponibilità a Cosa Nostra alleggerendo il numero dei boss sottoposti al regime carcerario duro previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario». la deposizione di Sabella è importante perché nonostante tutte le smentite, omissioni e parziali rivelazioni sulla trattativa fra Stato e mafia sotto il governo Scalfaro – Ciampi, sta emergendo con chiarezza come allora ci si arrese alle condizioni imposte da Cosa nostra. Secondo il ricordo di Sabella il suo collega Chelazzi carpì qualche elemento per ricostruire questa oscura vicenda «da un incontro che si svolse fra il generale Mori e l’ex vicecapo del Dap Francesco Di Maggio». Nel colloquio ci furono riferimenti espliciti alla direttiva governativa di trattare con i boss di Cosa Nostra. E il clamoroso risultato fu la liberazione dal giogo del carcere duro per oltre 130 boss mafiosi dell’Ucciardone e per centinaia di detenuti mafiosi e camorristi nelle carceri campane. Fra i beneficiari vi furono alcuni dei protagonisti delle stragi del ’92 in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e perfino uno dei rapitori e barbari assassini (sciolsero il corpo nell’acido) del giovanissimo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino. A calarsi le braghe davanti a siffatti nobiluomini fu il tanto celebrato governo tecnico della fine della prima Repubblica, che oggi parte del Pd vorrebbe erigere a modello per sostituire l’odiato Silvio Berlusconi. Ma quel governo Ciampi co-diretto al Quirinale da Scalfaro, uno dei grandi moralisti della Repubblica, non solo invece di combatterla si arrese senza condizioni alla mafia, ma si è tenuto questo segreto per quasi due decenni. Fino a quando chissà se per ingenuità o per rimorso nel novembre scorso il quasi novantenne professore Conso ha deciso di rivelare i primi particolari di quel che accadde, sostenendo eli avere fatto tutto da solo senza informare nessuno, proprio per vedere se quella grazia concessa ai boss fosse in grado di salvare l’Italia da nuove stragi. La versione di Conso è stata ritenuta sia dalla commissione antimafia che lo ha ascoltato sia dai magistrati palermitani che hanno aperto una inchiesta, assai poco credibile. Proprio per questo i pm palermitani alla vigilia di Natale hanno interrogato per lunghe ore a Roma sia Ciampi che Scalfaro, segregando il contenuto di quei verbali.
______________________
Questo invece è l’articolo apparso, sempre ieri, sul Corriere della Sera:
CORRIERE DELLA SERA
Processo Mori/ Ultimo: accuse incredibili
Data 12-01-2011
Pagina 24/25
Foglio 1
L’ex pm antimafia: carabinieri del Ros, metodi non limpidi
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO — I carabinieri del Ros, il reparto d’eccellenza contro il crimine organizzato, avevano metodi d’indagine che non piacevano ai magistrati antimafia di Palermo. Almeno ad alcuni. «Non riferivano mai quello che facevano, e questo provocò diffidenza», racconta l’ex pubblico ministero Alfonso Sabella, che nella seconda metà degli anni Novanta coordinò le ricerche dei principali latitanti di Cosa Nostra: «Non avevo mai il quadro completo della situazione, mentre le altre forze di polizia fornivano le notizie quasi in tempo reale».
Sabella depone come testimone d’accusa al processo in cui l’ex capo del Ros Mario Mori è imputato di favoreggiamento aggravato per la presunta mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, nel 1995, insieme al suo collaboratore dell’epoca Mauro Obinu. Ma per un’udienza diventa una sorta di processo al «metodo Ros», controfigura di quello in cui a Milano l’attuale capo del Raggruppamento operazioni speciali, il generale Giampaolo Ganzer, è stato condannato in primo grado a 14 anni di carcere. I reati sono diversi, ma il caso vuole che anche lì fosse imputato il colonnello Obinu, condannato a 7 anni; e sullo sfondo restano le modalità operative, almeno per il passato, di questo fiore all’occhiello dell’Arma.
«Io so che eravamo i migliori, se abbiamo sbagliato 0 fatto qualcosa di illegale ce lo dimostrino», commenta orgoglioso fuori dall’aula il generale Mori. Dentro l’ex pm Sabella, oggi giudice a Roma, ricorda che lui e altri chiesero all’allora procuratore Caselli di togliere al Ros l’esclusiva delle ricerche di Provenzano: «Non mi convinceva il metodo di lavoro, c’era scarsa limpidezza. Venivamo dalla mancata perquisizione del covo di Riina, il “peccato originale”; io dicevo sempre che con quello che trovammo in tasca a Leoluca Bagarella avevo fatto 200 arresti, figuriamoci quanto si poteva fare col materiale conservato da Riina». Per quella vicenda il colonnello Mori è già stato processato e assolto, ma nella storia dei tormentati rapporti tra Ros e Procura di Palermo resta un nodo mai completamente sciolto. Ora il giudice Sabella ne aggiunge altri: «Quando arrestarono il latitante Mico Farinella, nel 1994, scoprii che in tre precedenti occasioni l’avevano visto senza prenderlo. Io non ne sapevo nulla, e mi arrabbiai moltissimo. Poi si vociferava su rapporti di confidenza tra i carabinieri e uomini di Provenzano, in particolare un certo Maniscalco che successivamente confessò di aver aiutato alcuni pentiti che progettavano omicidi. Quando Maniscalco fu assolto da questa accusa, seppi che dal Ros chiesero di non fare appello».
Il magistrato aggiunge altri particolari, di quando lavorava a Palermo e delle valutazioni del suo collega Gabriele Chelazzi (morto nel 2003) che indagando sulla trattativa Stato-mafia s’era convinto di un ruolo del generale Mori: «Voleva inquisirlo per favoreggiamento della mafia, io replicai che secondo me aveva sempre agito nell’interesse dello Stato. Lui mi rispose: “Lo dica e opponga il segreto di Stato”. Io penso che il Ros agisse non come forza di polizia giudiziaria, ma per acquisire e usare informazioni sotto la direzione di altri. Sono mie opinioni, cosi come ritengo che Provenzano abbia tradito Riina, non impedendone la cattura».
Dopo Sabella, sul banco dei testimoni sale il colonnello Sergio De Caprio, che guidò l’arresto di Riina e ora mostra l’altra faccia del «metodo Ros». Protetto dal solito paravento per impedire che venga ripreso in volto, l’ex capitano Ultimo difende il lavoro suo e dei suoi uomini: «Abbiamo sempre riferito ai magistrati delegati ciò che dovevamo riferire. È incredibile anche solo pensare che uomini del Ros abbiano avuto rapporti con uomini di Provenzano. Ci sono carabinieri che hanno sacrificato la vita per le nostre indagini, capito? Noi abbiamo lavorato per il popolo e la giustizia, e il generale Mori ha sempre combattuto con noi. Era uno di noi, con lui non ci sono mai stati contrasti».
L’ufficiale nega il ritardato arresto del mafioso Farinella: «L’abbiamo preso appena avemmo la sicurezza che fosse lui. Solo dopo ci siamo resi conto che in passato l’avevamo già visto, ma senza riconoscerlo». E quando l’avvocato Basilio Milio, difensore di Mori, gli chiede se è vero che, come riferito dal figlio Massimo, l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino diede indicazioni sulla zona in cui si nascondeva Totò Riina, risponde sicuro e un po’ stizzito: «E falso».
Giovanni Bianconi
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