Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
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Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
http://www.ilgiornale.it/interni/quegli_intrecci_mafia_e_pd_che_santoro__c_non_raccontano/25-10-2010/articolo-id=482385-page=0-comments=1
http://www.ilgiornale.it/interni/finocchiaro_vs_forleo_anche_sinistra_querela_magistrati/25-10-2010/articolo-id=482386-page=0-comments=1
http://www.ilgiornale.it/interni/dai_pm_antimafia_saviano/25-10-2010/articolo-id=482393-page=0-comments=1 V. Sgarbi
http://www.ilgiornale.it/interni/finocchiaro_vs_forleo_anche_sinistra_querela_magistrati/25-10-2010/articolo-id=482386-page=0-comments=1
http://www.ilgiornale.it/interni/dai_pm_antimafia_saviano/25-10-2010/articolo-id=482393-page=0-comments=1 V. Sgarbi
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
[L'Occidentale]
L'ultima parola alla Cassazione
Salvare Dell'Utri per salvare lo Stato di diritto
di Andrea Bellantone
20 Novembre 2010
Marcello Dell'Utri, ormai tutta l'Italia dovrebbe averlo capito, è un gentiluomo. Ma questa è e resta un'opinione personale, su cui è difficile svolgere un dibattito pubblico. Mi piace tuttavia iniziare cominciare questa riflessione a partire da un'attestazione di stima e considerazione verso un uomo che - per evidenti ragioni di ordine politico - è oggi perseguitato da una congiura giudiziaria. Con questo non intendo fare di Marcello Dell'Utri un eroe o un martire: è solo un cittadino come tutti gli altri, la cui vicenda diventa facilmente il paradigma di quanto rischioso sia stato (e sarà?) opporsi alla marcia trionfale della sinistra italiana verso il potere.
Sul piano del dibattito pubblico, dobbiamo tuttavia attenerci alle sentenze, a ciò che di oggettivo la magistratura giudicante fornisce all'opinione pubblica e al suo giudizio. Cosa dicono - in sostanza - le motivazioni della sentenza contro Marcello Dell'Utri? La lettura delle motivazioni della sentenza svelano con chiarezza che il suo rapporto con la malavita organizzata - se c'è stato - è stato frutto indiretto dei suoi tentativi di proteggere la famiglia Berlusconi dalla violenza, dalla minaccia di rapimenti, dall'invadenza della mafia nei progetti imprenditoriali di Fininvest. La verità dell'Italia di quegli anni era anche questa: dello Stato non ci si poteva fidare, per difendersi dalla violenza occorreva trovare degli spazi di convivenza e mediazione. Una verità probabilmente tremenda, ma con la quale occorre fare i conti. Dopo il 1992, secondo la sentenza, Dell'Utri interruppe i suoi rapporti indiretti con la criminalità, perché ormai divenne chiaro a tutti che con Cosa Nostra non si poteva più patteggiare.
In un paese con una legislazione normale, Dell'Utri sarebbe forse accusato di avere ceduto al ricatto della mafia, di avere commesso un errore morale, non certo un crimine. La sua posizione sarebbe insomma quella di una vittima che non ha denunciato e ha cercato di salvarsi con le proprie mani più che quella di un criminale. Ci sarebbero forse dei rimproveri da muovergli, la sua posizione come uomo politico potrebbe essere legittimamente messa in discussione, ma non ci sarebbero gli estremi per accusarlo di avere commesso dei crimini penali. Non più dei tanti imprenditori taglieggiati attraverso il pizzo, che certo non possono essere incriminati come sodali della mafia. Per Dell'Utri, tuttavia, è giunta una condanna a sette anni di reclusione, in virtù di un reato - quello di concorso esterno in associazione mafiosa - che costituisce un vero aborto giudirico, almeno in mancanza di una chiara e solida capacità dei magistrati di limitarne oggettivamente la portata. E i magistrati italiani non sempre dimostrano questa capacità di giudizio.
Dalla sentenza contro Dell'Utri - cosa ben diversa da una sentenza per la giustizia - emerge un fatto chiaro: secondo i giudici sarebbe accertato che Dell'Utri diede 50 milioni di lire l'anno a Cosa Nostra per mantenere incolume la famiglia Berlusconi da rapimenti e violenze. Da qui la magistratura passa - con un salto logico degno di un triplo salto mortale - all'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. In sostanza, la vittima, avendo tentato di mediare con il suo carnefice, si tramuta d'un tratto in complice. Nel famigerato paese normale - e l'Italia non lo è - una simile sciocchezza sarebbe denunciata da tutta l'informazione libera e l'opinione pubblica si sarebbe ampiamente sollevata contro una bestialità tale da compromettere i principi fondamentali dello stato di diritto.
Ma nella sentenza c'è di più, molto di più. Di fatto, il dispositivo storico e argomentativo messo in campo dai giudici mostra come tutte le famigerate accuse contro il senatore e Silvio Berlusconi - mosse da personaggi squalificati e senza alcuna credibilità - a proposito di un cointeresse di Cosa Nostra nella nascita di Forza Italia sono delle semplici baggianate. Di fronte a questa dichiarazione, gli apostoli e i catecumeni del giustizialismo all'italiana, che per anni hanno pontificato con le loro sciocchezze, dovrebbero compiere un atto di pubblica scusa. Invece vige il silenzio assoluto, come se niente fosse accaduto, come se tutte le più strambe teorie messe in piedi dalla macchina del fango in questi anni fossero ancora verità vera, verità certificata.
Marcello Dell'Utri, si appresta ora ad affrontare il giudizio della Cassazione. Nel suo processo, fondato su dichiarazioni di pentiti, in cui il riscontro oggettivo è assente, si è incarnato il peggio della tradizione giustizialista italiana. Un'inchiesta fondata su sbuffi di fango si è tramutata in una sentenza stirata, che sarà probabilmente cassata a breve dalla suprema corte. Ma quel che appare chiaro è che si tratta di una vicenda in cui si concentra in modo assoluto tutto il male - giuridico, giornalistico e politico - di quest'Italia contemporanea. Un male da cui dobbiamo ancora liberarci.
L'ultima parola alla Cassazione
Salvare Dell'Utri per salvare lo Stato di diritto
di Andrea Bellantone
20 Novembre 2010
Marcello Dell'Utri, ormai tutta l'Italia dovrebbe averlo capito, è un gentiluomo. Ma questa è e resta un'opinione personale, su cui è difficile svolgere un dibattito pubblico. Mi piace tuttavia iniziare cominciare questa riflessione a partire da un'attestazione di stima e considerazione verso un uomo che - per evidenti ragioni di ordine politico - è oggi perseguitato da una congiura giudiziaria. Con questo non intendo fare di Marcello Dell'Utri un eroe o un martire: è solo un cittadino come tutti gli altri, la cui vicenda diventa facilmente il paradigma di quanto rischioso sia stato (e sarà?) opporsi alla marcia trionfale della sinistra italiana verso il potere.
Sul piano del dibattito pubblico, dobbiamo tuttavia attenerci alle sentenze, a ciò che di oggettivo la magistratura giudicante fornisce all'opinione pubblica e al suo giudizio. Cosa dicono - in sostanza - le motivazioni della sentenza contro Marcello Dell'Utri? La lettura delle motivazioni della sentenza svelano con chiarezza che il suo rapporto con la malavita organizzata - se c'è stato - è stato frutto indiretto dei suoi tentativi di proteggere la famiglia Berlusconi dalla violenza, dalla minaccia di rapimenti, dall'invadenza della mafia nei progetti imprenditoriali di Fininvest. La verità dell'Italia di quegli anni era anche questa: dello Stato non ci si poteva fidare, per difendersi dalla violenza occorreva trovare degli spazi di convivenza e mediazione. Una verità probabilmente tremenda, ma con la quale occorre fare i conti. Dopo il 1992, secondo la sentenza, Dell'Utri interruppe i suoi rapporti indiretti con la criminalità, perché ormai divenne chiaro a tutti che con Cosa Nostra non si poteva più patteggiare.
In un paese con una legislazione normale, Dell'Utri sarebbe forse accusato di avere ceduto al ricatto della mafia, di avere commesso un errore morale, non certo un crimine. La sua posizione sarebbe insomma quella di una vittima che non ha denunciato e ha cercato di salvarsi con le proprie mani più che quella di un criminale. Ci sarebbero forse dei rimproveri da muovergli, la sua posizione come uomo politico potrebbe essere legittimamente messa in discussione, ma non ci sarebbero gli estremi per accusarlo di avere commesso dei crimini penali. Non più dei tanti imprenditori taglieggiati attraverso il pizzo, che certo non possono essere incriminati come sodali della mafia. Per Dell'Utri, tuttavia, è giunta una condanna a sette anni di reclusione, in virtù di un reato - quello di concorso esterno in associazione mafiosa - che costituisce un vero aborto giudirico, almeno in mancanza di una chiara e solida capacità dei magistrati di limitarne oggettivamente la portata. E i magistrati italiani non sempre dimostrano questa capacità di giudizio.
Dalla sentenza contro Dell'Utri - cosa ben diversa da una sentenza per la giustizia - emerge un fatto chiaro: secondo i giudici sarebbe accertato che Dell'Utri diede 50 milioni di lire l'anno a Cosa Nostra per mantenere incolume la famiglia Berlusconi da rapimenti e violenze. Da qui la magistratura passa - con un salto logico degno di un triplo salto mortale - all'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. In sostanza, la vittima, avendo tentato di mediare con il suo carnefice, si tramuta d'un tratto in complice. Nel famigerato paese normale - e l'Italia non lo è - una simile sciocchezza sarebbe denunciata da tutta l'informazione libera e l'opinione pubblica si sarebbe ampiamente sollevata contro una bestialità tale da compromettere i principi fondamentali dello stato di diritto.
Ma nella sentenza c'è di più, molto di più. Di fatto, il dispositivo storico e argomentativo messo in campo dai giudici mostra come tutte le famigerate accuse contro il senatore e Silvio Berlusconi - mosse da personaggi squalificati e senza alcuna credibilità - a proposito di un cointeresse di Cosa Nostra nella nascita di Forza Italia sono delle semplici baggianate. Di fronte a questa dichiarazione, gli apostoli e i catecumeni del giustizialismo all'italiana, che per anni hanno pontificato con le loro sciocchezze, dovrebbero compiere un atto di pubblica scusa. Invece vige il silenzio assoluto, come se niente fosse accaduto, come se tutte le più strambe teorie messe in piedi dalla macchina del fango in questi anni fossero ancora verità vera, verità certificata.
Marcello Dell'Utri, si appresta ora ad affrontare il giudizio della Cassazione. Nel suo processo, fondato su dichiarazioni di pentiti, in cui il riscontro oggettivo è assente, si è incarnato il peggio della tradizione giustizialista italiana. Un'inchiesta fondata su sbuffi di fango si è tramutata in una sentenza stirata, che sarà probabilmente cassata a breve dalla suprema corte. Ma quel che appare chiaro è che si tratta di una vicenda in cui si concentra in modo assoluto tutto il male - giuridico, giornalistico e politico - di quest'Italia contemporanea. Un male da cui dobbiamo ancora liberarci.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
All'uscita del "suo" libro, Gomorra, ci fu una seria polemica, anche se tutto il gotha della sinistra libraria e giornalistica schierata a sostegno, fece in modo che sparisse letteralmente dalle prime pagine dei quotidiani e da qualsiasi altro strumento della "libera stampa e informazione", perchè un giornalista meridionale diceva a gran voce che la maggior parte di quanto scritto su quel libro era stato da Saviano "rubato e ricopiato" da una serie di articoli che quel giornalista aveva scritto, lui sì con la preoccupazione delle minacce ricevute, avendo fatto i necessari riscontri per scriverli, direttamente sui territori dove "gomorra" era vivente e sempre più cresciuta anche grazie ad una serie di connivenze e convivenze di un ceto politico che da almeno 15 anni imperava da quelle parti.
Leggendo ciò che Zurlo scrive, dopo i monologhi di Saviano da Fazio, sembra che ancora una volta si confermi almeno una delle valutazioni che si potevano fare dopo le denunce di quel giornalista : dà ancora i numeri, male ma li dà, forse convinto che sia sufficiente ( l'auditel lo premia, come la vendita del libro ), ma prima o poi, dal pero cadrà come i frutti quando sono "maturi" o come i "cachi quando marciscono prima del tempo".
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mercoledì 24 novembre 2010, 09:08
Ma quale Everest, Saviano dà i numeridi Stefano Zurlo
I monologhi di Saviano. I numeri di Saviano. Saviano che dà i numeri. Parla della camorra, lo scrittore, e del business dei rifiuti che ormai ha soppiantato il narcotraffico, e mitraglia di cifre i telespettatori che a milioni lo ascoltano. Difficile non perdersi in quella foresta di dati, cupi e paradossali, ma se solo se ci si ferma un attimo a riflettere si scoprono altri paradossi. Insuperabili. Il ragionamento dello scrittore qualche volta inciampa e va a sbattere contro la realtà. Nessuno vuole negare la drammaticità dei temi sollevati, ma il troppo zelo va a braccetto con la fantascienza. Così, con un’avventurosa progressione, l’autore di Gomorra ci informa che a Pianura sono stati «sversati» veleni di ogni tipo, veleni dai nomi sinistri, veleni che sembrano draghi. Ma quel che conta, Saviano ci spiega che solo fra l’88 e il ’91 dall’Acna di Cengio sono arrivati a Pianura un miliardo e 300 milioni di metri cubi di fanghi; più spiccioli di schifezze varie - sali sodici, fanghi velenosi a base di cianuro, diossine, derivati dell’ammoniaca e altro ancora - per ulteriori 4 milioni circa di rifuti tossici. Numeri ribaditi ieri su Repubblica. Numeri che danno un totale di un miliardo e 304 milioni di tonnellate.
Se si prova a tradurre queste astrazioni, se le si rapporta alla realtà, si arriva a risultati incredibili. In sostanza dovremmo immaginare circa trentamila tir al giorno che fanno su e giù per la penisola, dalla provincia di Savona a quella di Napoli. Dalla Liguria alla Campania. Ora, se solo attribuiamo al tir una lunghezza di dieci metri, dobbiamo simulare una coda quotidiana di quasi trecento chilometri. Trecento chilometri di tir per portare i rifiuti dell’Acna. Trecento chilometri di camion in fila indiana. Trecento chilometri di rifiuti in marcia ogni 24 ore, 365 giorni all’anno per tre anni sull’autostrada della pattumiera. Troppo. Per intenderci, la distanza che separa Firenze da Milano. Insomma, i numeri, suggestivi fin che si vuole, sono numeri dell’irrealtà. Non stanno né in cielo né in terra né, è il caso di dire, sottoterra.
Certo, Saviano non è un matematico e alla vis polemica del saggista si può perdonare qualche svarione. Però è bene segnalare che le cifre non sempre sono le tavole della legge. Qualche volta assomigliano maledettamente a ballon d’essai in volo sulla nostra credulità. Così, proprio l’ouverture del monologo ci porta in alto. Sempre più in alto. Alla vertiginosa quota di 15.600 metri. Quasi il doppio dell’Everest, che non raggiunge i novemila, per non parlare del monte Bianco, al confronto un nano, incatenato ai suoi 4800 metri. Che cosa è questa montagna che sale, sale, sale oltre le nuvole? Ovvio, è l’immondizia accumulata in Campania dalle organizzazioni criminali. Solo che Saviano fa poggiare il suo super Everest su una base di 3 ettari. L’equivalente di sei campi da calcio. Perché tre ettari? Risposta: perché gli viene comodo. Saviano disegna un gigante che poggia sulle zampine di una formica. Impossibile quasi da immaginare.
Insomma, a furia di contare e mettere in fila ecoballe, lo scrittore compone il suo ecomostro. Perché a voler essere realisti, e dare all’Everest la base dell’Everest, almeno 1.200 chilometri quadrati, la montagna di Saviano si fermerebbe a quota 25 centimetri.
Venticinque centimetri. La vetta più bassa del mondo. E soprattutto la meno televisiva dell’universo. Comunque, è questione di gusti. Basta scegliere. A voler restringere ulteriormente la base, da 30mila a 1 metro quadro, Saviano porterebbe i rifiuti fin sulla luna. Dando loro una dimensione non solo planetaria, ma addirittura spaziale. Basta intendersi. Con i numeri si può andare ovunque. Perfino nel ridicolo. Il territorio meno adatto per un problema che è tragico.
Leggendo ciò che Zurlo scrive, dopo i monologhi di Saviano da Fazio, sembra che ancora una volta si confermi almeno una delle valutazioni che si potevano fare dopo le denunce di quel giornalista : dà ancora i numeri, male ma li dà, forse convinto che sia sufficiente ( l'auditel lo premia, come la vendita del libro ), ma prima o poi, dal pero cadrà come i frutti quando sono "maturi" o come i "cachi quando marciscono prima del tempo".
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mercoledì 24 novembre 2010, 09:08
Ma quale Everest, Saviano dà i numeridi Stefano Zurlo
I monologhi di Saviano. I numeri di Saviano. Saviano che dà i numeri. Parla della camorra, lo scrittore, e del business dei rifiuti che ormai ha soppiantato il narcotraffico, e mitraglia di cifre i telespettatori che a milioni lo ascoltano. Difficile non perdersi in quella foresta di dati, cupi e paradossali, ma se solo se ci si ferma un attimo a riflettere si scoprono altri paradossi. Insuperabili. Il ragionamento dello scrittore qualche volta inciampa e va a sbattere contro la realtà. Nessuno vuole negare la drammaticità dei temi sollevati, ma il troppo zelo va a braccetto con la fantascienza. Così, con un’avventurosa progressione, l’autore di Gomorra ci informa che a Pianura sono stati «sversati» veleni di ogni tipo, veleni dai nomi sinistri, veleni che sembrano draghi. Ma quel che conta, Saviano ci spiega che solo fra l’88 e il ’91 dall’Acna di Cengio sono arrivati a Pianura un miliardo e 300 milioni di metri cubi di fanghi; più spiccioli di schifezze varie - sali sodici, fanghi velenosi a base di cianuro, diossine, derivati dell’ammoniaca e altro ancora - per ulteriori 4 milioni circa di rifuti tossici. Numeri ribaditi ieri su Repubblica. Numeri che danno un totale di un miliardo e 304 milioni di tonnellate.
Se si prova a tradurre queste astrazioni, se le si rapporta alla realtà, si arriva a risultati incredibili. In sostanza dovremmo immaginare circa trentamila tir al giorno che fanno su e giù per la penisola, dalla provincia di Savona a quella di Napoli. Dalla Liguria alla Campania. Ora, se solo attribuiamo al tir una lunghezza di dieci metri, dobbiamo simulare una coda quotidiana di quasi trecento chilometri. Trecento chilometri di tir per portare i rifiuti dell’Acna. Trecento chilometri di camion in fila indiana. Trecento chilometri di rifiuti in marcia ogni 24 ore, 365 giorni all’anno per tre anni sull’autostrada della pattumiera. Troppo. Per intenderci, la distanza che separa Firenze da Milano. Insomma, i numeri, suggestivi fin che si vuole, sono numeri dell’irrealtà. Non stanno né in cielo né in terra né, è il caso di dire, sottoterra.
Certo, Saviano non è un matematico e alla vis polemica del saggista si può perdonare qualche svarione. Però è bene segnalare che le cifre non sempre sono le tavole della legge. Qualche volta assomigliano maledettamente a ballon d’essai in volo sulla nostra credulità. Così, proprio l’ouverture del monologo ci porta in alto. Sempre più in alto. Alla vertiginosa quota di 15.600 metri. Quasi il doppio dell’Everest, che non raggiunge i novemila, per non parlare del monte Bianco, al confronto un nano, incatenato ai suoi 4800 metri. Che cosa è questa montagna che sale, sale, sale oltre le nuvole? Ovvio, è l’immondizia accumulata in Campania dalle organizzazioni criminali. Solo che Saviano fa poggiare il suo super Everest su una base di 3 ettari. L’equivalente di sei campi da calcio. Perché tre ettari? Risposta: perché gli viene comodo. Saviano disegna un gigante che poggia sulle zampine di una formica. Impossibile quasi da immaginare.
Insomma, a furia di contare e mettere in fila ecoballe, lo scrittore compone il suo ecomostro. Perché a voler essere realisti, e dare all’Everest la base dell’Everest, almeno 1.200 chilometri quadrati, la montagna di Saviano si fermerebbe a quota 25 centimetri.
Venticinque centimetri. La vetta più bassa del mondo. E soprattutto la meno televisiva dell’universo. Comunque, è questione di gusti. Basta scegliere. A voler restringere ulteriormente la base, da 30mila a 1 metro quadro, Saviano porterebbe i rifiuti fin sulla luna. Dando loro una dimensione non solo planetaria, ma addirittura spaziale. Basta intendersi. Con i numeri si può andare ovunque. Perfino nel ridicolo. Il territorio meno adatto per un problema che è tragico.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
Saviano, l’ultimo avvelenatore del Sud
Scritto da Aldo Reggiani
mercoledì 24 novembre 2010
Sul contenuto dell' editoriale di Vittorio Macioce del 23, c.m. per il Giornale, “Per Saviano il nord è spazzatura”, posso solo dire che sono d’accordo: quando ho provato a seguire il l'ultimo sermone del novello telepredicatore, dopo cinque minuti di vecchio e stantio “Lamento d’Ignazio” ho cambiato canale.
Ma vi è di più da dire riguardo la faccenda dei rifiuti tossici. Per merito di organizzazioni malavitose quali la Camorra, rinomato prodotto DOC da esportazione, come la mozzarella di bufala, della terra di Saviano, e/o di consorelle quali la N’drangheta, anche vaste aree del Nord risultano avvelenate da rifiuti tossici, quelli che, è bene ricordare, arrivano in Campania anche da aree industriali a sud di Napoli.
E ora ci si deve dare da fare per ripulirle, senza piagnistei.
Per quanto riguarda invece il il Lamento d'Ignazio sul povero Sud conquistato, stuprato da “conquistadores” (“tragidiari” da sempre portato a scusa delle inefficienze meridionali) durante i secoli seguenti la caduta dell’Impero Romano, come spesso ho udito dalle parti della Trinacria e di San Gennaro, andrebbe chiarito che le prime ad esser ferocemente “impalate” dai barbari, furono le popolazioni del Nord, visto che i barbari calavano dalle Alpi.
Ma esse, evidentemente, non hanno poi passato il loro tempo a piangere sul rio destino, bensì si sono rimboccate le maniche ed hanno magari realizzato meraviglie quali Venezia.
Macioce, infatti, giustamente osserva che se non ci pensano le popolazioni e i loro rappresentanti a presidiare il proprio territorio acciocché non venga violentato, non si sa chi ci deve pensare.
Esatto.
Ma il problema di una società più che altrove permeata da quell’«esistente socio - politico, fatto di corruzione, clientele ed endemico parassitismo» (come da sempre denunciano meridionalisti di tutto rispetto), vero veleno della società meridionale, risale ad almeno due millenni e mezzo addietro.
Secondo quanto riporta Tucidide, infatti, già Alcibiade incoraggiava gli Ateniesi a partire per la conquista di Siracusa e della Sicilia dicendo: «Quelle città sono, sì, popolose, ma di masse eterogenee; cambiano facilmente statuti e se ne danno sempre nuovi. Perciò lì nessuno si comporta come farebbe in una sua patria: di avere armi per la sua persona non si preoccupa né che il paese abbia attrezzature convenienti. Ciascuno con quel che riesce ad ottenere dalla comunità o mediante parole o mediante atti di forza si fa la sua parte, disposto poi, se non gli riesce, a trasferirsi in un altro paese. Non è dunque verosimile che un siffatto coacervo si possa con la parola fare obbediente e unanime o compatto all’azione; ciascuno di essi non mette tempo a voltarsi verso chi gli parli secondo il suo gusto, soprattutto se, come veniamo a sapere, sono divisi in fazioni e si contrastano tra loro». (Traduzione di Luigi Polacco, Edizioni Flaccavento, Siracusa).
(Il bailamme che sta succedendo nella politica siciliana, ad esempio, e i litigi da cortile tra vajasse e gentildonne napoletane ne sono la conferma)
Ventiquattro secoli dopo, lo stesso Giustino Fortunato, che non veniva da Treviso o da Lodi, confidava a Indro Montanelli che il problema del Meridione non è altro che il problema dei meridionali: a risolverlo non servono i politici, servirebbero dei missionari.
Laonde si evince che le pietistiche ed autoassolventi teleprediche del Saviano, costituiscono l’ennesimo veleno, l’ennesima morfina propinata a coloro che, invece, al Sud (e cominciano ad esser molti) stanno cercando di svegliarsi e di prendere in mano il proprio destino. Ben più letali dei rifiuti tossici materiali.
Ma c’è speranza.
Il “missionario” Maroni ha raccontato che a Caserta, laddove si reca spesso e volentieri per coordinare le operazioni anticamorra, è stato avvicinato da un imprenditore del luogo che gli ha detto che finalmente, con questo Governo, si sente la presenza dello Stato e che quindi lui stava ritornando ad investire volentieri nella sua città.
Questo piccolo episodio, più di tutti, è il segno inequivocabile di una verace inversione di tendenza.
Cosa che, strano caso, il Reverendo Saviano e Monsignor Fazio si guardano bene dal segnalare al loro popolo di fedeli.
Scritto da Aldo Reggiani
mercoledì 24 novembre 2010
Sul contenuto dell' editoriale di Vittorio Macioce del 23, c.m. per il Giornale, “Per Saviano il nord è spazzatura”, posso solo dire che sono d’accordo: quando ho provato a seguire il l'ultimo sermone del novello telepredicatore, dopo cinque minuti di vecchio e stantio “Lamento d’Ignazio” ho cambiato canale.
Ma vi è di più da dire riguardo la faccenda dei rifiuti tossici. Per merito di organizzazioni malavitose quali la Camorra, rinomato prodotto DOC da esportazione, come la mozzarella di bufala, della terra di Saviano, e/o di consorelle quali la N’drangheta, anche vaste aree del Nord risultano avvelenate da rifiuti tossici, quelli che, è bene ricordare, arrivano in Campania anche da aree industriali a sud di Napoli.
E ora ci si deve dare da fare per ripulirle, senza piagnistei.
Per quanto riguarda invece il il Lamento d'Ignazio sul povero Sud conquistato, stuprato da “conquistadores” (“tragidiari” da sempre portato a scusa delle inefficienze meridionali) durante i secoli seguenti la caduta dell’Impero Romano, come spesso ho udito dalle parti della Trinacria e di San Gennaro, andrebbe chiarito che le prime ad esser ferocemente “impalate” dai barbari, furono le popolazioni del Nord, visto che i barbari calavano dalle Alpi.
Ma esse, evidentemente, non hanno poi passato il loro tempo a piangere sul rio destino, bensì si sono rimboccate le maniche ed hanno magari realizzato meraviglie quali Venezia.
Macioce, infatti, giustamente osserva che se non ci pensano le popolazioni e i loro rappresentanti a presidiare il proprio territorio acciocché non venga violentato, non si sa chi ci deve pensare.
Esatto.
Ma il problema di una società più che altrove permeata da quell’«esistente socio - politico, fatto di corruzione, clientele ed endemico parassitismo» (come da sempre denunciano meridionalisti di tutto rispetto), vero veleno della società meridionale, risale ad almeno due millenni e mezzo addietro.
Secondo quanto riporta Tucidide, infatti, già Alcibiade incoraggiava gli Ateniesi a partire per la conquista di Siracusa e della Sicilia dicendo: «Quelle città sono, sì, popolose, ma di masse eterogenee; cambiano facilmente statuti e se ne danno sempre nuovi. Perciò lì nessuno si comporta come farebbe in una sua patria: di avere armi per la sua persona non si preoccupa né che il paese abbia attrezzature convenienti. Ciascuno con quel che riesce ad ottenere dalla comunità o mediante parole o mediante atti di forza si fa la sua parte, disposto poi, se non gli riesce, a trasferirsi in un altro paese. Non è dunque verosimile che un siffatto coacervo si possa con la parola fare obbediente e unanime o compatto all’azione; ciascuno di essi non mette tempo a voltarsi verso chi gli parli secondo il suo gusto, soprattutto se, come veniamo a sapere, sono divisi in fazioni e si contrastano tra loro». (Traduzione di Luigi Polacco, Edizioni Flaccavento, Siracusa).
(Il bailamme che sta succedendo nella politica siciliana, ad esempio, e i litigi da cortile tra vajasse e gentildonne napoletane ne sono la conferma)
Ventiquattro secoli dopo, lo stesso Giustino Fortunato, che non veniva da Treviso o da Lodi, confidava a Indro Montanelli che il problema del Meridione non è altro che il problema dei meridionali: a risolverlo non servono i politici, servirebbero dei missionari.
Laonde si evince che le pietistiche ed autoassolventi teleprediche del Saviano, costituiscono l’ennesimo veleno, l’ennesima morfina propinata a coloro che, invece, al Sud (e cominciano ad esser molti) stanno cercando di svegliarsi e di prendere in mano il proprio destino. Ben più letali dei rifiuti tossici materiali.
Ma c’è speranza.
Il “missionario” Maroni ha raccontato che a Caserta, laddove si reca spesso e volentieri per coordinare le operazioni anticamorra, è stato avvicinato da un imprenditore del luogo che gli ha detto che finalmente, con questo Governo, si sente la presenza dello Stato e che quindi lui stava ritornando ad investire volentieri nella sua città.
Questo piccolo episodio, più di tutti, è il segno inequivocabile di una verace inversione di tendenza.
Cosa che, strano caso, il Reverendo Saviano e Monsignor Fazio si guardano bene dal segnalare al loro popolo di fedeli.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
24/11/2010, 05:30
Quello che Saviano non dice
CONTROINCHIESTA/1 Anche la Campania ha portato rifiuti in altre regioni. Lo scrittore punta il dito contro il Nord, ma non parla del circuito ecomafioso campano né delle colpe della classe politica. Berlusconi furioso con Ballarò.
IL CASO Pure Travaglio deluso
Caro direttore l’ultima puntata della trasmissione «Vieni via con me» e, in particolare, il lungo monologo di Roberto Saviano sull’emergenza rifiuti in Campania possono essere riassunti secondo questo semplice schema: Napoli sta soffocando nell’immondizia perché le discariche sono state saturate dai clan, che le hanno riempite col pattume del Nord.
A sostegno di questa tesi, che in realtà pare molto di più un assioma Saviano snocciola dieci inchieste della magistratura che, dal 1993 al 2009, hanno dimostrato la responsabilità del sistema industriale settentrionale nella crisi ambientale che, a mesi alterni, infuria alle nostre latitudini. Inchieste note a chi fa il mio mestiere, di cui i giornali si occupano da tempo e che non dicono nulla di nuovo. Inchieste che in alcuni casi (vedi Cassiopea, iniziata nel 1999 e nel 2010 ancora ferma all'udienza preliminare) sono tuttora in corso, o che - addirittura - sono state ridimensionate nell'impianto accusatorio. La "narrazione" televisiva di Saviano assomiglia molto a ciò che descrive Umberto Eco nel suo bellissimo Il Cimitero di Praga: basta prendere un po' personaggi loschi e misteriosi e farli radunare in un luogo oscuro ed ecco pronto un Complotto utile ad ogni esigenza. Il Complotto descritto da Saviano è un triangolo formato da massoni, imprenditori (possibilmente del Nord) e camorristi..
Purtroppo, la storia non è così semplice. E, forse, qualche dato in più aiuterà a completare quella parte di storia che Saviano non ha avuto modo di raccontare lunedì sera. È vero che le grandi aziende del Settentrione hanno spesso utilizzato la Campania come pattumiera, ma forse - per amore della verità e per non lasciare un alibi a quella indecente classe dirigente che ci ha governato negli ultimi venti anni - sarebbe doveroso ricordare che esiste anche un altro circuito ecomafioso che nasce e si sviluppa interamente all'interno dei confini campani. Prove? Eccole: il 21 febbraio del 1996, la polizia scopre che nella zona di Acerra sono state sversate tonnellate di resine e di altri rifiuti tossici provenienti dalle aziende della provincia di Napoli. Il 4 novembre 2005, i carabinieri si accorgono che nelle campagne dell'agro-aversano e del litorale domizio sono stati interrati i rifiuti pericolosi prodotti dagli impianti di depurazione di Capri e della penisola sorrentina, oltre che dai siti di Salerno e Acerra.
L'11 maggio 2006, la procura di Benevento indaga su 50mila tonnellate di scorie pericolose, provenienti dalle province di Avellino e Salerno, smaltite nelle campagne e nei fiumi del Sannio. Si replica il 4 luglio dello stesso anno, con un blitz dei carabinieri del Noe in provincia di Caserta, dove 4 aziende nascondevano sotto terra i fanghi dei depuratori di Licola, Orta di Atella, Marcianise e Mercato San Severino. E ancora: l'11 settembre 2007, la magistratura s'imbatte in un traffico di rifiuti di inerti e materiale di risulta e amianto e sostanze bituminose, prodotti nel Napoletano, "occultati" nei cantieri della Tav. In tutte queste operazioni, il Nord non c'entra nulla. Perché non se ne parla? Anche questi signori sono dei delinquenti e anche loro hanno contribuito ad avvelenare il nostro territorio.. Anzi, non solo il nostro, perché - sempre spulciando tra le inchieste di questi ultimi dieci anni - emerge chiaro un altro dato, di cui non si è parlato a Vieni via con me: anche dalla Campania sono partite decine, centinaia di camion carichi di rifiuti pericolosi da nascondere nelle pance delle altre regioni, vicine e lontane. Ecco un po' di esempi: in Abruzzo, tra il 1992 e il 1998, vengono denunciate 34 persone per traffico illegale di rifiuti dal Napoletano e dal Casertano; in Puglia, invece, nel blitz del 13 maggio 2002, di indagati, ce ne sono due dozzine. E non è tutto: il 23 marzo 2006, il gup di Milano condanna otto persone per traffico illecito di rifiuti dalla Campania alla Puglia, con pit-stop in Lombardia e in Emilia Romagna.
Sempre dal Napoletano, è l'inchiesta del 10 marzo 2007 a dirlo, provengono i rifiuti tossici che sono stati rivenduti e smaltiti illecitamente da tre aziende di Brescia e di Udine. E altre 100mila tonnellate di pattume campano vengono fatte ingoiare alle campagne delle Marche (inchiesta Ragnatela del 17 luglio 2007, 21 indagati a piede libero). Anche queste sono notizie. Altro dettaglio: pure al Nord ci sono discariche abusive di rifiuti tossico-nocivi. Lo dice, nel 1995, il secondo rapporto Legambiente sulle ecomafie: bubboni mefitici vengono individuati in Piemonte (Ciriè, Piossasco e Tortona) e in Lombardia (Dredano e Lacchiarella). Dire che è tutta colpa del Nord in combutta con la camorra non aiuta a capire le dimensioni del fenomeno, perché poi - alla fine - i vari Bassolino e Iervolino (di cui Bertolaso lasciò questa "meritoria" immagine, quando si ritrovò da solo nel 2007 a fronteggiare un'ondata di spazzatura sulla Campania: «Nessuno mi aiutava, Bassolino e la Iervolino si erano sfilati e io avevo solo due interlocutori: il cardinale Sepe e la Procura») sono autorizzati a sostenere di non aver avuto alcuna colpa, in tutta questa schifezza. Certo, non è colpa della camorra se la differenziata non decolla, non è colpa dei clan se il Commissariato per l'emergenza rifiuti ha bruciato due miliardi di euro, senza risolvere nulla. Forse, parlando di rifiuti, più che incolpare Sandokan o i Casalesi (che pure hanno le loro colpe, per carità...) sarebbe più utile fare riferimento alle parcelle d'oro e ai milioni a palate che sono stati distribuiti dal Commissariato per consulenze e incarichi esterni, come il super-stipendio da 413 euro al giorno corrisposto a un ragioniere non iscritto all'Albo.
Forse, sarebbe il caso di ricordare che il procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore, il 16 novembre scorso, davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulle ecomafie ha detto, a proposito dell'emergenza di queste settimane: «In questo caso non si tratta di camorra, è una inefficienza della gestione del ciclo dei rifiuti che dura ormai da venti anni». Forse, sarebbe il caso di fare qualche nome e, soprattutto, qualche cognome. (1-continua)
Simone Di Meo
24/11/2010
http://www.iltempo.it/politica/2010/11/24/1218911-quello_saviano_dice.shtml
Quello che Saviano non dice
CONTROINCHIESTA/1 Anche la Campania ha portato rifiuti in altre regioni. Lo scrittore punta il dito contro il Nord, ma non parla del circuito ecomafioso campano né delle colpe della classe politica. Berlusconi furioso con Ballarò.
IL CASO Pure Travaglio deluso
Caro direttore l’ultima puntata della trasmissione «Vieni via con me» e, in particolare, il lungo monologo di Roberto Saviano sull’emergenza rifiuti in Campania possono essere riassunti secondo questo semplice schema: Napoli sta soffocando nell’immondizia perché le discariche sono state saturate dai clan, che le hanno riempite col pattume del Nord.
A sostegno di questa tesi, che in realtà pare molto di più un assioma Saviano snocciola dieci inchieste della magistratura che, dal 1993 al 2009, hanno dimostrato la responsabilità del sistema industriale settentrionale nella crisi ambientale che, a mesi alterni, infuria alle nostre latitudini. Inchieste note a chi fa il mio mestiere, di cui i giornali si occupano da tempo e che non dicono nulla di nuovo. Inchieste che in alcuni casi (vedi Cassiopea, iniziata nel 1999 e nel 2010 ancora ferma all'udienza preliminare) sono tuttora in corso, o che - addirittura - sono state ridimensionate nell'impianto accusatorio. La "narrazione" televisiva di Saviano assomiglia molto a ciò che descrive Umberto Eco nel suo bellissimo Il Cimitero di Praga: basta prendere un po' personaggi loschi e misteriosi e farli radunare in un luogo oscuro ed ecco pronto un Complotto utile ad ogni esigenza. Il Complotto descritto da Saviano è un triangolo formato da massoni, imprenditori (possibilmente del Nord) e camorristi..
Purtroppo, la storia non è così semplice. E, forse, qualche dato in più aiuterà a completare quella parte di storia che Saviano non ha avuto modo di raccontare lunedì sera. È vero che le grandi aziende del Settentrione hanno spesso utilizzato la Campania come pattumiera, ma forse - per amore della verità e per non lasciare un alibi a quella indecente classe dirigente che ci ha governato negli ultimi venti anni - sarebbe doveroso ricordare che esiste anche un altro circuito ecomafioso che nasce e si sviluppa interamente all'interno dei confini campani. Prove? Eccole: il 21 febbraio del 1996, la polizia scopre che nella zona di Acerra sono state sversate tonnellate di resine e di altri rifiuti tossici provenienti dalle aziende della provincia di Napoli. Il 4 novembre 2005, i carabinieri si accorgono che nelle campagne dell'agro-aversano e del litorale domizio sono stati interrati i rifiuti pericolosi prodotti dagli impianti di depurazione di Capri e della penisola sorrentina, oltre che dai siti di Salerno e Acerra.
L'11 maggio 2006, la procura di Benevento indaga su 50mila tonnellate di scorie pericolose, provenienti dalle province di Avellino e Salerno, smaltite nelle campagne e nei fiumi del Sannio. Si replica il 4 luglio dello stesso anno, con un blitz dei carabinieri del Noe in provincia di Caserta, dove 4 aziende nascondevano sotto terra i fanghi dei depuratori di Licola, Orta di Atella, Marcianise e Mercato San Severino. E ancora: l'11 settembre 2007, la magistratura s'imbatte in un traffico di rifiuti di inerti e materiale di risulta e amianto e sostanze bituminose, prodotti nel Napoletano, "occultati" nei cantieri della Tav. In tutte queste operazioni, il Nord non c'entra nulla. Perché non se ne parla? Anche questi signori sono dei delinquenti e anche loro hanno contribuito ad avvelenare il nostro territorio.. Anzi, non solo il nostro, perché - sempre spulciando tra le inchieste di questi ultimi dieci anni - emerge chiaro un altro dato, di cui non si è parlato a Vieni via con me: anche dalla Campania sono partite decine, centinaia di camion carichi di rifiuti pericolosi da nascondere nelle pance delle altre regioni, vicine e lontane. Ecco un po' di esempi: in Abruzzo, tra il 1992 e il 1998, vengono denunciate 34 persone per traffico illegale di rifiuti dal Napoletano e dal Casertano; in Puglia, invece, nel blitz del 13 maggio 2002, di indagati, ce ne sono due dozzine. E non è tutto: il 23 marzo 2006, il gup di Milano condanna otto persone per traffico illecito di rifiuti dalla Campania alla Puglia, con pit-stop in Lombardia e in Emilia Romagna.
Sempre dal Napoletano, è l'inchiesta del 10 marzo 2007 a dirlo, provengono i rifiuti tossici che sono stati rivenduti e smaltiti illecitamente da tre aziende di Brescia e di Udine. E altre 100mila tonnellate di pattume campano vengono fatte ingoiare alle campagne delle Marche (inchiesta Ragnatela del 17 luglio 2007, 21 indagati a piede libero). Anche queste sono notizie. Altro dettaglio: pure al Nord ci sono discariche abusive di rifiuti tossico-nocivi. Lo dice, nel 1995, il secondo rapporto Legambiente sulle ecomafie: bubboni mefitici vengono individuati in Piemonte (Ciriè, Piossasco e Tortona) e in Lombardia (Dredano e Lacchiarella). Dire che è tutta colpa del Nord in combutta con la camorra non aiuta a capire le dimensioni del fenomeno, perché poi - alla fine - i vari Bassolino e Iervolino (di cui Bertolaso lasciò questa "meritoria" immagine, quando si ritrovò da solo nel 2007 a fronteggiare un'ondata di spazzatura sulla Campania: «Nessuno mi aiutava, Bassolino e la Iervolino si erano sfilati e io avevo solo due interlocutori: il cardinale Sepe e la Procura») sono autorizzati a sostenere di non aver avuto alcuna colpa, in tutta questa schifezza. Certo, non è colpa della camorra se la differenziata non decolla, non è colpa dei clan se il Commissariato per l'emergenza rifiuti ha bruciato due miliardi di euro, senza risolvere nulla. Forse, parlando di rifiuti, più che incolpare Sandokan o i Casalesi (che pure hanno le loro colpe, per carità...) sarebbe più utile fare riferimento alle parcelle d'oro e ai milioni a palate che sono stati distribuiti dal Commissariato per consulenze e incarichi esterni, come il super-stipendio da 413 euro al giorno corrisposto a un ragioniere non iscritto all'Albo.
Forse, sarebbe il caso di ricordare che il procuratore di Napoli, Giovandomenico Lepore, il 16 novembre scorso, davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulle ecomafie ha detto, a proposito dell'emergenza di queste settimane: «In questo caso non si tratta di camorra, è una inefficienza della gestione del ciclo dei rifiuti che dura ormai da venti anni». Forse, sarebbe il caso di fare qualche nome e, soprattutto, qualche cognome. (1-continua)
Simone Di Meo
24/11/2010
http://www.iltempo.it/politica/2010/11/24/1218911-quello_saviano_dice.shtml
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
25/11/2010, 05:30
Saviano scopre rifiuti di trent'anni fa
Controinchiesta/2 La leggenda della balena nella discarica. Negli anni ’80 Napoli era già invasa dai rifiuti. Ma allo scrittore non interessa.
SFOGO Caldoro: la camorra dietro l'emergenza
Caro direttore, la questione rifiuti in Campania, e su questo non si può non essere d’accordo con Roberto Saviano non è certo un'emergenza, ma –-purtroppo - una condizione di (a)normalità, che si trascina secondo la vulgata comune, cui lo stesso Saviano attinge per dare forza alla sua narrazione, da almeno sedici anni, da quando cioè è stato decretato per legge lo stato d'allarme. In realtà, senza scomodare «Il ventre di Napoli» di Matilde Serao o i racconti tardo ottocenteschi sulla Napoli umiliata dal colera e dalla sporcizia, basterebbe soffermarsi sulle poche frasi seguenti per comprendere quanto il problema igienico-sanitario, nella nostra città, sia tutt'altro che storia recente.
Flash numero 1: «La mancata consegna dei sacchetti per la raccolta della spazzatura sta causando notevoli disagi tra la cittadinanza. Molti abitanti sono costretti a gettare i rifiuti nelle strade, avvolti in carta straccia. E ciò con grave pericolo per l'igiene pubblica. Stamani, alcune strade del quartiere Chiaia - tra i più noti ed eleganti della città - sono apparsi imbrattati di cumuli di spazzatura in ogni angolo».
Flash numero 2: «Tonnellate di rifiuti solidi urbani sono rimasti abbandonati nelle strade, in seguito all'astensione dal lavoro degli addetti all'autoparco di via Gianturco. La mancata uscita degli autocarri, la notte scorsa, ha provocato in mattinata grave disagio agli abitanti del centro storico, di quelli della zona nord e della parte orientale della città. A Secondigliano, a Marianella i cumuli di rifiuti hanno raggiunto in alcuni casi il metro d'altezza. L'autoparco di via Gianturco è dotato di oltre 100 autocarri che compiono il servizio di raccolta su un'area molto vasta in serata sono aumentati i disagi perché – anche in occasione della festività di Sant'Antonio Abate, protettore degli animali – è stato appiccato il fuoco a numerosi contenitori per immondizia sulle strade cittadine e periferiche. Le fiamme, che in alcuni casi hanno raggiunto notevole altezza, hanno causato situazioni di pericolo. In una strada della periferia, i vigili del fuoco sono stati contrastati nella loro opera da gruppi di scalmanati che hanno preso a sassate, danneggiandole, alcune autobotti. La polizia ha fermato alcune persone, che ha poi rilasciato. Per la situazione venutasi a creare in città per le tonnellate di rifiuti solidi sulle strade in molti hanno telefonato ai giornali e ad altri organi di stampa e alle televisioni, chiedendo, come per il traffico, l'intervento del prefetto».
E, per concludere, flash numero 3: «Anche oggi la rimozione dei rifiuti a Napoli procede a rilento a causa dell'alto numero di automezzi, circa duecento, fermi per guasti meccanici. I contenitori, posti in tutte le strade di Napoli, sono ancora per la maggior parte pieni di spazzatura». Sembra la descrizione della città oggi, o una settimana fa. Al più, potrebbe sembrare la descrizione della città di sedici anni fa, quando è esplosa l'emergenza immondizia a Napoli. In realtà, si tratta di tre stralci di altrettanti articoli, pubblicati dai quotidiani partenopei, rispettivamente il 19 febbraio 1981, il 17 gennaio 1982 e il 4 marzo 1984. Occhio e croce, almeno trent'anni fa. Ieri come oggi, nulla è cambiato. Dunque, questo che cosa significa? Che l'affaire rifiuti ha radice antiche e profonde, di cui la camorra è soltanto uno degli aspetti deteriori e, sicuramente, tra i più pericolosi. Se in Campania siamo arrivati a coprirci di spazzatura e di vergogna, davanti al mondo intero, è perché chi doveva controllare, chi doveva programmare, chi doveva gestire, chi doveva assicurare la funzionalità dei meccanismi non l'ha fatto. Per dolo, o per colpa. Poi, è arrivata la camorra. Poi, il crimine organizzato è subentrato, insinuandosi nei sinuosi e peccaminosi risvolti della burocrazia e dell'amministrazione pubblica che, con la Bestia, sono scese a patti. Ma se non si distingue, nettamente, la responsabilità politica da quella dei tagliagole della camorra, allora non si va lontano. O si rischia, al più, di generare confusione, anche se in buonafede. Certo, fa bene Saviano a parlare dell'ecomafia casertana davanti a milioni di telespettatori e nei suoi splendidi reportage su la Repubblica e L'Espresso, ma la contaminazione tra verità storica e giudiziaria e fascinazione letteraria, in una materia così delicata, con tutti i risvolti di ordine pubblico e sicurezza che ne derivano, rischia di generare atmosfere immaginifiche che non hanno alcuna aderenza con la realtà. Penso, ad esempio, a quando lo scrittore cita - e lo fa con una certa frequenza - la leggenda che vorrebbe la carcassa di una balena sepolta nella discarica di Pianura, un quartiere della periferia di Napoli.
I toni che usa Saviano sono davvero molto suggestivi e sembra quasi di vederlo questo novello Capitano Achab che, in una fetida bettola del porto, contatta camorristi e faccendieri perché facciano sparire quella montagna di grasso e di carne putrescente, rimasta impigliata in una rete da pesca, che ondeggia - cullata dalla marea - al largo del golfo di Napoli. Ma come, ci si chiede alla fine della storia, a Napoli pure le balene finiscono nelle discariche? E se ci finisce Moby Dick figuriamoci cos'altro nasconde lo stomaco di madre natura, in quelle zone... La vicenda - a ben vedere - è un po' meno fantasiosa, ma non per questo meno drammatica di come la racconta Saviano: c'è davvero una balena nella discarica di Pianura.
Non è una leggenda, né un racconto passato di bocca in bocca tra gli abitanti del quartiere, come si faceva tra gli indiani d'America. Il cetaceo - lungo 7 metri e pesante otto tonnellate, arenatosi al largo dell'isola di Ischia - viene interrato nel sito perché l'operazione la autorizza l'allora assessore comunale alla Sanità, Giuseppe Scalera. L'ordinanza municipale è del 17 luglio 1989. E, a quell'epoca, questa soluzione la condividono Comune, Regione e Prefettura. La domanda, allora, non è: davvero c'è una balena nella discarica? Ma: perché c'è una balena nella discarica?
Simone Di Meo
25/11/2010
http://www..iltempo.it/politica/2010/11/25/1219199-saviano_scopre_rifiuti_anni.shtml
Saviano scopre rifiuti di trent'anni fa
Controinchiesta/2 La leggenda della balena nella discarica. Negli anni ’80 Napoli era già invasa dai rifiuti. Ma allo scrittore non interessa.
SFOGO Caldoro: la camorra dietro l'emergenza
Caro direttore, la questione rifiuti in Campania, e su questo non si può non essere d’accordo con Roberto Saviano non è certo un'emergenza, ma –-purtroppo - una condizione di (a)normalità, che si trascina secondo la vulgata comune, cui lo stesso Saviano attinge per dare forza alla sua narrazione, da almeno sedici anni, da quando cioè è stato decretato per legge lo stato d'allarme. In realtà, senza scomodare «Il ventre di Napoli» di Matilde Serao o i racconti tardo ottocenteschi sulla Napoli umiliata dal colera e dalla sporcizia, basterebbe soffermarsi sulle poche frasi seguenti per comprendere quanto il problema igienico-sanitario, nella nostra città, sia tutt'altro che storia recente.
Flash numero 1: «La mancata consegna dei sacchetti per la raccolta della spazzatura sta causando notevoli disagi tra la cittadinanza. Molti abitanti sono costretti a gettare i rifiuti nelle strade, avvolti in carta straccia. E ciò con grave pericolo per l'igiene pubblica. Stamani, alcune strade del quartiere Chiaia - tra i più noti ed eleganti della città - sono apparsi imbrattati di cumuli di spazzatura in ogni angolo».
Flash numero 2: «Tonnellate di rifiuti solidi urbani sono rimasti abbandonati nelle strade, in seguito all'astensione dal lavoro degli addetti all'autoparco di via Gianturco. La mancata uscita degli autocarri, la notte scorsa, ha provocato in mattinata grave disagio agli abitanti del centro storico, di quelli della zona nord e della parte orientale della città. A Secondigliano, a Marianella i cumuli di rifiuti hanno raggiunto in alcuni casi il metro d'altezza. L'autoparco di via Gianturco è dotato di oltre 100 autocarri che compiono il servizio di raccolta su un'area molto vasta in serata sono aumentati i disagi perché – anche in occasione della festività di Sant'Antonio Abate, protettore degli animali – è stato appiccato il fuoco a numerosi contenitori per immondizia sulle strade cittadine e periferiche. Le fiamme, che in alcuni casi hanno raggiunto notevole altezza, hanno causato situazioni di pericolo. In una strada della periferia, i vigili del fuoco sono stati contrastati nella loro opera da gruppi di scalmanati che hanno preso a sassate, danneggiandole, alcune autobotti. La polizia ha fermato alcune persone, che ha poi rilasciato. Per la situazione venutasi a creare in città per le tonnellate di rifiuti solidi sulle strade in molti hanno telefonato ai giornali e ad altri organi di stampa e alle televisioni, chiedendo, come per il traffico, l'intervento del prefetto».
E, per concludere, flash numero 3: «Anche oggi la rimozione dei rifiuti a Napoli procede a rilento a causa dell'alto numero di automezzi, circa duecento, fermi per guasti meccanici. I contenitori, posti in tutte le strade di Napoli, sono ancora per la maggior parte pieni di spazzatura». Sembra la descrizione della città oggi, o una settimana fa. Al più, potrebbe sembrare la descrizione della città di sedici anni fa, quando è esplosa l'emergenza immondizia a Napoli. In realtà, si tratta di tre stralci di altrettanti articoli, pubblicati dai quotidiani partenopei, rispettivamente il 19 febbraio 1981, il 17 gennaio 1982 e il 4 marzo 1984. Occhio e croce, almeno trent'anni fa. Ieri come oggi, nulla è cambiato. Dunque, questo che cosa significa? Che l'affaire rifiuti ha radice antiche e profonde, di cui la camorra è soltanto uno degli aspetti deteriori e, sicuramente, tra i più pericolosi. Se in Campania siamo arrivati a coprirci di spazzatura e di vergogna, davanti al mondo intero, è perché chi doveva controllare, chi doveva programmare, chi doveva gestire, chi doveva assicurare la funzionalità dei meccanismi non l'ha fatto. Per dolo, o per colpa. Poi, è arrivata la camorra. Poi, il crimine organizzato è subentrato, insinuandosi nei sinuosi e peccaminosi risvolti della burocrazia e dell'amministrazione pubblica che, con la Bestia, sono scese a patti. Ma se non si distingue, nettamente, la responsabilità politica da quella dei tagliagole della camorra, allora non si va lontano. O si rischia, al più, di generare confusione, anche se in buonafede. Certo, fa bene Saviano a parlare dell'ecomafia casertana davanti a milioni di telespettatori e nei suoi splendidi reportage su la Repubblica e L'Espresso, ma la contaminazione tra verità storica e giudiziaria e fascinazione letteraria, in una materia così delicata, con tutti i risvolti di ordine pubblico e sicurezza che ne derivano, rischia di generare atmosfere immaginifiche che non hanno alcuna aderenza con la realtà. Penso, ad esempio, a quando lo scrittore cita - e lo fa con una certa frequenza - la leggenda che vorrebbe la carcassa di una balena sepolta nella discarica di Pianura, un quartiere della periferia di Napoli.
I toni che usa Saviano sono davvero molto suggestivi e sembra quasi di vederlo questo novello Capitano Achab che, in una fetida bettola del porto, contatta camorristi e faccendieri perché facciano sparire quella montagna di grasso e di carne putrescente, rimasta impigliata in una rete da pesca, che ondeggia - cullata dalla marea - al largo del golfo di Napoli. Ma come, ci si chiede alla fine della storia, a Napoli pure le balene finiscono nelle discariche? E se ci finisce Moby Dick figuriamoci cos'altro nasconde lo stomaco di madre natura, in quelle zone... La vicenda - a ben vedere - è un po' meno fantasiosa, ma non per questo meno drammatica di come la racconta Saviano: c'è davvero una balena nella discarica di Pianura.
Non è una leggenda, né un racconto passato di bocca in bocca tra gli abitanti del quartiere, come si faceva tra gli indiani d'America. Il cetaceo - lungo 7 metri e pesante otto tonnellate, arenatosi al largo dell'isola di Ischia - viene interrato nel sito perché l'operazione la autorizza l'allora assessore comunale alla Sanità, Giuseppe Scalera. L'ordinanza municipale è del 17 luglio 1989. E, a quell'epoca, questa soluzione la condividono Comune, Regione e Prefettura. La domanda, allora, non è: davvero c'è una balena nella discarica? Ma: perché c'è una balena nella discarica?
Simone Di Meo
25/11/2010
http://www..iltempo.it/politica/2010/11/25/1219199-saviano_scopre_rifiuti_anni.shtml
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Ci si mette troppo tempo per la VERITA'.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/ciampi.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Si metta d'accordo meglio con Conso : è una contraddizione.
l'inchiesta di palermo
Mancino: «Mai trattative con la mafia»
L'ex ministro dell'Interno: «In nessun momento ho deviato dalla linea della fermezza contro la criminalità»
MILANO - «Per la parte che oggi mi compete ribadisco la linea di intransigenza che ho sempre mantenuto, perchè la ritenevo e la ritengo giusta: ho contrastato politicamente ipotesi di trattativa sul caso Moro, meno che mai avrei potuto ammetterle nei confronti della malavita organizzata». Lo afferma Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno, a proposito dell'inchiesta del pm Ingroia, a Palermo, sulla presunta trattativa tra Stato e mafia all'indomani delle stragi di Cosa Nostra negli anni Novanta. «Davanti all'opinione pubblica cui devo dar conto dei miei comportamenti passati e presenti - sottolinea Mancino in una nota - desidero ribadire, come ho fatto davanti ai magistrati che mi hanno fin qui ascoltato, che mai, ripeto mai, nella mia vita politica e negli incarichi parlamentari e istituzionali che ho ricoperto, ho deviato da una linea di fermo contrasto alla criminalità organizzata nelle diverse forme in cui questa si è presentata nella storia del nostro Paese». (fonte Ansa)
26 novembre 2010
Mancino: «Mai trattative con la mafia»
L'ex ministro dell'Interno: «In nessun momento ho deviato dalla linea della fermezza contro la criminalità»
MILANO - «Per la parte che oggi mi compete ribadisco la linea di intransigenza che ho sempre mantenuto, perchè la ritenevo e la ritengo giusta: ho contrastato politicamente ipotesi di trattativa sul caso Moro, meno che mai avrei potuto ammetterle nei confronti della malavita organizzata». Lo afferma Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno, a proposito dell'inchiesta del pm Ingroia, a Palermo, sulla presunta trattativa tra Stato e mafia all'indomani delle stragi di Cosa Nostra negli anni Novanta. «Davanti all'opinione pubblica cui devo dar conto dei miei comportamenti passati e presenti - sottolinea Mancino in una nota - desidero ribadire, come ho fatto davanti ai magistrati che mi hanno fin qui ascoltato, che mai, ripeto mai, nella mia vita politica e negli incarichi parlamentari e istituzionali che ho ricoperto, ho deviato da una linea di fermo contrasto alla criminalità organizzata nelle diverse forme in cui questa si è presentata nella storia del nostro Paese». (fonte Ansa)
26 novembre 2010
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Quattro link da leggere per farsi qualche conoscenza.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/ciampi2.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/brusca.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/mafiologi.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/11/facci3.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
I magistrati: la mafia? E’ cosa nostra
lunedì 22 novembre 2010
di Mauro Mellini
Indagano alacremente. Una delle tante “inchieste storiografiche”, dalle quali deve emergere una riscrittura o una scrittura più politicamente (si fa per dire) corretta della storia.
Indagano sulle presunte “trattative” tra lo Stato e la Mafia. Un’indagine che presume l’esistenza di un indagato, destinato, potenzialmente, a divenire imputato e poi, eventualmente (eventualmente fino ad un certo punto, ché questo garantismo della presunzione di innocenza è una “trappola liberalberlusconiana”) condannato. Insomma chi è l’indagato da condannare? E’ chiaro: se la trattativa è veramente tra Stato e Mafia, non può essere che lo Stato.
Lo Stato è lo Stato. E’ la fonte del diritto. Il delitto, il crimine, l’illegittimità sono l’antistato. Questa non è statolatria. Non è visione autoritaria. E’, anzi, proprio la conseguenza dello Stato di diritto. Che è (cioè, era, finchè c’è stato) lo Stato della divisione dei poteri. Il potere legislativo non è certo vincolato dai decreti e dalle sentenze del potere giudiziario a “non legiferare” in una qualsiasi direzione. Il potere esecutivo non è certo tenuto a non trattare con chicchessia, non ha bisogno di un ”permesso di colloquio” salvo a rispondere dei danni se la sua azione conseguente alla trattativa, come ogni altra, arrechi danno a privati o altri enti in violazione della legge.
Una trattativa con la mafia, come quella di cui si parla, condotta da Mancino o da chiunque altro, in quel periodo (quello in cui la mafia diede segnali di voler passare ad un’azione terroristica con attentati a persone e cose “fuorisede”) sarebbe stata scelta sciagurata. Non la sola, non la prima né l’ultima nella conduzione della lotta alla criminalità mafiosa, piena di episodi di sconsideratezza sia per ciò che riguarda l’adozione di leggi, sia per atteggiamenti ondivaghi, episodi che vanno ad aggiungersi a quelli sconsiderati o delittuosi delle persone che conducevano (o avrebbero dovuto condurre) tale lotta e che ne profittarono per conseguire altro.
Sarebbe stata scelta sciagurata perché avrebbe messo sullo stesso piano la lotta alla mafia con la lotta al terrorismo in cui la “trattativa” (anche se non esplicita, ma nella sostanza di un “do ut des”) ci fu, con conseguenze positive nell’immediato, anche se cariche di ricadute a lungo termine di allentamento del senso della legalità e delle Istituzioni, rivelatesi nella pesante eredità del pentitismo e, poi, di tentazioni di altre soluzioni concordate, quale, appunto, sarebbe stata quella del fenomeno mafioso.
A decidere sull’interrogativo circa la sciagura che la “trattativa” con la mafia avrebbe rappresentato, c’è oggi la constatazione che la mafia, quella con la quale si sarebbe voluto (e, forse, potuto) venire a patti, non c’è più ed il fenomeno della criminalità mafiosa esiste, senza che più esista un “soggetto” mafia.
Condotta sciagurata dello Stato, dunque, e del Governo e di chiunque abbia rappresentato lo Stato (se lo abbia rappresentato e voluto rappresentare) in quegli approcci. Ma di lì alla consumazione di un reato sul quale indagare, ad una condotta da misurare con il Codice penale ce ne corre.
Lo Stato di diritto non può calpestare e non calpesta il diritto, anche se può, come ogni istituzione umana, contraddire sé stesso, anche se spesso, suo malgrado, in suo nome si tollera (e questo è il vero tradimento, non la “trattativa”) che il diritto sia ignorato e prevaricato.
Ciò vale sia per approcci, se veramente vi furono da parte di chi veramente avesse rappresentato il Governo, sia per atteggiamenti pratici diretti a facilitarli.
Se c’è una persona che raccoglie tutta l’antipatia di chi scrive, questi è certamente Mancino. Mancino che non aveva il senso dello Stato (il che non costituisce reato… per fortuna!) come dimostrò (ad esempio) quando mise a disposizione di Cordova locali del Ministero dell’Interno in Roma perché questi vi istituisse una “sezione distaccata” della Procura di Palmi assurta a Procura Nazionale Antimassoneria. Ma se quel cattivo ministro dell’Interno ritenne di venire a patti con la mafia, ritenendo, evidentemente, che lo Stato non potesse sopportare un’altra prova come quella tanto sanguinosa e dolorosa del terrorismo politico, commise solo un errore imperdonabile di valutazione. Forse la stessa trattativa produsse parte del danno che avrebbe comportato la sua conclusione positiva. Significherebbe, una simile trattativa, che nulla Mancino (ed i suoi collaboratori) aveva capito della questione.
Ma non ha commesso nessun reato.
Così, se Conso ha revocato un buon numero di provvedimenti del famigerato “41 bis” nella prospettiva di un’”apertura” a consimili trattative, non ha commesso certo reato (se reato non fu e non è il trattamento carcerario “duro” per costringere al “pentimento” cioè il contrario di quello di cui sembra oggi volerglisi fare carico).
Se tutto ciò è vero, è addirittura odioso, poi, il prendersela con sottoposti di quei ministri che abbiano seguito quella linea e quelle direttive. E non meno odioso è pure prendersela con altri, magari avvocati, che non si siano negati a raccogliere proposte ed a riferire reazioni, umori e, magari, pretese.
Francamente questo negare allo Stato il diritto di trattare e di voler incriminare chi eventualmente abbia ritenuto di poterlo e doverlo fare, richiama alla mente quel che avvenne con i “pentiti” del Fascismo e della guerra che, chiamati a votare per creare i presupposti di una uscita, magari più ambigua assai di quella che poi vi fu, dalla guerra, furono fucilati per ordine di chi intendeva misurare la “legittimità” di quel voto alla luce dell’”appartenenza” della guerra all’”alleato germanico”. Il paragone è forse colorato di tinte troppo fosche (e sanguinose), è truculento, ma è, purtroppo calzante.
Dire che Mancino o Conso o chi per loro “tradì” la causa dell’Antimafia, significa fare di questa un’entità, un’idea metagiuridica e metastatale.
Per quanto Mancino possa essere antipatico a destra e, magari, a sinistra quanto lo è a chi scrive e per quanto Conso non susciti gli entusiasmi di nessuno, credo che una classe politica che avesse un minimo di senso del suo ruolo, prima ancora che di senso dello Stato, dovrebbe chiaramente dichiarare la sua ferma opposizione a questa “giustizia storiografica”, a queste pericolose concezioni, rivendicando anche a condotte opposte a quelle da lui tenute e condivise nell’azione di governo, la legittimazione (che non è affatto condivisione).
Si dirà che troppo chi oggi è al governo (ed anche chi è all’opposizione) ha da penare per riuscire ad affermare la legittimità delle proprie condotte per poter pensare a rivendicarla per le condotte degli altri e per il passato. Ma la solidità delle funzioni di Stato è fatta anche di questo e, talvolta, soprattutto di questo. Che non è cavalleria e donchisciottismo. La politica, quella con la ‘P’ maiuscola è, si può dire, egoismo ma illuminato.
http://www.giustiziagiusta.info/
lunedì 22 novembre 2010
di Mauro Mellini
Indagano alacremente. Una delle tante “inchieste storiografiche”, dalle quali deve emergere una riscrittura o una scrittura più politicamente (si fa per dire) corretta della storia.
Indagano sulle presunte “trattative” tra lo Stato e la Mafia. Un’indagine che presume l’esistenza di un indagato, destinato, potenzialmente, a divenire imputato e poi, eventualmente (eventualmente fino ad un certo punto, ché questo garantismo della presunzione di innocenza è una “trappola liberalberlusconiana”) condannato. Insomma chi è l’indagato da condannare? E’ chiaro: se la trattativa è veramente tra Stato e Mafia, non può essere che lo Stato.
Lo Stato è lo Stato. E’ la fonte del diritto. Il delitto, il crimine, l’illegittimità sono l’antistato. Questa non è statolatria. Non è visione autoritaria. E’, anzi, proprio la conseguenza dello Stato di diritto. Che è (cioè, era, finchè c’è stato) lo Stato della divisione dei poteri. Il potere legislativo non è certo vincolato dai decreti e dalle sentenze del potere giudiziario a “non legiferare” in una qualsiasi direzione. Il potere esecutivo non è certo tenuto a non trattare con chicchessia, non ha bisogno di un ”permesso di colloquio” salvo a rispondere dei danni se la sua azione conseguente alla trattativa, come ogni altra, arrechi danno a privati o altri enti in violazione della legge.
Una trattativa con la mafia, come quella di cui si parla, condotta da Mancino o da chiunque altro, in quel periodo (quello in cui la mafia diede segnali di voler passare ad un’azione terroristica con attentati a persone e cose “fuorisede”) sarebbe stata scelta sciagurata. Non la sola, non la prima né l’ultima nella conduzione della lotta alla criminalità mafiosa, piena di episodi di sconsideratezza sia per ciò che riguarda l’adozione di leggi, sia per atteggiamenti ondivaghi, episodi che vanno ad aggiungersi a quelli sconsiderati o delittuosi delle persone che conducevano (o avrebbero dovuto condurre) tale lotta e che ne profittarono per conseguire altro.
Sarebbe stata scelta sciagurata perché avrebbe messo sullo stesso piano la lotta alla mafia con la lotta al terrorismo in cui la “trattativa” (anche se non esplicita, ma nella sostanza di un “do ut des”) ci fu, con conseguenze positive nell’immediato, anche se cariche di ricadute a lungo termine di allentamento del senso della legalità e delle Istituzioni, rivelatesi nella pesante eredità del pentitismo e, poi, di tentazioni di altre soluzioni concordate, quale, appunto, sarebbe stata quella del fenomeno mafioso.
A decidere sull’interrogativo circa la sciagura che la “trattativa” con la mafia avrebbe rappresentato, c’è oggi la constatazione che la mafia, quella con la quale si sarebbe voluto (e, forse, potuto) venire a patti, non c’è più ed il fenomeno della criminalità mafiosa esiste, senza che più esista un “soggetto” mafia.
Condotta sciagurata dello Stato, dunque, e del Governo e di chiunque abbia rappresentato lo Stato (se lo abbia rappresentato e voluto rappresentare) in quegli approcci. Ma di lì alla consumazione di un reato sul quale indagare, ad una condotta da misurare con il Codice penale ce ne corre.
Lo Stato di diritto non può calpestare e non calpesta il diritto, anche se può, come ogni istituzione umana, contraddire sé stesso, anche se spesso, suo malgrado, in suo nome si tollera (e questo è il vero tradimento, non la “trattativa”) che il diritto sia ignorato e prevaricato.
Ciò vale sia per approcci, se veramente vi furono da parte di chi veramente avesse rappresentato il Governo, sia per atteggiamenti pratici diretti a facilitarli.
Se c’è una persona che raccoglie tutta l’antipatia di chi scrive, questi è certamente Mancino. Mancino che non aveva il senso dello Stato (il che non costituisce reato… per fortuna!) come dimostrò (ad esempio) quando mise a disposizione di Cordova locali del Ministero dell’Interno in Roma perché questi vi istituisse una “sezione distaccata” della Procura di Palmi assurta a Procura Nazionale Antimassoneria. Ma se quel cattivo ministro dell’Interno ritenne di venire a patti con la mafia, ritenendo, evidentemente, che lo Stato non potesse sopportare un’altra prova come quella tanto sanguinosa e dolorosa del terrorismo politico, commise solo un errore imperdonabile di valutazione. Forse la stessa trattativa produsse parte del danno che avrebbe comportato la sua conclusione positiva. Significherebbe, una simile trattativa, che nulla Mancino (ed i suoi collaboratori) aveva capito della questione.
Ma non ha commesso nessun reato.
Così, se Conso ha revocato un buon numero di provvedimenti del famigerato “41 bis” nella prospettiva di un’”apertura” a consimili trattative, non ha commesso certo reato (se reato non fu e non è il trattamento carcerario “duro” per costringere al “pentimento” cioè il contrario di quello di cui sembra oggi volerglisi fare carico).
Se tutto ciò è vero, è addirittura odioso, poi, il prendersela con sottoposti di quei ministri che abbiano seguito quella linea e quelle direttive. E non meno odioso è pure prendersela con altri, magari avvocati, che non si siano negati a raccogliere proposte ed a riferire reazioni, umori e, magari, pretese.
Francamente questo negare allo Stato il diritto di trattare e di voler incriminare chi eventualmente abbia ritenuto di poterlo e doverlo fare, richiama alla mente quel che avvenne con i “pentiti” del Fascismo e della guerra che, chiamati a votare per creare i presupposti di una uscita, magari più ambigua assai di quella che poi vi fu, dalla guerra, furono fucilati per ordine di chi intendeva misurare la “legittimità” di quel voto alla luce dell’”appartenenza” della guerra all’”alleato germanico”. Il paragone è forse colorato di tinte troppo fosche (e sanguinose), è truculento, ma è, purtroppo calzante.
Dire che Mancino o Conso o chi per loro “tradì” la causa dell’Antimafia, significa fare di questa un’entità, un’idea metagiuridica e metastatale.
Per quanto Mancino possa essere antipatico a destra e, magari, a sinistra quanto lo è a chi scrive e per quanto Conso non susciti gli entusiasmi di nessuno, credo che una classe politica che avesse un minimo di senso del suo ruolo, prima ancora che di senso dello Stato, dovrebbe chiaramente dichiarare la sua ferma opposizione a questa “giustizia storiografica”, a queste pericolose concezioni, rivendicando anche a condotte opposte a quelle da lui tenute e condivise nell’azione di governo, la legittimazione (che non è affatto condivisione).
Si dirà che troppo chi oggi è al governo (ed anche chi è all’opposizione) ha da penare per riuscire ad affermare la legittimità delle proprie condotte per poter pensare a rivendicarla per le condotte degli altri e per il passato. Ma la solidità delle funzioni di Stato è fatta anche di questo e, talvolta, soprattutto di questo. Che non è cavalleria e donchisciottismo. La politica, quella con la ‘P’ maiuscola è, si può dire, egoismo ma illuminato.
http://www.giustiziagiusta.info/
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
Teoremi mafiosi
Ci sono dettagli che illuminano l’insieme. Notizie rimpiattate che dicono più dei titoloni urlanti. A saper leggere, però. Molti credono che l’intreccio fra mafia e politica sia una partita del passato, invece deve ancora essere giocata. Il terreno è quello del processo a Mario Mori, carabiniere, ex comandante del Ros. In quel dibattimento passerà la nostra storia recente, compreso l’atto di nascita della così detta seconda Repubblica.
Ecco alcuni dettagli. Primo: se un qualsiasi macellaio di mafia racconta di aver saputo, dal fratello del suo capo, che il cugino della cognata è stato a colloquio con lo zio di un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale gli ha detto che presto lo nominerà capo dell’Europa, la cosa finisce su tutti i giornali (ed è naturale), nonché al centro di un’indagine che dura venti anni; se, invece, un carabiniere, che arrestò Totò Riina, sostiene che le accuse di cui è fatto bersaglio sono una vendetta dei corleonesi, e dice che ascoltando il pubblico ministero sente parlare il boss mafioso, la notizia raggiunge pochissimi e viene subito dimenticata. Secondo: se lo stesso carabiniere, Ultimo, al secolo Sergio De Caprio (mi scuso per un predente errore, meramente materiale), dice che “più vedo Ingroia e più capisco la grandezza di Borsellino. Gente come lui e la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto l’antimafia”, ancora una volta finisce in due righe. Antonio Ingroia è lo stesso pm di cui sopra. Terzo: scrivendo un libro Ingroia mette in dubbio l’assoluzione di un altro carabiniere, Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino, sostenendo cose che aveva taciuto al processo, quando era stato chiamato come testimone. Anche in questo caso, non succede niente. Per giunta, Canale sarà presto sul banco dei testimoni, al processo Mori. Quarto: Mario Mori sostiene che il suo calvario giudiziario è iniziato quando la procura di Palermo affondò il rapporto “mafia-appalti”, voluto da Falcone e Borsellino. Neanche questa volta succede niente.
Sono convinto che molti non colgono la terribile gravità di tutto ciò, perché non hanno un “teorema” con cui tradurre segnali che non capiscono. E’ vero, ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera del 26 novembre), la deposizione del ministro Giovanni Conso, l’avere saputo che il carcere duro (41 bis) fu cancellato dal governo Ciampi, nel 1993, demolisce il teorema della trattativa posticipata, ma sbaglia a non accorgersi che noi lo scriviamo da anni, naturalmente silenziati e minacciati di querela. Degli schieramenti non m’importa un fico secco, ma osservo che, puntualmente, si cerca di buttarla in caciara.
Mori è sotto processo perché sarebbe stato il tramite di una trattativa. Lo sostiene Massimo Ciancimino, assieme ad un altro cumulo di corbellerie. Secondo Luciano Violante lo stesso Mori gli fece presente, quando era presidente della commissione antimafia (1992-1994), che Vito Ciancimino era pronto a collaborare. Se ne è ricordato, Violante, solo nell’agosto del 2009, precipitandosi a Palermo per raccontarlo alla procura. C’è un solo italiano disposto a credere che, nel mentre era il potente presidente della commissione antimafia, Violante non abbia saputo che ai mafiosi era stato revocato il carcere duro? Eppure tacque. Singolare, anche perché Mori ricorda le cose in modo diverso.
Ora, posto che chi chiede spiegazioni facili ha sbagliato tema, provo a fornire elementi utili per la lettura. A. Non credo alla “trattativa”, ma un canale di comunicazione ci fu. Il buon Conso può pure credere di avere deciso da solo, ma stia sicuro che, come su altre faccende, lo avrebbero sbugiardato in tempo reale se quella decisione non fosse stata condivisa. B. La guida di Violante dell’antimafia privilegiò i processi politici rispetto alle indagini sui canali di riciclaggio e il coinvolgimento d’imprese non sicule. Preferì guardare alla politica in visita a Palermo piuttosto che ai soldi mafiosi diffusi per il mondo. C. Contro questa scelta era Giovanni Falcone, che, difatti, fu combattuto da Violante e da altri esponenti della sinistra, come Elena Paciotti, esponente di Magistratura Democratica e poi segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati (infine parlamentare per il partito di Violante). Per non dire di Leoluca Orlando Cascio, che lo accusò di complicità con la mafia, cosa che ripeté del carabiniere Antonino Lombardo, che ci lasciò la vita. D. Contro fu anche Paolo Borsellino, che sollecitò le conclusioni del rapporto mafia-appalti. Tutti e due furono isolati dalla politica (compresa quella vile che non li difese), sconfitti dai magistrati e ammazzati dalla mafia. E. La mitologia successiva vuole che tutto questo non sia mai esistito, ma che la storia s’incardini solo sulle responsabilità di chi, al momento delle decisioni più rilevanti, aveva perso il potere o non lo aveva ancora avuto. F. Infine: per sostenere questa tesi dissennata, questo “teorema”, che fa a cazzotti con le date e con i fatti, si deve togliere credibilità a chi lavorò con Falcone e Borsellino.
Aprite gli occhi, perché attorno al processo Mori balla la nostra storia recente, quella che ancora dura.
Ci sono dettagli che illuminano l’insieme. Notizie rimpiattate che dicono più dei titoloni urlanti. A saper leggere, però. Molti credono che l’intreccio fra mafia e politica sia una partita del passato, invece deve ancora essere giocata. Il terreno è quello del processo a Mario Mori, carabiniere, ex comandante del Ros. In quel dibattimento passerà la nostra storia recente, compreso l’atto di nascita della così detta seconda Repubblica.
Ecco alcuni dettagli. Primo: se un qualsiasi macellaio di mafia racconta di aver saputo, dal fratello del suo capo, che il cugino della cognata è stato a colloquio con lo zio di un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale gli ha detto che presto lo nominerà capo dell’Europa, la cosa finisce su tutti i giornali (ed è naturale), nonché al centro di un’indagine che dura venti anni; se, invece, un carabiniere, che arrestò Totò Riina, sostiene che le accuse di cui è fatto bersaglio sono una vendetta dei corleonesi, e dice che ascoltando il pubblico ministero sente parlare il boss mafioso, la notizia raggiunge pochissimi e viene subito dimenticata. Secondo: se lo stesso carabiniere, Ultimo, al secolo Sergio De Caprio (mi scuso per un predente errore, meramente materiale), dice che “più vedo Ingroia e più capisco la grandezza di Borsellino. Gente come lui e la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto l’antimafia”, ancora una volta finisce in due righe. Antonio Ingroia è lo stesso pm di cui sopra. Terzo: scrivendo un libro Ingroia mette in dubbio l’assoluzione di un altro carabiniere, Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino, sostenendo cose che aveva taciuto al processo, quando era stato chiamato come testimone. Anche in questo caso, non succede niente. Per giunta, Canale sarà presto sul banco dei testimoni, al processo Mori. Quarto: Mario Mori sostiene che il suo calvario giudiziario è iniziato quando la procura di Palermo affondò il rapporto “mafia-appalti”, voluto da Falcone e Borsellino. Neanche questa volta succede niente.
Sono convinto che molti non colgono la terribile gravità di tutto ciò, perché non hanno un “teorema” con cui tradurre segnali che non capiscono. E’ vero, ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera del 26 novembre), la deposizione del ministro Giovanni Conso, l’avere saputo che il carcere duro (41 bis) fu cancellato dal governo Ciampi, nel 1993, demolisce il teorema della trattativa posticipata, ma sbaglia a non accorgersi che noi lo scriviamo da anni, naturalmente silenziati e minacciati di querela. Degli schieramenti non m’importa un fico secco, ma osservo che, puntualmente, si cerca di buttarla in caciara.
Mori è sotto processo perché sarebbe stato il tramite di una trattativa. Lo sostiene Massimo Ciancimino, assieme ad un altro cumulo di corbellerie. Secondo Luciano Violante lo stesso Mori gli fece presente, quando era presidente della commissione antimafia (1992-1994), che Vito Ciancimino era pronto a collaborare. Se ne è ricordato, Violante, solo nell’agosto del 2009, precipitandosi a Palermo per raccontarlo alla procura. C’è un solo italiano disposto a credere che, nel mentre era il potente presidente della commissione antimafia, Violante non abbia saputo che ai mafiosi era stato revocato il carcere duro? Eppure tacque. Singolare, anche perché Mori ricorda le cose in modo diverso.
Ora, posto che chi chiede spiegazioni facili ha sbagliato tema, provo a fornire elementi utili per la lettura. A. Non credo alla “trattativa”, ma un canale di comunicazione ci fu. Il buon Conso può pure credere di avere deciso da solo, ma stia sicuro che, come su altre faccende, lo avrebbero sbugiardato in tempo reale se quella decisione non fosse stata condivisa. B. La guida di Violante dell’antimafia privilegiò i processi politici rispetto alle indagini sui canali di riciclaggio e il coinvolgimento d’imprese non sicule. Preferì guardare alla politica in visita a Palermo piuttosto che ai soldi mafiosi diffusi per il mondo. C. Contro questa scelta era Giovanni Falcone, che, difatti, fu combattuto da Violante e da altri esponenti della sinistra, come Elena Paciotti, esponente di Magistratura Democratica e poi segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati (infine parlamentare per il partito di Violante). Per non dire di Leoluca Orlando Cascio, che lo accusò di complicità con la mafia, cosa che ripeté del carabiniere Antonino Lombardo, che ci lasciò la vita. D. Contro fu anche Paolo Borsellino, che sollecitò le conclusioni del rapporto mafia-appalti. Tutti e due furono isolati dalla politica (compresa quella vile che non li difese), sconfitti dai magistrati e ammazzati dalla mafia. E. La mitologia successiva vuole che tutto questo non sia mai esistito, ma che la storia s’incardini solo sulle responsabilità di chi, al momento delle decisioni più rilevanti, aveva perso il potere o non lo aveva ancora avuto. F. Infine: per sostenere questa tesi dissennata, questo “teorema”, che fa a cazzotti con le date e con i fatti, si deve togliere credibilità a chi lavorò con Falcone e Borsellino.
Aprite gli occhi, perché attorno al processo Mori balla la nostra storia recente, quella che ancora dura.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
La presunta trattativa stato-mafia sarebbe avvenuta entro il novembre 1993, data in cui fu revocato il carcere duro per centinaia di mafiosi (fatto considerato il segno tangibile dell'avvenuta trattativa).
Credo sia lecito chiedersi: da chi era rappresentato lo stato in quegli anni? Se era lo stato a trattare con la mafia...
Presidente della Repubblica: Scalfaro (che divenne presidente proprio nei giorni successivi alla morte di Falcone; non solo, è noto che se non ci fosse stata la strage presidente sarebbe stato eletto Andreotti, il cui governo tra l'altro aveva appena introdotto il carcere duro per i mafiosi).
Presidenti del consiglio: Amato (28/6/1992 - 28/4/1993), Ciampi (28/4/1993 - 10/5/1994)
Ministri della giustizia: Martelli (28/6/1992 - 10/2/1993), Conso (10/2/1993 - 10/5/1994) (in questi giorni Conso ha dichiarato di avere preso autonomamente senza consultare nessuno la decisione di non prorogare il carcere duro per centinaia di mafiosi, per paura di ritorsioni da parte della mafia: affermazione molto poco credibile)
Ministri degli interni: Mancino (28/6/1992 - 10/5/1994)
Presidenti della commissione parlamentare antimafia: Luciano Violante (23/4/1992 -14/4/1994)
E dal Dal 15 gennaio 1993 a capo della procura di Palermo è Giancarlo Caselli.
Tutti uomini di sinistra.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Ogni giorno, una "nuova".
L'acquisto fatto quando la società venne sequestrata a seguito dell'indagine sulla morte del giudice
Genchi in casa di un killer di Falcone
L'immobile apparteneva alla Camporeale, riconducibile a Ganci
di Stefano Sansonetti
Se la volessimo semplificare, giusto un attimo prima di entrare nei dettagli, potremmo buttarla giù nel modo che segue. Gioacchino Genchi, il superconsulente informatico del pm Luigi De Magistris, ha acquistato nel corso degli anni diversi immobili un tempo appartenuti a una società che faceva capo al boss mafioso Raffaele Ganci, coinvolto nell'attentato a Giovanni Falcone del 1992. Attentato dal quale partì un'inchiesta che Genchi conosce molto bene, essendo stato più volte coinvolto al suo interno come consulente.
A questo punto, però, urgono i dettagli. Seguendo una linea cronologica dobbiamo risalire al 3 giugno del 1999. In questa data, il consulente e l'attuale moglie, Tania Hmeljak (magistrato del tribunale di Palermo), acquistano a Palermo un appartamento di 7,5 vani e 2 cantine di 5 metri quadrati l'una. Gli indirizzi sono diversi: da una parte l'appartamento, dall'altra le cantine. Tutti, però, sono accomunati dalla provenienza. Genchi e la moglie, infatti, li hanno acquistati dalla Camporeale costruzioni srl, che a quell'epoca si trovava sotto sequestro. Il motivo è semplice: la Camporeale è una società riconducibile a Raffaele Ganci, boss mafioso coinvolto nel 1992 nell'attentato in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di scorta.
Questo legame è provato dalla richiesta di applicazione di misure cautelari che il 10 novembre del 1993 viene formulata al gip di Caltanissetta dai pm che indagavano sull'attentato a Falcone (Gianni Tinebra, Francesco Paolo Giordano, Carmelo Petralia, Ilda Boccassini e Fausto Cardella). Tra i destinatari della richiesta dei pm, oltre a Totò Riina e a molti altri boss, compariva proprio Raffaele Ganci. Figura, quest'ultima, sulla quale i pubblici ministeri, nella richiesta, si concentrano molto, perché ritenuta strategica. Nell'atto, i magistrati sostengono che pur non comparendo formalmente nella documentazione ufficiale, Ganci aveva interessi diretti nella Camporeale costruzioni srl che apparteneva a Salvatore Corso, di fatto un prestanome. Ma perché Ganci e questa srl sono strategici? Perché è proprio da un cantiere della Camporeale, all'epoca situato proprio all'indirizzo di Palermo dove oggi si erge l'appartamento acquistato da Genchi e dalla moglie, che partono le indagini del capitano Ultimo, l'ufficiale dell'Arma che ha arrestato Riina nel 1993. Come lo stesso Ultimo ha avuto modo di ricordare anni dopo, lui e la sua squadra misero sotto osservazione quel cantiere in cui spesso e volentieri Ganci si ritrovava con i suoi fedelissimi. È da lì, in sostanza, che parte tutta quella serie di osservazioni, ascolti e pedinamenti che successivamente consentono di arrestare Riina.
Insomma, rebus sic stantibus era ovvio che la Camporeale finisse sotto sequestro. Ed è proprio nel periodo in cui sulla società insiste la misura che Genchi effettua gli acquisti di immobili un tempo in pancia della srl.. Acquisti che sono tanti, perché dopo quello del 3 giugno del 1999, Genchi torna alla carica. E il 15 dicembre del 2000, attraverso la sua società Csi (vedi ItaliaOggi di ieri), incamera diverse porzioni di uno stesso fabbricato, ubicato nello stesso indirizzo delle due cantine comprate l'anno prima. Questa volta si tratta di un appartamento adibito a uffici e studi privati di 6 vani, che viene acquistato dalla Camporale srl, e di un altro appartamento della stessa destinazione, di 4 vani, che viene rilevato dall'Immobiliare Sorini srl. Passa meno di un anno e il 31 luglio del 2001, sempre allo stesso indirizzo e sempre tramite la Csi, Genchi acquista dalla Camporeale anche un'autorimessa di 45 metri quadrati.
Tutti questi immobili, è il caso di ribadire, sono stati acquisiti da Genchi e dalla sua Csi dall'amministratore giudiziario della Camporeale srl nominato dal tribunale. In un secondo momento, per la precisione il 25 settembre del 2001, la società un tempo riconducibile a Ganci è stata dissequestrata. La legge sulla confisca dei beni mafiosi stabilisce che per tutto il periodo del sequestro gli stessi beni non possono essere ceduti, al massimo assegnati a qualche onlus o al comune per finalità sociali. Genchi li ha acquistati lo stesso. Ha fatto premio la circostanza che sotto sequestro c'erano le quote della società, non i suoi beni. Un cavillo, che però ha consentito al superconsulente informatico di perfezionare gli acquisti.
http://www.italiaoggi..it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1590568&codiciTestate=1
Genchi in casa di un killer di Falcone
L'immobile apparteneva alla Camporeale, riconducibile a Ganci
di Stefano Sansonetti
Se la volessimo semplificare, giusto un attimo prima di entrare nei dettagli, potremmo buttarla giù nel modo che segue. Gioacchino Genchi, il superconsulente informatico del pm Luigi De Magistris, ha acquistato nel corso degli anni diversi immobili un tempo appartenuti a una società che faceva capo al boss mafioso Raffaele Ganci, coinvolto nell'attentato a Giovanni Falcone del 1992. Attentato dal quale partì un'inchiesta che Genchi conosce molto bene, essendo stato più volte coinvolto al suo interno come consulente.
A questo punto, però, urgono i dettagli. Seguendo una linea cronologica dobbiamo risalire al 3 giugno del 1999. In questa data, il consulente e l'attuale moglie, Tania Hmeljak (magistrato del tribunale di Palermo), acquistano a Palermo un appartamento di 7,5 vani e 2 cantine di 5 metri quadrati l'una. Gli indirizzi sono diversi: da una parte l'appartamento, dall'altra le cantine. Tutti, però, sono accomunati dalla provenienza. Genchi e la moglie, infatti, li hanno acquistati dalla Camporeale costruzioni srl, che a quell'epoca si trovava sotto sequestro. Il motivo è semplice: la Camporeale è una società riconducibile a Raffaele Ganci, boss mafioso coinvolto nel 1992 nell'attentato in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di scorta.
Questo legame è provato dalla richiesta di applicazione di misure cautelari che il 10 novembre del 1993 viene formulata al gip di Caltanissetta dai pm che indagavano sull'attentato a Falcone (Gianni Tinebra, Francesco Paolo Giordano, Carmelo Petralia, Ilda Boccassini e Fausto Cardella). Tra i destinatari della richiesta dei pm, oltre a Totò Riina e a molti altri boss, compariva proprio Raffaele Ganci. Figura, quest'ultima, sulla quale i pubblici ministeri, nella richiesta, si concentrano molto, perché ritenuta strategica. Nell'atto, i magistrati sostengono che pur non comparendo formalmente nella documentazione ufficiale, Ganci aveva interessi diretti nella Camporeale costruzioni srl che apparteneva a Salvatore Corso, di fatto un prestanome. Ma perché Ganci e questa srl sono strategici? Perché è proprio da un cantiere della Camporeale, all'epoca situato proprio all'indirizzo di Palermo dove oggi si erge l'appartamento acquistato da Genchi e dalla moglie, che partono le indagini del capitano Ultimo, l'ufficiale dell'Arma che ha arrestato Riina nel 1993. Come lo stesso Ultimo ha avuto modo di ricordare anni dopo, lui e la sua squadra misero sotto osservazione quel cantiere in cui spesso e volentieri Ganci si ritrovava con i suoi fedelissimi. È da lì, in sostanza, che parte tutta quella serie di osservazioni, ascolti e pedinamenti che successivamente consentono di arrestare Riina.
Insomma, rebus sic stantibus era ovvio che la Camporeale finisse sotto sequestro. Ed è proprio nel periodo in cui sulla società insiste la misura che Genchi effettua gli acquisti di immobili un tempo in pancia della srl.. Acquisti che sono tanti, perché dopo quello del 3 giugno del 1999, Genchi torna alla carica. E il 15 dicembre del 2000, attraverso la sua società Csi (vedi ItaliaOggi di ieri), incamera diverse porzioni di uno stesso fabbricato, ubicato nello stesso indirizzo delle due cantine comprate l'anno prima. Questa volta si tratta di un appartamento adibito a uffici e studi privati di 6 vani, che viene acquistato dalla Camporale srl, e di un altro appartamento della stessa destinazione, di 4 vani, che viene rilevato dall'Immobiliare Sorini srl. Passa meno di un anno e il 31 luglio del 2001, sempre allo stesso indirizzo e sempre tramite la Csi, Genchi acquista dalla Camporeale anche un'autorimessa di 45 metri quadrati.
Tutti questi immobili, è il caso di ribadire, sono stati acquisiti da Genchi e dalla sua Csi dall'amministratore giudiziario della Camporeale srl nominato dal tribunale. In un secondo momento, per la precisione il 25 settembre del 2001, la società un tempo riconducibile a Ganci è stata dissequestrata. La legge sulla confisca dei beni mafiosi stabilisce che per tutto il periodo del sequestro gli stessi beni non possono essere ceduti, al massimo assegnati a qualche onlus o al comune per finalità sociali. Genchi li ha acquistati lo stesso. Ha fatto premio la circostanza che sotto sequestro c'erano le quote della società, non i suoi beni. Un cavillo, che però ha consentito al superconsulente informatico di perfezionare gli acquisti.
http://www.italiaoggi..it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1590568&codiciTestate=1
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Brutte storie.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/12/saviano1.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/12/sindacato1.pdf
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Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Corsi e ricorsi.
Berlusconi come Enrico Matteipubblicata da nuova Forza Italia il giorno martedì 7 dicembre 2010 alle ore 16.24
Nessuno tocchi Julian Assange, mitico pirata informatico che, senza volerlo, ha disvelato cosa c'è dietro l'attacco a Berlusconi. Silvio - ce lo dicono le note degli ambasciatori americani -, ha commesso lo stesso peccato mortale di Enrico Mattei: ha voluto garantire all'Italia, alleata ma non più colonia, attraverso il rapporto con Putin e Gheddafi, la sovranità e l'indipendenza energetiche. Quarant'anni fa, il mandante a stelle e strisce affidò alla manovalanza mafiosa , ben inserita nel partito kennedyano, il compito di togliere di mezzo Enrico Mattei, reo d'aver sfidato le sette delinquenziali sorelle. Oggi, in attesa di soluzioni finali cruente contro il patriota Berlusconi, l'altrimenti kennedyano Obama si affida a Spatuzza, Ciancimino, alle toghe rosse, agli idioti utili e disutili di Murdoch, ai Soros ed agli altri usurai della City e di Wall Streett, nonché a Bersani, Franceschini, D'Alema, con l'aggiunta di Chiara Moroni, Fabio Granata e Giancarlo Tulliani. Onoriano la memoria di Enrico Mattei, al grido di W l'Italia e W l'Europa, spazzando via tutti i traditori al servizio dell'Impero al tramonto.
Giancarlo Lehner, Pdl
https://www.facebook.com/?sk=2361831622#!/note.php?note_id=466695126470&id=194509588235
Nessuno tocchi Julian Assange, mitico pirata informatico che, senza volerlo, ha disvelato cosa c'è dietro l'attacco a Berlusconi. Silvio - ce lo dicono le note degli ambasciatori americani -, ha commesso lo stesso peccato mortale di Enrico Mattei: ha voluto garantire all'Italia, alleata ma non più colonia, attraverso il rapporto con Putin e Gheddafi, la sovranità e l'indipendenza energetiche. Quarant'anni fa, il mandante a stelle e strisce affidò alla manovalanza mafiosa , ben inserita nel partito kennedyano, il compito di togliere di mezzo Enrico Mattei, reo d'aver sfidato le sette delinquenziali sorelle. Oggi, in attesa di soluzioni finali cruente contro il patriota Berlusconi, l'altrimenti kennedyano Obama si affida a Spatuzza, Ciancimino, alle toghe rosse, agli idioti utili e disutili di Murdoch, ai Soros ed agli altri usurai della City e di Wall Streett, nonché a Bersani, Franceschini, D'Alema, con l'aggiunta di Chiara Moroni, Fabio Granata e Giancarlo Tulliani. Onoriano la memoria di Enrico Mattei, al grido di W l'Italia e W l'Europa, spazzando via tutti i traditori al servizio dell'Impero al tramonto.
Giancarlo Lehner, Pdl
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Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Esempio di.... ????
Le Bufale dei pentiti
Il 14 gennaio 2010 è terminato il doloroso e umiliante calvario giudiziario di Calogero Mannino, ex ministro dc, siciliano, uno dei politici della Prima Repubblica più a lungo inquisiti. La sesta sezione penale della Cassazione ha confermato la sentenza di assoluzione nei confronti dell’ex ministro, accusato, 17 anni or sono - sulla base delle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia – di concorso esterno in associazione mafiosa.
All’ex esponente della sinistra della “Balena bianca”, oggi deputato,ex UDC, nulla è stato risparmiato: 11 mesi in cella, altri 12 agli arresti domiciliari, gli insulti dei boss detenuti, lo scherno del pubblico ministero di Palermo, Teresa Principato, che così rispose alla moglie e ai legali del politico, che sollecitavano la sua scarcerazione, a causa delle pessime condizioni di salute: “Don Calogero è dimagrito di 30 chili? Resti in prigione: è tutta salute!”.
La allucinante vicenda dell’ex ministro di Sciacca mi è tornata alla mente, seguendo in TV l’inchiesta di Minoli e leggendo le accuse, mitragliate in un libro, presentato giovedì a Milano. Lo hanno scritto da due giornalisti di “Libero”, Nuzzi e Antonelli, si intitola “Metastasi” ed è edito da “Chiarelettere”.
Nel volume, si dà grande, forse eccessivo, credito alle esternazioni di alcuni pentiti, che hanno posto nel mirino l’ex Guardasigilli, il leghista Roberto Castelli, stimato senatore di Lecco, per presunti legami con un boss, tale Franco Coco Trovato, e si narra un tentativo, che sarebbe stato ordinato dalla ‘ndrangheta, di trafugare le ceneri dello stilista Gianni Versace. Il senatore Castelli ha respinto le accuse e ha aggiunto: “Da un lato, ci sono le affermazioni di un’ndranghetista, dall’altro, la storia della Lega Nord, che è sotto gli occhi di tutto il Paese!”.
Un altro “pentito”, citato a lungo nel lavoro di Nuzzi e Antonelli e ossequiato come “il Buscetta della ‘ndrangheta”, è Filippo Barreca, che fu uno degli accusatori nel lungo e kafkiano processo a Giacomo Mancini.
“L’onorevole Mancini, nell’anno 1980 o 1981- sostenne Barreca – si incontrò a Caracciolina (una frazione di Montebello Jonico) con don Natale Iamonte”. Il boss avrebbe raccolto voti per favorire l’elezione del parlamentare. In cambio, il leader socialista sarebbe intervenuto presso la Corte d’appello di Bari per far attenuare la posizione processuale di Giuseppe Iamonte, figlio di don Natale, in carcere perchè accusato dell’assassinio di tale Domenico Artuso.
Ebbene – come verrà, dettagliatamente, riportato in un altro libro sul “caso-Mancini”, di imminente pubblicazione, scritto da un giornalista, Francesco Kostner, e da uno dei legali dell’ex ministro, Enzo Paolini - si dimostrò, nel dibattimento di Palmi, che quella di Barreca era una panzana, in quanto il figlio di Iamonte era stato assolto, ben prima della presunta richiesta dell’intervento del deputato calabrese.
Inoltre, nel processo di Palmi, un testimone, convocato dai pubblici ministeri, che inquisirono Mancini, Boemi e Verzera – e che si rivolgevano al rappresentante, in Parlamento, della Calabria, per 44 anni, chiamandolo, con disprezzo, “quell’uomo lì”… – si rivelò teste, ma… a difesa dell’imputato. Il farmacista Francesco Saverio Zuccalà, ex sindaco socialista di San Lorenzo, figlio del primo Sindaco del dopoguerra, e nipote di Vincenzo Borruto – che, tra gli anni ’50 e ’60, fu segretario regionale del Psi – dichiarò che Mancini ebbe contatti con suo padre e suo zio, come esponenti del PSI e suoi elettori. Ma ai tre incontri con il leader calabrese non partecipò, mai, alcun boss. Con quella testimonianza, vennero smentite le deposizioni di Giacomo Lauro e Filippo Barreca, i due “pentiti”, che avevano accusato Mancini di aver lasciato i suoi tanti impegni, politici e parlamentari, a Roma, per precipitarsi a San Lorenzo ad omaggiare don Vincenzo Iamonte, capo della cosca, allora dominante nel territorio di Melito Porto Salvo.
Nonostante le dimostrazioni, in aula, della assoluta non credibilità di Barreca – che attribuì a Mancini, nell’ilarità del pubblico, persino di aver progettato di far saltare in aria il ponte sulla Fiumarella di Catanzaro – il tribunale di Palmi, presieduto dalla dottoressa Bambace, condannò l’ imputato a 3 anni e mezzo per concorso esterno per associazione mafiosa.
“Non mi importa niente dell’esito giudiziario – sostenne l’ ex parlamentare, amareggiato e sofferente nel fisico e nel morale, dopo il feroce verdetto di Palmi - Se sono perbene, non me lo devono dire delle signore di un tribunale, ben definite dall’avvocato Paolini “ragazze coccodè”. Merito di trovare un giudice, che mi dica: onorevole Mancini, lei è innocente, lei è un galantuomo!”.
E quel magistrato il figlio di Pietro Mancini, fondatore del PSI, in Calabria, lo trovò nel tribunale di Catanzaro, dove il 19 novembre del 1999 il giovane dottor Vincenzo Calderazzo, giudice dell’udienza preliminare, scomparso qualche anno fa, cestinò, senza tentennamenti, le frottole degli spietati picciotti delle ‘ndrine, sentenziando che “il fatto non sussiste“. E, nelle sintetiche motivazioni, Calderazzo spiegò: “Non esiste prova alcuna…Gli enunciati accusatori del pm si rivelano generici e indefiniti“.
Giacomo provvide a spedire le fotocopie della sentenza ai pubblici ministeri del processo di Palmi e alle magistrate, che lo avevano condannato, recependo le accuse dei killer, “pentiti”, della ‘ndrangheta e istruendo un processo, su cui non spettava a loro la competenza…. Forse, prima di dedicare tante pagine del loro libro, interessante e molto pubblicizzato, dai giornali e dalle tv, a Barreca – che ha accusato, post-morten, Gianni Versace ed è arrivato a insinuare che lo stilista non sia stato ucciso, a Miami, da Cunanan, bensì da un sicario di una cosca calabrese – Nuzzi e Antonelli avrebbero potuto documentarsi sui precedenti calabresi, non “esaltanti”, del personaggio.
Ad esempio, leggendo i tanti articoli sull’ndrangheta, sui politici realmente collusi con i boss e sui “pentiti”, quelli attendibili e quelli mendaci, scritti da Antonio Delfino, non pochi proprio su “Libero”, all’epoca diretto da Feltri. Il giornalista calabrese seguì tanti e delicati processi, tra cui quello a Mancini, che stimava, documentandosi e non fidandosi mai, a differenza di non pochi colleghi, delle “veline” delle Procure.
Ai due inviati del quotidiano di Belpietro – oltre a a segnalare la sconvolgente lettera a Napolitano di Lea Garofalo, la collaboratrice di Petilia Policastro, sciolta nell’acido, a Milano - mi permetto di consigliare la lettura del libro di Delfino “Amo l’Aspromonte”. Vi è narrata l’incredibile vicenda di un altro ‘ndranghetista bugiardone, Pino Scriva, di Rosarno, definito dall’autore, purtroppo scomparso, “il Cantacalabria”. Non avendo ritenuto attendibili le dichiarazioni di Scriva, nel settembre del 2002 – 5 mesi dopo la scomparsa di una delle sue “vittime”, la più illustre, Giacomo Mancini – i giudici di Palmi decisero di archiviare un voluminoso maxi-processo, che era stato istruito a carico di 20 cosche della piana di Goia Tauro.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Ciampi e Mafia, due link per un articolo.
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/12/ciampi-ex.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/12/ciampi-ex0001.pdf
http://linkati2lu.files.wordpress.com/2010/12/ciampi-ex0001.pdf
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
DEMENZIALE.
domenica 12 dicembre 2010, 08:00
Vietato dare appalti ai sospettati di mafia anche se già assolti
Alessandra Pasotti
Milano- Non serve essere stati condannati, né avere indagini penali in corso. Non basta neppure l’archiviazione e l’assoluzione. È sufficiente un indizio, un elemento che «pur non dovendo assurgere necessariamente a livello di prova sia tale da far ritenere sconsigliabile l’instaurazione di un rapporto con la pubblica amministrazione». È giro di vite a Milano contro le infiltrazioni mafiose nel tessuto imprenditoriale e nei lavori pubblici. La prova è in una sentenza del Tar che ha stabilito che «l’assoluzione o l’archiviazione di un procedimento penale non valgono in sé ad escludere la sussistenza di ogni pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa».
Il caso è quello di un’azienda, la Giada Macchine, estromessa da un appalto dallo stesso Prefetto perché considerata «a rischio di infiltrazioni mafiose». La società operante nel settore edile di scavi e demolizioni era stata incaricata in un cantiere per il raddoppio della linea ferroviaria Milano - Mortara. La prefettura di Milano l’aveva però messa alla porta ritenendo che «l’attività investigativa della Dia (direzione investigativa antimafia) avesse fatto emergere elementi sintomatici di collegamenti e contiguità della società Giada Macchine con ambienti appartenenti ad organizzazioni di tipo mafioso». In effetti il titolare, Domenico Savinelli era stato indagato nel maxi processo «Cerberus» teso a far emergere le collusioni del ’ndrangheta con quello imprenditoriale nell’hinterland di Milano, ma era stato subito prosciolto da qualunque accusa. Forte di quell’archiviazione aveva fatto ricorso al Tar per riavere l’appalto. Ricorso che però i giudici amministrativi hanno respinto. «L'informativa della Dia - scrivono i giudici del Tar -si basa su un insieme di circostanze recenti e meno recenti, quali dichiarazioni di pentiti, telefonate in partenza dalla Giada Macchine verso utenze di malavitosi con le quali si chiede la fornitura di servizi di trasporto, la presenza di un pregiudicato per reati di mafia all’interno dell’organico dell'azienda, alcuni colloqui telefonici dal cui complesso si desume una contiguità (anche se non un conclamato sodalizio) del rappresentante legale della Giada Macchine con ambienti della criminalità organizzata; e tanto basta a giustificare la conclusione a cui è giunta la Prefettura in ordine alla sussistenza di un pericolo di infiltrazione mafiosa relativa all'impresa ricorrente». I difensori della ditta avevano ribattuto che si tratta di elementi non sfociati in indagini penali a carico del titolare o di altri componenti della sua famiglia.
Ed è su questo punto che i giudici non hanno fatto sconti, precisando che «la nozione di tentativo di infiltrazione mafiosa si presenta estremamente sfumata». Infatti «lo scopo dell’informativa non è (solo) quello di precludere l’accesso agli appalti pubblici da parte di imprese facenti parte integrante di sodalizi di tipo criminoso ma di tenere lontani dalle commesse pubbliche tutti quei soggetti che, per aver rapporti di stretta parentela con esponenti della mafia o per intrattenere con essi anche solo rapporti di affari non occasionali, possono subirne i condizionamenti; posto che, in tali ipotesi, le risorse finanziarie destinate alla realizzazione di opere pubbliche possono anche indirettamente foraggiare la sopravvivenza economica di imprese operanti per conto della mafia». Insomma: «L’assoluzione o l’archiviazione non valgano in sé ad escludere la sussistenza di ogni pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa. Il fatto che un determinato soggetto non sia sodale con un’organizzazione mafiosa non esclude che egli possa intrattenere con i suoi esponenti contatti, anche leciti, tali da generare un pericolo di condizionamento, o, peggio, tali da comportare un travaso delle risorse finanziarie derivanti dalla commessa nelle casse della organizzazione criminale».
Vietato dare appalti ai sospettati di mafia anche se già assolti
Alessandra Pasotti
Milano- Non serve essere stati condannati, né avere indagini penali in corso. Non basta neppure l’archiviazione e l’assoluzione. È sufficiente un indizio, un elemento che «pur non dovendo assurgere necessariamente a livello di prova sia tale da far ritenere sconsigliabile l’instaurazione di un rapporto con la pubblica amministrazione». È giro di vite a Milano contro le infiltrazioni mafiose nel tessuto imprenditoriale e nei lavori pubblici. La prova è in una sentenza del Tar che ha stabilito che «l’assoluzione o l’archiviazione di un procedimento penale non valgono in sé ad escludere la sussistenza di ogni pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa».
Il caso è quello di un’azienda, la Giada Macchine, estromessa da un appalto dallo stesso Prefetto perché considerata «a rischio di infiltrazioni mafiose». La società operante nel settore edile di scavi e demolizioni era stata incaricata in un cantiere per il raddoppio della linea ferroviaria Milano - Mortara. La prefettura di Milano l’aveva però messa alla porta ritenendo che «l’attività investigativa della Dia (direzione investigativa antimafia) avesse fatto emergere elementi sintomatici di collegamenti e contiguità della società Giada Macchine con ambienti appartenenti ad organizzazioni di tipo mafioso». In effetti il titolare, Domenico Savinelli era stato indagato nel maxi processo «Cerberus» teso a far emergere le collusioni del ’ndrangheta con quello imprenditoriale nell’hinterland di Milano, ma era stato subito prosciolto da qualunque accusa. Forte di quell’archiviazione aveva fatto ricorso al Tar per riavere l’appalto. Ricorso che però i giudici amministrativi hanno respinto. «L'informativa della Dia - scrivono i giudici del Tar -si basa su un insieme di circostanze recenti e meno recenti, quali dichiarazioni di pentiti, telefonate in partenza dalla Giada Macchine verso utenze di malavitosi con le quali si chiede la fornitura di servizi di trasporto, la presenza di un pregiudicato per reati di mafia all’interno dell’organico dell'azienda, alcuni colloqui telefonici dal cui complesso si desume una contiguità (anche se non un conclamato sodalizio) del rappresentante legale della Giada Macchine con ambienti della criminalità organizzata; e tanto basta a giustificare la conclusione a cui è giunta la Prefettura in ordine alla sussistenza di un pericolo di infiltrazione mafiosa relativa all'impresa ricorrente». I difensori della ditta avevano ribattuto che si tratta di elementi non sfociati in indagini penali a carico del titolare o di altri componenti della sua famiglia.
Ed è su questo punto che i giudici non hanno fatto sconti, precisando che «la nozione di tentativo di infiltrazione mafiosa si presenta estremamente sfumata». Infatti «lo scopo dell’informativa non è (solo) quello di precludere l’accesso agli appalti pubblici da parte di imprese facenti parte integrante di sodalizi di tipo criminoso ma di tenere lontani dalle commesse pubbliche tutti quei soggetti che, per aver rapporti di stretta parentela con esponenti della mafia o per intrattenere con essi anche solo rapporti di affari non occasionali, possono subirne i condizionamenti; posto che, in tali ipotesi, le risorse finanziarie destinate alla realizzazione di opere pubbliche possono anche indirettamente foraggiare la sopravvivenza economica di imprese operanti per conto della mafia». Insomma: «L’assoluzione o l’archiviazione non valgano in sé ad escludere la sussistenza di ogni pericolo di tentativo di infiltrazione mafiosa. Il fatto che un determinato soggetto non sia sodale con un’organizzazione mafiosa non esclude che egli possa intrattenere con i suoi esponenti contatti, anche leciti, tali da generare un pericolo di condizionamento, o, peggio, tali da comportare un travaso delle risorse finanziarie derivanti dalla commessa nelle casse della organizzazione criminale».
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Si pagano le ingiustizie, senza Riforma.
Nefandezze processuali
lunedì 13 dicembre 2010
Di tanto in tanto, alla già drammatica – ed incredibile – vicenda giudiziaria di Bruno Contrada si aggiunge qualche ulteriore tassello che non fa che andare ad arricchire il mosaico di mostruosità ed aberrazioni che ha stravolto la vita del Dirigente della Polizia di Stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Stavolta è stato il turno di due collaboratori di giustizia, CP e GG che – già assolti dal Tribunale di Catania dall’accusa di calunnia ai danni dell'ex Funzionario del Sisde – si sono visti confermare la decisione in Corte di Appello.
Il fatto è stato reso noto dal legale di Contrada – Avv. Giuseppe Lìpera – il quale ha diffuso il testo della richiesta di impugnazione presentata al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catania, Dott. Tinebra, che pubblichiamo integralmente in allegato.
Lìpera rammenta innanzitutto il bizzarro iter argomentativo seguito dai giudici di primo grado per pervenire alla assoluzione di entrambi gli imputati: quanto al GG, assolto dal Tribunale nisseno poiché (pacifico che vi fosse stato l'accordo col CP) non sarebbe stato a conoscenza della innocenza di Contrada (presupposto oggettivo indifferibile per il perfezionamento del reato di calunnia).
Quanto al CP, al contrario, l'assoluzione era stata decretata dalla mancata prova dell'accordo testé ricordato!
Un medesimo fatto storico, dunque (l'accordo tra i due pentiti) ritenuto sussistente se riferito alla valutazione della posizione processuale di un imputato e inesistente riguardo all'altro.
Nonostante un errore tanto macroscopico, la Corte siciliana ha confermato l'assoluzione dei due, con le motivazioni illustrate nella sentenza ed oggetto di serrata critica da parte del legale di Contrada.
In sintesi, la Corte – pur ammettendo l'esistenza dell'accordo tra i due imputati (ponendo in tal modo fine, almeno da questo punto di vista, alla farsesca rappresentazione proposta dai giudici di primo grado – è giunta alla conclusione che ciò non implicherebbe che i due si fossero accordati per accusare ingiustamente il Dott. Contrada, ma rivelerebbe “soltanto l’intento di fare trapelare notizie di rilievo su personaggi delle istituzioni che dessero al CP un rilievo nell’ambito dell’associazione mafiosa della quale faceva parte”.
Pur senza voler indugiare in tecnicismi, non occorre particolare competenza per rendersi conto dell'inconsistenza della “scenetta” proposta dalla Corte.
Tanto valeva argomentare con una motivazione del tipo “pare evidente che quei due burloni di CP e GG, accordatisi per poi sputtanare Contrada, stessero solo scherzando!”: scrivendo così un altro pezzetto della tragedia giudiziaria di Bruno Contrada.
(adc)
http://www.giustiziagiusta.info/index.php?option=com_content&task=view&id=4402&Itemid=1
lunedì 13 dicembre 2010
Di tanto in tanto, alla già drammatica – ed incredibile – vicenda giudiziaria di Bruno Contrada si aggiunge qualche ulteriore tassello che non fa che andare ad arricchire il mosaico di mostruosità ed aberrazioni che ha stravolto la vita del Dirigente della Polizia di Stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Stavolta è stato il turno di due collaboratori di giustizia, CP e GG che – già assolti dal Tribunale di Catania dall’accusa di calunnia ai danni dell'ex Funzionario del Sisde – si sono visti confermare la decisione in Corte di Appello.
Il fatto è stato reso noto dal legale di Contrada – Avv. Giuseppe Lìpera – il quale ha diffuso il testo della richiesta di impugnazione presentata al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catania, Dott. Tinebra, che pubblichiamo integralmente in allegato.
Lìpera rammenta innanzitutto il bizzarro iter argomentativo seguito dai giudici di primo grado per pervenire alla assoluzione di entrambi gli imputati: quanto al GG, assolto dal Tribunale nisseno poiché (pacifico che vi fosse stato l'accordo col CP) non sarebbe stato a conoscenza della innocenza di Contrada (presupposto oggettivo indifferibile per il perfezionamento del reato di calunnia).
Quanto al CP, al contrario, l'assoluzione era stata decretata dalla mancata prova dell'accordo testé ricordato!
Un medesimo fatto storico, dunque (l'accordo tra i due pentiti) ritenuto sussistente se riferito alla valutazione della posizione processuale di un imputato e inesistente riguardo all'altro.
Nonostante un errore tanto macroscopico, la Corte siciliana ha confermato l'assoluzione dei due, con le motivazioni illustrate nella sentenza ed oggetto di serrata critica da parte del legale di Contrada.
In sintesi, la Corte – pur ammettendo l'esistenza dell'accordo tra i due imputati (ponendo in tal modo fine, almeno da questo punto di vista, alla farsesca rappresentazione proposta dai giudici di primo grado – è giunta alla conclusione che ciò non implicherebbe che i due si fossero accordati per accusare ingiustamente il Dott. Contrada, ma rivelerebbe “soltanto l’intento di fare trapelare notizie di rilievo su personaggi delle istituzioni che dessero al CP un rilievo nell’ambito dell’associazione mafiosa della quale faceva parte”.
Pur senza voler indugiare in tecnicismi, non occorre particolare competenza per rendersi conto dell'inconsistenza della “scenetta” proposta dalla Corte.
Tanto valeva argomentare con una motivazione del tipo “pare evidente che quei due burloni di CP e GG, accordatisi per poi sputtanare Contrada, stessero solo scherzando!”: scrivendo così un altro pezzetto della tragedia giudiziaria di Bruno Contrada.
(adc)
http://www.giustiziagiusta.info/index.php?option=com_content&task=view&id=4402&Itemid=1
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Re: Ecco, da qui si può cominciare a parlare di Mafia.
Marina SalvadoreDecember 13, 2010 at 11:08pm
NEWS Bruno Contrada
Post n°1575 pubblicato il 13 Dicembre 2010 da vocedimegaride
Tag: Berlusconi, Bruno Contrada, Calogero Pulci, Ciancimino, Gianni De Gennaro, Giulio Andreotti, Giuseppe Giuga, Giuseppe Ingroia, Governo, Oscar Luigi Scalfaro
da https://www.facebook.com/l/b201dBLribkG4Nenn5wf4nNZ4Fg;www.giustiziagiusta.info
Nefandezze processuali
lunedì 13 dicembre 2010
Di tanto in tanto, alla già drammatica – ed incredibile – vicenda giudiziaria di Bruno Contrada si aggiunge qualche ulteriore tassello che non fa che andare ad arricchire il mosaico di mostruosità ed aberrazioni che ha stravolto la vita del Dirigente della Polizia di Stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Stavolta è stato il turno di due collaboratori di giustizia, CP e GG che – già assolti dal Tribunale di Catania dall’accusa di calunnia ai danni dell'ex Funzionario del Sisde – si sono visti confermare la decisione in Corte di Appello.
Il fatto è stato reso noto dal legale di Contrada – Avv. Giuseppe Lìpera – il quale ha diffuso il testo della richiesta di impugnazione presentata al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catania, Dott. Tinebra.
Lìpera rammenta innanzitutto il bizzarro iter argomentativo seguito dai giudici di primo grado per pervenire alla assoluzione di entrambi gli imputati: quanto al GG, assolto dal Tribunale nisseno poiché (pacifico che vi fosse stato l'accordo col CP) non sarebbe stato a conoscenza della innocenza di Contrada (presupposto oggettivo indifferibile per il perfezionamento del reato di calunnia).
Quanto al CP, al contrario, l'assoluzione era stata decretata dalla mancata prova dell'accordo testé ricordato!
Un medesimo fatto storico, dunque (l'accordo tra i due pentiti) ritenuto sussistente se riferito alla valutazione della posizione processuale di un imputato e inesistente riguardo all'altro.
Nonostante un errore tanto macroscopico, la Corte siciliana ha confermato l'assoluzione dei due, con le motivazioni illustrate nella sentenza ed oggetto di serrata critica da parte del legale di Contrada.
In sintesi, la Corte – pur ammettendo l'esistenza dell'accordo tra i due imputati (ponendo in tal modo fine, almeno da questo punto di vista, alla farsesca rappresentazione proposta dai giudici di primo grado – è giunta alla conclusione che ciò non implicherebbe che i due si fossero accordati per accusare ingiustamente il Dott. Contrada, ma rivelerebbe “soltanto l’intento di fare trapelare notizie di rilievo su personaggi delle istituzioni che dessero al CP un rilievo nell’ambito dell’associazione mafiosa della quale faceva parte”.
Pur senza voler indugiare in tecnicismi, non occorre particolare competenza per rendersi conto dell'inconsistenza della “scenetta” proposta dalla Corte.
Tanto valeva argomentare con una motivazione del tipo “pare evidente che quei due burloni di CP e GG, accordatisi per poi sputtanare Contrada, stessero solo scherzando!”: scrivendo così un altro pezzetto della tragedia giudiziaria di Bruno Contrada.
(adc)
********
... perchè mai i due "pentiti d'essersi pentiti" sono indicati con le sole iniziali, come è d'uso per la tutela dei minori e non dei "minorati" e recidivi quali sono Calogero PULCI e Giuseppe GIUGA? Oramai per il generale Contrada aspettiamo il "fine pena" del 2013 che porrà il sigillo tombale alla lunga persecuzione vessatoria subita dal 1992, confidando per quella data nella resa dei conti e nella VERITA', in virtù anche dei recentissimi sconvolgimenti in tema di Trattativa Stato-Mafia che hanno pericolosamente ribaltato la scena indiziaria ammannitaci fino alla nausea ad oggi e coinvolgendo malamente quegli illustri notabili ed autorevoli che furono la regia occulta dei tanti stravolgimenti politici e sociali per cui molte teste - le migliori del Paese - caddero sotto la mannaia della calunnia o fulminati da bombe e pallettoni. A qualcuno degli "occulti" veterani già brucia il culo e trema la terra sotto le zampe... come nel caso di O'SCARrafone Luigi Scalfaro... che già mette le mani in avanti, rilasciando interviste surreali sulle stragi del '93 ponendo egli, l'intervistato, domande all'intervistatore ed in anteprima assoluta, dopo 18 anni di colpevole silenzio, s'immette maldestro e contromano sulla corsìa del più emerito Francesco Cossiga, nell'apprezzamento professionale e umano di Bruno Contrada e nella paventata "difesa" di questo martire delle Istituzioni a cui lo Stato ha messo i paletti... sempre... per PAURA... ad ogni richiesta di revisione del Processo, ad ogni istanza legittima, confidando - mediante tortura - di annientarlo e farlo sparire. Se O'SCARrafone Scalfaro si è scoperto, ora, cronista opinionista, provi ad intervistare se stesso e si ponga il più importante quesito della Storia: "come, dove, quando e PERCHE' è stato eletto alla chetichella Presidente della Repubblica al posto di Andreotti, mentre i fumi tossici ancora si levavano dalle auto carbonizzate a Capaci". Poi, ci spieghi la strategia dei colossi finanziari di STATO del PENTITIFICIO e VITTIMIFICIO (esclusivo perchè di pochi e non di tutte le vittime del terrorismo & mafia) nei quali è confluita l'ANTIMAFIA scalpitante che qualcuno, a giusta ragione ed in omaggio a Sciascia, ha definito "i nuovi corleonesi". Ci spieghi, inoltre, come e perchè Ciancimino - che pure qualche coriandolo di verità ha tirato fuori dal cilindro magico - va bene ad Ingroia ed alle solite Procure di Palermo e Caltanissetta, roccaforti dell'ANTIMAFIA di cui sopra, quando coinvolge quelli del centrodestra (che all'epoca non era ancora stato fondato) mentre è giudicato inattendibile ed addirittura querelato e quasi sottoposto ad un TSO d'urgenza se le sue dichiarazioni tirano in ballo il solito "ebreo errante" o "figurante scelto" in tutte le salse e circostanze dell'Italietta post-moderna, l'intoccabile De Gennaro! Considerato che il governo attuale di centrodestra ha avviato un'indagine approfondita sui protagonisti di "allora" in tema di Trattativa Stato-Mafia, in particolare sul capitolo delle stragi del '93, temiamo che al voto, domani, il governo medesimo possa essere sfiduciato non certamente per i presunti "bunga bunga", "escort", "tende libiche" e "dacie russe" ma per rimettere la lapide tombale sull'oscuro complotto, ora che anche il Gran Tulliano con la scazzetta detta kippah è diventato "il migliore amico" delle toghe rosse! Ricordatevi di tutto questo, italioti, quando sarete richiamati alle urne (megaride)
NEWS Bruno Contrada
Post n°1575 pubblicato il 13 Dicembre 2010 da vocedimegaride
Tag: Berlusconi, Bruno Contrada, Calogero Pulci, Ciancimino, Gianni De Gennaro, Giulio Andreotti, Giuseppe Giuga, Giuseppe Ingroia, Governo, Oscar Luigi Scalfaro
da https://www.facebook.com/l/b201dBLribkG4Nenn5wf4nNZ4Fg;www.giustiziagiusta.info
Nefandezze processuali
lunedì 13 dicembre 2010
Di tanto in tanto, alla già drammatica – ed incredibile – vicenda giudiziaria di Bruno Contrada si aggiunge qualche ulteriore tassello che non fa che andare ad arricchire il mosaico di mostruosità ed aberrazioni che ha stravolto la vita del Dirigente della Polizia di Stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Stavolta è stato il turno di due collaboratori di giustizia, CP e GG che – già assolti dal Tribunale di Catania dall’accusa di calunnia ai danni dell'ex Funzionario del Sisde – si sono visti confermare la decisione in Corte di Appello.
Il fatto è stato reso noto dal legale di Contrada – Avv. Giuseppe Lìpera – il quale ha diffuso il testo della richiesta di impugnazione presentata al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catania, Dott. Tinebra.
Lìpera rammenta innanzitutto il bizzarro iter argomentativo seguito dai giudici di primo grado per pervenire alla assoluzione di entrambi gli imputati: quanto al GG, assolto dal Tribunale nisseno poiché (pacifico che vi fosse stato l'accordo col CP) non sarebbe stato a conoscenza della innocenza di Contrada (presupposto oggettivo indifferibile per il perfezionamento del reato di calunnia).
Quanto al CP, al contrario, l'assoluzione era stata decretata dalla mancata prova dell'accordo testé ricordato!
Un medesimo fatto storico, dunque (l'accordo tra i due pentiti) ritenuto sussistente se riferito alla valutazione della posizione processuale di un imputato e inesistente riguardo all'altro.
Nonostante un errore tanto macroscopico, la Corte siciliana ha confermato l'assoluzione dei due, con le motivazioni illustrate nella sentenza ed oggetto di serrata critica da parte del legale di Contrada.
In sintesi, la Corte – pur ammettendo l'esistenza dell'accordo tra i due imputati (ponendo in tal modo fine, almeno da questo punto di vista, alla farsesca rappresentazione proposta dai giudici di primo grado – è giunta alla conclusione che ciò non implicherebbe che i due si fossero accordati per accusare ingiustamente il Dott. Contrada, ma rivelerebbe “soltanto l’intento di fare trapelare notizie di rilievo su personaggi delle istituzioni che dessero al CP un rilievo nell’ambito dell’associazione mafiosa della quale faceva parte”.
Pur senza voler indugiare in tecnicismi, non occorre particolare competenza per rendersi conto dell'inconsistenza della “scenetta” proposta dalla Corte.
Tanto valeva argomentare con una motivazione del tipo “pare evidente che quei due burloni di CP e GG, accordatisi per poi sputtanare Contrada, stessero solo scherzando!”: scrivendo così un altro pezzetto della tragedia giudiziaria di Bruno Contrada.
(adc)
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... perchè mai i due "pentiti d'essersi pentiti" sono indicati con le sole iniziali, come è d'uso per la tutela dei minori e non dei "minorati" e recidivi quali sono Calogero PULCI e Giuseppe GIUGA? Oramai per il generale Contrada aspettiamo il "fine pena" del 2013 che porrà il sigillo tombale alla lunga persecuzione vessatoria subita dal 1992, confidando per quella data nella resa dei conti e nella VERITA', in virtù anche dei recentissimi sconvolgimenti in tema di Trattativa Stato-Mafia che hanno pericolosamente ribaltato la scena indiziaria ammannitaci fino alla nausea ad oggi e coinvolgendo malamente quegli illustri notabili ed autorevoli che furono la regia occulta dei tanti stravolgimenti politici e sociali per cui molte teste - le migliori del Paese - caddero sotto la mannaia della calunnia o fulminati da bombe e pallettoni. A qualcuno degli "occulti" veterani già brucia il culo e trema la terra sotto le zampe... come nel caso di O'SCARrafone Luigi Scalfaro... che già mette le mani in avanti, rilasciando interviste surreali sulle stragi del '93 ponendo egli, l'intervistato, domande all'intervistatore ed in anteprima assoluta, dopo 18 anni di colpevole silenzio, s'immette maldestro e contromano sulla corsìa del più emerito Francesco Cossiga, nell'apprezzamento professionale e umano di Bruno Contrada e nella paventata "difesa" di questo martire delle Istituzioni a cui lo Stato ha messo i paletti... sempre... per PAURA... ad ogni richiesta di revisione del Processo, ad ogni istanza legittima, confidando - mediante tortura - di annientarlo e farlo sparire. Se O'SCARrafone Scalfaro si è scoperto, ora, cronista opinionista, provi ad intervistare se stesso e si ponga il più importante quesito della Storia: "come, dove, quando e PERCHE' è stato eletto alla chetichella Presidente della Repubblica al posto di Andreotti, mentre i fumi tossici ancora si levavano dalle auto carbonizzate a Capaci". Poi, ci spieghi la strategia dei colossi finanziari di STATO del PENTITIFICIO e VITTIMIFICIO (esclusivo perchè di pochi e non di tutte le vittime del terrorismo & mafia) nei quali è confluita l'ANTIMAFIA scalpitante che qualcuno, a giusta ragione ed in omaggio a Sciascia, ha definito "i nuovi corleonesi". Ci spieghi, inoltre, come e perchè Ciancimino - che pure qualche coriandolo di verità ha tirato fuori dal cilindro magico - va bene ad Ingroia ed alle solite Procure di Palermo e Caltanissetta, roccaforti dell'ANTIMAFIA di cui sopra, quando coinvolge quelli del centrodestra (che all'epoca non era ancora stato fondato) mentre è giudicato inattendibile ed addirittura querelato e quasi sottoposto ad un TSO d'urgenza se le sue dichiarazioni tirano in ballo il solito "ebreo errante" o "figurante scelto" in tutte le salse e circostanze dell'Italietta post-moderna, l'intoccabile De Gennaro! Considerato che il governo attuale di centrodestra ha avviato un'indagine approfondita sui protagonisti di "allora" in tema di Trattativa Stato-Mafia, in particolare sul capitolo delle stragi del '93, temiamo che al voto, domani, il governo medesimo possa essere sfiduciato non certamente per i presunti "bunga bunga", "escort", "tende libiche" e "dacie russe" ma per rimettere la lapide tombale sull'oscuro complotto, ora che anche il Gran Tulliano con la scazzetta detta kippah è diventato "il migliore amico" delle toghe rosse! Ricordatevi di tutto questo, italioti, quando sarete richiamati alle urne (megaride)
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Prima o poi......
la verità si fà largo
E’ uno con cui non sono quasi mai d’accordo anche perché è di sinistra ma su queste cosa mi pare stia dalla parte giusta
Da: Gioacchino Basile [mailto:gioacchino_basile@tin.it]
Inviato: domenica 19 dicembre 2010 19:49
A: direttore@stabiachannel.it; direttore@siciliainformazioni.com; Panorama Direttore; Nebrodi e Dintorni; diaconale@opinione.it; dario.campolo@libero.it; Giancarlo Caselli; Giuseppe Casarrubea; elio.veltri2004@libero.it; edmondo.brutiliberati@giustizia.it; c.augias@repubblica.it; Borsellino Salvatore
Cc: catania@libera.it; Casuale; casson@comune.venezia.it; lettere@libero-news.eu
Oggetto: Fw: la verità si fà largo
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From: Gioacchino Basile
To: annozero@rai.it ; ansa..palermo@ansanet.it ; ansa.trieste@ansanet.it ; apiccione@unime.it ; bersani_p@camera.it ; Associazione Cuntrastamu ; Salvatore Borsellino - 2
Cc: Pier Luigi On. Bersani ; vincenzo guidotto
Sent: Sunday, December 19, 2010 7:31 PM
Subject: Fw: la verità si fà largo
----- Original Message -----
From: Gioacchino Basile
To: Walter Giannò ; veltroni_w@camera.it ; unitaonline@unita.it ; IDV Staff ; sergio.lari@giustizia.it ; Segreteria MicroMega ; segreteria@lasicilia.it ; segreteria@lapadania.net ; redazioneweb@ilgiornaledivicenza.it ; redazionefvg@telechiara.it ; redazione@vocedimegaride.it ; redazione@varesenews.it ; l'Occidentale - Redazione ; redazione@livesicilia.it ; redazione@legnostorto.com ; redazione@ilsecoloXIX.it ; redazione@ilriformista.it ; redazione@ilmanifesto.it ; redazione@ilfatto.net ; redazione@articolo21.com ; Riccardo Arena ; procura.torino@giustizia.it ; procura.cagliari@giustizia.it ; Nando dalla Chiesa ; pinofinocchiaro@iol.it ; pg.trieste@giustizia.it ; Proc. Generale PALERMO ; pg.caltanissetta@giustizia.it ; palermo@repubblica.it ; palazzol@tin.it ; Peter Gomez ; Ansa Palermo ; alfredo@mantovano.it ; alfio caruso ; Borsellino Salvatore ; a.ziniti@repubblica.it
Cc: segreteria@massimofini.it ; segreteria@ilfattoquotidiano.it ; segreteria@antoniodipietro.it ; Sebastiano Gulisano ; santagatando@live.it ; s.borsellino@teleware.it ; DOMENICO ROTELLA ; redmi@ilmanifesto.it ; redazione@misteriditalia.com ; redazione@guidasicilia.it ; redazione@giustiziagiusta.info ; redazione@giustizia.it ; redazione@cataniaoggi.com ; redazione@canale7.tv ; redazione@bergamonews.it ; alfredo@mantovano.org
Sent: Sunday, December 19, 2010 7:18 PM
Subject: Fw: la verità si fà largo
ECCO CHI SONO GLI AMICI TANTO CARI A SALVATORE BORSELLINO, E DI QUEI MISERABILI CHE OPERANO CONTRO L'INFAME MOVENTE CHE NECESSITO DELL'URGENTE STRAGE DI VIA D'AMELIO PER LIBERARE I TUGURI DELLA PROCURA DI PALERMO, DALLA PRESENZA D'UN EROE VERO. D'UN MAGISTRATO DEGNO DI TALI FUNZIONI, CHE GIA LUNEDI 20 LUGLIO, APPLICANDO SEMPLICEMENTE LA LEGGE AVREBBE MESSO IN GINOCCHIO L'INFAME TEATRINO POLITICO, ISTITUZIONALE, ECONOMICO E SINDACALE, CHE GOVERNAVA IL NOSTRO PAESE IN QUEGLI ANNI.
SALVATORE BORSELLINO SA BENISSIMO DI COSA STIAMO PARLANDO, MA FORSE - MI PIACE ANCORA SPERARE - NON IN PIENA CONSAPEVOLEZZA CONTINUA A COMPORTARSI COME IL FIGLIO VILE DEL MORTO AMMAZZATO IN BORGATA, CHE SAPEVA, MA FACEVA FINTA DI NON CAPIRE, ED OGNI GIORNO BACIAVA LE MANI DI QUELLI CHE AVEVANO VOLUTO LA MORTE DI SUO PADRE E MANIFESTAVA LORO PUBBLICAMENTE STIMA, AFFIDANDO ALLA LORO BENEVOLA AMICIZIA LA SPERANZA DELLA SUA SETE DI GIUSTIZIA (SIC.).
CON LA TENACE SPERANZA, CHE SALVATORE NON SIA IL FRATELLO DI ABELE, MA DI PAOLO BORSELLINO GLI RIVOLGO ANCORA L'ULTERIORE E DOLOROSO GRIDO DI CHI HA UN'IMPLACABILE SETE DI GIUSTIZIA: SE LUNEDì 20 LUGLIO 1992 TUO FRATELLO PAOLO ENTRAVA IN PROCURA E PRENDEVA POSSESSO DEL VERBALE D'INTERROGATORIO, CHE IL PRECEDENTE GIOVEDI 16 LUGLIO AVEVO SOTTOSCRITTO CON L'ATTUALE PROCURATORE AGGIUNTO DI PALERMO, VITTORIO TERESI ED ALTRO SUO PARI, I RESTI POLITICI, ECONOMICI E SINDACALI SALVATI IN QUEL TEMPO DA TANGENTOPOLI FINIVANO STRITOLATI DA UN OLOCAUSTO GIUDIZIARIO CHE METTEVA IN GINOCCHIO IL NOSTRO PAESE.
GIOACCHINO BASILE
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Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.
POL - Ciancimino: Io icona antimafia, ho accesso a banche dati magistrati
Nei colloqui intercettati racconta di avere ancora 5 milioni di euro all’estero. Preoccupato per la sua immagine.
Roma, 18 dic (Il Velino) - Racconta di aver accesso alle banche dati dei magistrati di Palermo. Si preoccupa di riciclare denaro, e si offre anche come “corriere” (“Io non ho problemi, che sono con scorte e tutto, passo ovunque...”). Dice di avere ancora cinque milioni di euro in una banca all’estero “a fare la muffa”. Dalle intercettazioni - riportate sul Corriere della Sera da Giovanni Bianconi - dei colloqui con un imprenditore sospettato di essere vicino alla ‘ndrangheta, sembra emergere un altro ritratto di Massimo Ciancimino. Molto più spavaldo. A tratti quasi “onnipotente”. Sicuramente lucido quando assicura di essere “un’icona dell’antimafia” (si compiace della sua partecipazione alla trasmissione televisiva “Annozero”), si preoccupa della sua immagine (nel caso in cui fosse sorpreso a versare, spendere o spostare banconote, dice, “Vado su tutti i giornali del mondo”), e perciò sente di avere quasi una sorta di impunità perché “se io dico, mi vogliono fottere con una minchiata, mi vogliono coinvolgere e robe varie, loro... in gioco io c’ho molto di più di un’inchiesta fiscale...”. La prossima settimana, ricorda il Corriere della Sera, Ciancimino “tornerà dai pubblici ministeri palermitani per consegnare nuovi documenti e ricordi sulla presunta trattativa fra Stato e mafia dal 1992 in avanti. Per le cose che lui stesso ha portato e detto, il figlio dell’ex sindaco corleonese di Palermo è stato indagato per concorso in associazione mafiosa ed è finito sotto accusa a Caltanissetta per calunnia nei confronti del prefetto De Gennaro. Da ultimo, a Reggio Calabria, l’hanno inquisito per riciclaggio, e ieri è stato interrogato il suo presunto complice: Girolamo Strangi, imprenditore sospettato di essere vicino alla potente famiglia di ’ndrangheta dei Piromalli, dal quale Ciancimino jr si recava, a Verona, dopo aver eluso la scorta che solitamente lo accompagna”.
Da qui la ricostruzione dei colloqui intercettati con Ciancimino, contestati dai magistrati a Strangi. Sotto la lente degli inquirenti, il dialogo del 1° dicembre scorso, “nel quale i due parlano dello scambio fra denaro contante (di Ciancimino) e assegni (di Strangi) e altre vicende. Comprese - scrive il quotidiano di via Solferino - le preoccupazioni giudiziarie dell’imprenditore calabrese, che il suo interlocutore si propone di risolvere. ‘A me mi stanno addosso...’ , dice Strangi. E Ciancimino: ‘Se hai problemi dimmelo.. A Verona ti faccio nominare un avvocato che, praticamente, è il professore all’Accademia della Guardia di finanza’ . Poi sostiene di essere in grado di verificare l’esistenza di qualsiasi indagine grazie alla banca dati dei magistrati di Palermo, di cui afferma di poter disporre pressoché a suo piacimento: ‘Io me la vado a vedere nel registro... C’è la convergenza nazionale dei dati... e ti stampano tutto, quelle in corso e tutto... Se gli digito un nome mi dice se c’è l’iscrizione in un’indagine, anche dei vigili urbani. È la banca dati del Ministero... della Dda, dell’antimafia, ce li ha tutti i dati, pure se hai perso il passaporto... Se ti serve saperlo io... quando ho un attimo guardo...’ . Strangi si mostra interessato ma dubbioso: ‘Non vorrei innescare un meccanismo che tu vai a vedere e quello... Non vorrei causare casini’ , e Ciancimino ribatte: ‘Sennò regalo un i-phone a qualcuno e glielo faccio vedere’”. Per gli inquirenti il figlio di “don Vito” sta millantando “per mostrare ad un possibile socio in affari di essere poco meno che onnipotente”. In particolare “quando dice: ‘Io faccio quello che minchia voglio là dentro... L’altra volta mi sono andato a vedere un file dove c’erano le barche da sequestrare’ . E poi, riferendosi a inchieste fiscali a suo carico (ce n’è una a Forlì) e alla trasmissione 'Annozero' alla quale aveva appena partecipato: ‘L’hai vista? Sono un’icona per loro! Se io dico, mi vogliono fottere con una minchiata, mi vogliono coinvolgere e robe varie, loro... in gioco io c’ho molto di più di un’inchiesta fiscale.... E allora gli dicono a quelli: guardate che è il nostro teste principale d’accusa su quel che è successo negli ultimi vent’anni, non me lo screditate per una cazzata..’".
"Se queste possono essere vanterie di un personaggio che ha interesse a mostrarsi spavaldo e influente col suo interlocutore - sottolinea il Corriere della Sera -, più concrete sembrano le frasi in cui Ciancimino appare intenzionato a concludere lo scambio di contanti contro assegni: ‘Li porto in Italia i miei cento e poi li dò a Paolo?....’ . E ancora: ‘Una volta che abbiamo messi questi cento, mi devi dare settanta di assegni, giusto?’ . Centomila contro settantamila, par di capire. Perché Massimo Ciancimino — già condannato per riciclaggio di una parte del ‘tesoro’ di provenienza mafiosa accumulato dal padre - sostiene di avere molto contante in Francia, che deve far rientrare in Italia sotto altre forme: ‘Per me il contante è micidiale! Io faccio tutto con carta di credito... A me serve.. Perché girano le tue aziende, che poi riesci a farmele avere come consulenze... L’ideale sarebbe creare una società all’estero a cui io fatturo consulenza tipo informatica, energie... cose varie... e loro mi pagano’.. Ciancimino dice a Strangi che per lui i contanti ‘sono carta straccia’ , e spiega che se venisse sorpreso a versare, spendere o spostare banconote ricomincerebbero i suoi guai ‘Vado su tutti i giornali del mondo, ‘Ciancimino è andato a recuperare il tesoro’, sono rovinato’”. Un altro passaggio importante è quando parlano del denaro che “sta a Parigi” e del modo per farlo rientrare: “Un intermediario - è la ricostruzione del Corriere della Sera -, tale Paolo, sarebbe dovuto andare a Parigi e portare il denaro in macchina fino in Calabria, ma Ciancimino è perplesso: ‘Ti fidi a fare tutto questo percorso in macchina con i soldi? Io non ho problemi, che sono con scorte e tutto, passo ovunque...’ . Da quel che dice il figlio di ‘don Vito’ , quei contanti da riconvertire in altre forme sembrano derivare dalla vendita della società Gas Natural, vicenda già passata al setaccio nel processo in cui è stato condannato”. Poi si parla del denaro che sarebbe rimasto. Da “sette” (presumibilmente milioni di euro, scrive il Corriere della Sera) che erano, Massimo dice che “alcuni li ho spesi e poi sono rimasti...” . “In tutto - annota il quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli - sarebbero cinque milioni: ‘Io ce ne ho un pacco ancora da cinque che è sottovuoto... la banca me li dà sottovuoto cinque milioni...’ . E in un altro passaggio Ciancimino jr si lamenta: ‘Stanno là a fare la muffa!’”.
E’ uno con cui non sono quasi mai d’accordo anche perché è di sinistra ma su queste cosa mi pare stia dalla parte giusta
Da: Gioacchino Basile [mailto:gioacchino_basile@tin.it]
Inviato: domenica 19 dicembre 2010 19:49
A: direttore@stabiachannel.it; direttore@siciliainformazioni.com; Panorama Direttore; Nebrodi e Dintorni; diaconale@opinione.it; dario.campolo@libero.it; Giancarlo Caselli; Giuseppe Casarrubea; elio.veltri2004@libero.it; edmondo.brutiliberati@giustizia.it; c.augias@repubblica.it; Borsellino Salvatore
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Oggetto: Fw: la verità si fà largo
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From: Gioacchino Basile
To: annozero@rai.it ; ansa..palermo@ansanet.it ; ansa.trieste@ansanet.it ; apiccione@unime.it ; bersani_p@camera.it ; Associazione Cuntrastamu ; Salvatore Borsellino - 2
Cc: Pier Luigi On. Bersani ; vincenzo guidotto
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From: Gioacchino Basile
To: Walter Giannò ; veltroni_w@camera.it ; unitaonline@unita.it ; IDV Staff ; sergio.lari@giustizia.it ; Segreteria MicroMega ; segreteria@lasicilia.it ; segreteria@lapadania.net ; redazioneweb@ilgiornaledivicenza.it ; redazionefvg@telechiara.it ; redazione@vocedimegaride.it ; redazione@varesenews.it ; l'Occidentale - Redazione ; redazione@livesicilia.it ; redazione@legnostorto.com ; redazione@ilsecoloXIX.it ; redazione@ilriformista.it ; redazione@ilmanifesto.it ; redazione@ilfatto.net ; redazione@articolo21.com ; Riccardo Arena ; procura.torino@giustizia.it ; procura.cagliari@giustizia.it ; Nando dalla Chiesa ; pinofinocchiaro@iol.it ; pg.trieste@giustizia.it ; Proc. Generale PALERMO ; pg.caltanissetta@giustizia.it ; palermo@repubblica.it ; palazzol@tin.it ; Peter Gomez ; Ansa Palermo ; alfredo@mantovano.it ; alfio caruso ; Borsellino Salvatore ; a.ziniti@repubblica.it
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ECCO CHI SONO GLI AMICI TANTO CARI A SALVATORE BORSELLINO, E DI QUEI MISERABILI CHE OPERANO CONTRO L'INFAME MOVENTE CHE NECESSITO DELL'URGENTE STRAGE DI VIA D'AMELIO PER LIBERARE I TUGURI DELLA PROCURA DI PALERMO, DALLA PRESENZA D'UN EROE VERO. D'UN MAGISTRATO DEGNO DI TALI FUNZIONI, CHE GIA LUNEDI 20 LUGLIO, APPLICANDO SEMPLICEMENTE LA LEGGE AVREBBE MESSO IN GINOCCHIO L'INFAME TEATRINO POLITICO, ISTITUZIONALE, ECONOMICO E SINDACALE, CHE GOVERNAVA IL NOSTRO PAESE IN QUEGLI ANNI.
SALVATORE BORSELLINO SA BENISSIMO DI COSA STIAMO PARLANDO, MA FORSE - MI PIACE ANCORA SPERARE - NON IN PIENA CONSAPEVOLEZZA CONTINUA A COMPORTARSI COME IL FIGLIO VILE DEL MORTO AMMAZZATO IN BORGATA, CHE SAPEVA, MA FACEVA FINTA DI NON CAPIRE, ED OGNI GIORNO BACIAVA LE MANI DI QUELLI CHE AVEVANO VOLUTO LA MORTE DI SUO PADRE E MANIFESTAVA LORO PUBBLICAMENTE STIMA, AFFIDANDO ALLA LORO BENEVOLA AMICIZIA LA SPERANZA DELLA SUA SETE DI GIUSTIZIA (SIC.).
CON LA TENACE SPERANZA, CHE SALVATORE NON SIA IL FRATELLO DI ABELE, MA DI PAOLO BORSELLINO GLI RIVOLGO ANCORA L'ULTERIORE E DOLOROSO GRIDO DI CHI HA UN'IMPLACABILE SETE DI GIUSTIZIA: SE LUNEDì 20 LUGLIO 1992 TUO FRATELLO PAOLO ENTRAVA IN PROCURA E PRENDEVA POSSESSO DEL VERBALE D'INTERROGATORIO, CHE IL PRECEDENTE GIOVEDI 16 LUGLIO AVEVO SOTTOSCRITTO CON L'ATTUALE PROCURATORE AGGIUNTO DI PALERMO, VITTORIO TERESI ED ALTRO SUO PARI, I RESTI POLITICI, ECONOMICI E SINDACALI SALVATI IN QUEL TEMPO DA TANGENTOPOLI FINIVANO STRITOLATI DA UN OLOCAUSTO GIUDIZIARIO CHE METTEVA IN GINOCCHIO IL NOSTRO PAESE.
GIOACCHINO BASILE
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POL - Ciancimino: Io icona antimafia, ho accesso a banche dati magistrati
Nei colloqui intercettati racconta di avere ancora 5 milioni di euro all’estero. Preoccupato per la sua immagine.
Roma, 18 dic (Il Velino) - Racconta di aver accesso alle banche dati dei magistrati di Palermo. Si preoccupa di riciclare denaro, e si offre anche come “corriere” (“Io non ho problemi, che sono con scorte e tutto, passo ovunque...”). Dice di avere ancora cinque milioni di euro in una banca all’estero “a fare la muffa”. Dalle intercettazioni - riportate sul Corriere della Sera da Giovanni Bianconi - dei colloqui con un imprenditore sospettato di essere vicino alla ‘ndrangheta, sembra emergere un altro ritratto di Massimo Ciancimino. Molto più spavaldo. A tratti quasi “onnipotente”. Sicuramente lucido quando assicura di essere “un’icona dell’antimafia” (si compiace della sua partecipazione alla trasmissione televisiva “Annozero”), si preoccupa della sua immagine (nel caso in cui fosse sorpreso a versare, spendere o spostare banconote, dice, “Vado su tutti i giornali del mondo”), e perciò sente di avere quasi una sorta di impunità perché “se io dico, mi vogliono fottere con una minchiata, mi vogliono coinvolgere e robe varie, loro... in gioco io c’ho molto di più di un’inchiesta fiscale...”. La prossima settimana, ricorda il Corriere della Sera, Ciancimino “tornerà dai pubblici ministeri palermitani per consegnare nuovi documenti e ricordi sulla presunta trattativa fra Stato e mafia dal 1992 in avanti. Per le cose che lui stesso ha portato e detto, il figlio dell’ex sindaco corleonese di Palermo è stato indagato per concorso in associazione mafiosa ed è finito sotto accusa a Caltanissetta per calunnia nei confronti del prefetto De Gennaro. Da ultimo, a Reggio Calabria, l’hanno inquisito per riciclaggio, e ieri è stato interrogato il suo presunto complice: Girolamo Strangi, imprenditore sospettato di essere vicino alla potente famiglia di ’ndrangheta dei Piromalli, dal quale Ciancimino jr si recava, a Verona, dopo aver eluso la scorta che solitamente lo accompagna”.
Da qui la ricostruzione dei colloqui intercettati con Ciancimino, contestati dai magistrati a Strangi. Sotto la lente degli inquirenti, il dialogo del 1° dicembre scorso, “nel quale i due parlano dello scambio fra denaro contante (di Ciancimino) e assegni (di Strangi) e altre vicende. Comprese - scrive il quotidiano di via Solferino - le preoccupazioni giudiziarie dell’imprenditore calabrese, che il suo interlocutore si propone di risolvere. ‘A me mi stanno addosso...’ , dice Strangi. E Ciancimino: ‘Se hai problemi dimmelo.. A Verona ti faccio nominare un avvocato che, praticamente, è il professore all’Accademia della Guardia di finanza’ . Poi sostiene di essere in grado di verificare l’esistenza di qualsiasi indagine grazie alla banca dati dei magistrati di Palermo, di cui afferma di poter disporre pressoché a suo piacimento: ‘Io me la vado a vedere nel registro... C’è la convergenza nazionale dei dati... e ti stampano tutto, quelle in corso e tutto... Se gli digito un nome mi dice se c’è l’iscrizione in un’indagine, anche dei vigili urbani. È la banca dati del Ministero... della Dda, dell’antimafia, ce li ha tutti i dati, pure se hai perso il passaporto... Se ti serve saperlo io... quando ho un attimo guardo...’ . Strangi si mostra interessato ma dubbioso: ‘Non vorrei innescare un meccanismo che tu vai a vedere e quello... Non vorrei causare casini’ , e Ciancimino ribatte: ‘Sennò regalo un i-phone a qualcuno e glielo faccio vedere’”. Per gli inquirenti il figlio di “don Vito” sta millantando “per mostrare ad un possibile socio in affari di essere poco meno che onnipotente”. In particolare “quando dice: ‘Io faccio quello che minchia voglio là dentro... L’altra volta mi sono andato a vedere un file dove c’erano le barche da sequestrare’ . E poi, riferendosi a inchieste fiscali a suo carico (ce n’è una a Forlì) e alla trasmissione 'Annozero' alla quale aveva appena partecipato: ‘L’hai vista? Sono un’icona per loro! Se io dico, mi vogliono fottere con una minchiata, mi vogliono coinvolgere e robe varie, loro... in gioco io c’ho molto di più di un’inchiesta fiscale.... E allora gli dicono a quelli: guardate che è il nostro teste principale d’accusa su quel che è successo negli ultimi vent’anni, non me lo screditate per una cazzata..’".
"Se queste possono essere vanterie di un personaggio che ha interesse a mostrarsi spavaldo e influente col suo interlocutore - sottolinea il Corriere della Sera -, più concrete sembrano le frasi in cui Ciancimino appare intenzionato a concludere lo scambio di contanti contro assegni: ‘Li porto in Italia i miei cento e poi li dò a Paolo?....’ . E ancora: ‘Una volta che abbiamo messi questi cento, mi devi dare settanta di assegni, giusto?’ . Centomila contro settantamila, par di capire. Perché Massimo Ciancimino — già condannato per riciclaggio di una parte del ‘tesoro’ di provenienza mafiosa accumulato dal padre - sostiene di avere molto contante in Francia, che deve far rientrare in Italia sotto altre forme: ‘Per me il contante è micidiale! Io faccio tutto con carta di credito... A me serve.. Perché girano le tue aziende, che poi riesci a farmele avere come consulenze... L’ideale sarebbe creare una società all’estero a cui io fatturo consulenza tipo informatica, energie... cose varie... e loro mi pagano’.. Ciancimino dice a Strangi che per lui i contanti ‘sono carta straccia’ , e spiega che se venisse sorpreso a versare, spendere o spostare banconote ricomincerebbero i suoi guai ‘Vado su tutti i giornali del mondo, ‘Ciancimino è andato a recuperare il tesoro’, sono rovinato’”. Un altro passaggio importante è quando parlano del denaro che “sta a Parigi” e del modo per farlo rientrare: “Un intermediario - è la ricostruzione del Corriere della Sera -, tale Paolo, sarebbe dovuto andare a Parigi e portare il denaro in macchina fino in Calabria, ma Ciancimino è perplesso: ‘Ti fidi a fare tutto questo percorso in macchina con i soldi? Io non ho problemi, che sono con scorte e tutto, passo ovunque...’ . Da quel che dice il figlio di ‘don Vito’ , quei contanti da riconvertire in altre forme sembrano derivare dalla vendita della società Gas Natural, vicenda già passata al setaccio nel processo in cui è stato condannato”. Poi si parla del denaro che sarebbe rimasto. Da “sette” (presumibilmente milioni di euro, scrive il Corriere della Sera) che erano, Massimo dice che “alcuni li ho spesi e poi sono rimasti...” . “In tutto - annota il quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli - sarebbero cinque milioni: ‘Io ce ne ho un pacco ancora da cinque che è sottovuoto... la banca me li dà sottovuoto cinque milioni...’ . E in un altro passaggio Ciancimino jr si lamenta: ‘Stanno là a fare la muffa!’”.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Lo metto qui, ma andrebbe da Napolitano.
L’icona Ciancimino
Davide Giacalone
I miracoli esistono, come anche i miracolati. Uno di questi riguarda e beneficia Massimo Ciancimino. Trattasi di figlio di un mafioso, a sua volta riciclatore dei soldi criminalmente accumulati dal padre, protagonista di false intestazioni immobiliari, maggiordomo d’incontri con assassini, un individuo cui speri solo che la giustizia riesca a comminare le pene che merita. Ma qui scatta il miracolo: siccome si produce in racconti utili per collegare Silvio Berlusconi alla mafia, ecco che il rampollo della disonorata società diventa star dell’antimafiosità politicizzata e d’accatto, utilizzato da qualche magistrato e dall’imponente blocco pubblicistico che lo trasfigura in riciclatore dell’anima sua. Al punto da potere aspirare a rimettere le mani su piccioli non suoi, perché se la giustizia funzionasse dovrebbero essere prima sequestrati e poi pignoranti, per andare a rimpinguare le casse di uno Stato già abbondantemente danneggiato dai Ciancimino.
Ma non basta, perché i miracoli sono stupefacenti per definizione: lo si è trasformato anche in madonna pellegrina che va in giro presentando un libro di confessioni e rivelazioni, che, come abbiamo più volte dimostrato, è un cumulo di fandonie frammiste a ovvietà, raccogliendo platee cui si fornisce lo spettacolo indecente di un condannato che usa il padre morto e il figlio da poco nato per strappare qualche applauso impietosito. Si dice coraggioso, e a chi gli fa notare che il suo argomentare non sta in piedi, a chi gli ricorda d’essere stato complice dei mafiosi, egli risponde serafico: vorrei vedere lei al mio posto, con un padre dispostico e in totale dipendenza da lui. Come se i figli dei criminali debbano essere criminali a loro volta per forza di natura, se non addirittura per affetto. Lui lo è stato per convenienza. Può darsi che lo sia stato anche per viltà, ma non riesco a considerarla un’attenuante.
Il nettare della sua narrazione pubblica, replica fantasiosa di quanto raccontato alle procure, è il seguente: Vito Ciancimino, il padre, fu lo stratega e il negoziatore della trattativa fra la mafia corleonese, nella persona di Bernardo Provenzano, e il nuovo potere politico, nella persona di Silvio Berlusconi. Quest’ultimo ebbe rapporti diretti, di fattiva collaborazione, con il mafioso Vito, o d’indiretta intesa con i corleonesi, mediante Marcello Dell’Utri. Il tutto destinato a porre fine alla stagione stragista e far avere all’ala non forsennata dei corleonesi le concessioni necessarie a placare l’incedere operativo dei bombaroli. Ci mancano solo i sette nani alleati di cappuccetto rosso. Peccato che Giovanni Conso abbia chiarito il quadro: è vero che il governo decise di fare delle concessioni ai mafiosi, è vero che fu cancellato il carcere duro (41 bis della legge che regola la detenzione) per far cessare le bombe, è vero che al ministero della giustizia si accettò il nesso fra le due cose, ma correva l’anno 1993 e a Palazzo Chigi sedeva Carlo Azelio Ciampi. Per intenderci: Giulio Andreotti era già stato fatto fuori e Berlusconi politico non era ancora nato.
Noi abbiamo più volte sostenuto che la trama della trattativa, così come raccontata anche da soggetti come Gaspare Spatuzza, mancava dei requisiti logici e cronologici. Abbiamo usato il ragionamento e la memoria. Dopo le parole di Conso, che firmò personalmente, quale ministro della Giustizia, i provvedimenti dei quali ora parla, siamo tenuti ad escludere che altri responsabili istituzionali non ne fossero al corrente: il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro), il presidente del Consiglio e il presidente della Commissione bicamerale antimafia (Luciano Violante). Tutti loro hanno molto e a lungo argomentato tesi e additato complotti che vengono sbugiardati dalla realtà dei fatti ora emersi. Tre incapaci, tre depistatori o tre mestatori?
Torniamo a Massimo Ciancimino. Noi non abbiamo mai chiamato “pentiti” i collaboratori di giustizia. Non esprimo giudizi morali, perché è evidente che le più preziose notizie dall’interno del mondo criminale non possono che venire da criminali. Mi sta bene anche il patto con loro: tu mi dici quello che sai, mi aiuti a provarlo, e io Stato ti faccio lo sconto, anche assai generoso, sulla pena che dovresti altrimenti scontare. Ma è necessaria una postilla: se mi prendi in giro te la faccio pagare, con gli interessi. In questo Paese scombinato, però, non si può dire, perché si alza subito qualche colorito rappresentante dell’antimafia militante e ti dice: così vuoi chiudere la bocca ai collaboratori. No, è che non vorrei chiuderla alla legalità.
Poi arriva il procuratore di turno e teorizza: Ciancimino è credibile a intermittenza. Come gli alberi di Natale. A seconda di quel che dice. Ci sto, ma lo restituiamo alla sua sorte di condannato, perché un collaboratore di giustizia non può raccontare balle. Noi, fin qui, non solo glielo abbiamo consentito, ma ne abbiamo fatto un’icona. Abbiamo divizzato il cattivo esempio. E’ tempo di chiudere questa vergogna.
Davide Giacalone
I miracoli esistono, come anche i miracolati. Uno di questi riguarda e beneficia Massimo Ciancimino. Trattasi di figlio di un mafioso, a sua volta riciclatore dei soldi criminalmente accumulati dal padre, protagonista di false intestazioni immobiliari, maggiordomo d’incontri con assassini, un individuo cui speri solo che la giustizia riesca a comminare le pene che merita. Ma qui scatta il miracolo: siccome si produce in racconti utili per collegare Silvio Berlusconi alla mafia, ecco che il rampollo della disonorata società diventa star dell’antimafiosità politicizzata e d’accatto, utilizzato da qualche magistrato e dall’imponente blocco pubblicistico che lo trasfigura in riciclatore dell’anima sua. Al punto da potere aspirare a rimettere le mani su piccioli non suoi, perché se la giustizia funzionasse dovrebbero essere prima sequestrati e poi pignoranti, per andare a rimpinguare le casse di uno Stato già abbondantemente danneggiato dai Ciancimino.
Ma non basta, perché i miracoli sono stupefacenti per definizione: lo si è trasformato anche in madonna pellegrina che va in giro presentando un libro di confessioni e rivelazioni, che, come abbiamo più volte dimostrato, è un cumulo di fandonie frammiste a ovvietà, raccogliendo platee cui si fornisce lo spettacolo indecente di un condannato che usa il padre morto e il figlio da poco nato per strappare qualche applauso impietosito. Si dice coraggioso, e a chi gli fa notare che il suo argomentare non sta in piedi, a chi gli ricorda d’essere stato complice dei mafiosi, egli risponde serafico: vorrei vedere lei al mio posto, con un padre dispostico e in totale dipendenza da lui. Come se i figli dei criminali debbano essere criminali a loro volta per forza di natura, se non addirittura per affetto. Lui lo è stato per convenienza. Può darsi che lo sia stato anche per viltà, ma non riesco a considerarla un’attenuante.
Il nettare della sua narrazione pubblica, replica fantasiosa di quanto raccontato alle procure, è il seguente: Vito Ciancimino, il padre, fu lo stratega e il negoziatore della trattativa fra la mafia corleonese, nella persona di Bernardo Provenzano, e il nuovo potere politico, nella persona di Silvio Berlusconi. Quest’ultimo ebbe rapporti diretti, di fattiva collaborazione, con il mafioso Vito, o d’indiretta intesa con i corleonesi, mediante Marcello Dell’Utri. Il tutto destinato a porre fine alla stagione stragista e far avere all’ala non forsennata dei corleonesi le concessioni necessarie a placare l’incedere operativo dei bombaroli. Ci mancano solo i sette nani alleati di cappuccetto rosso. Peccato che Giovanni Conso abbia chiarito il quadro: è vero che il governo decise di fare delle concessioni ai mafiosi, è vero che fu cancellato il carcere duro (41 bis della legge che regola la detenzione) per far cessare le bombe, è vero che al ministero della giustizia si accettò il nesso fra le due cose, ma correva l’anno 1993 e a Palazzo Chigi sedeva Carlo Azelio Ciampi. Per intenderci: Giulio Andreotti era già stato fatto fuori e Berlusconi politico non era ancora nato.
Noi abbiamo più volte sostenuto che la trama della trattativa, così come raccontata anche da soggetti come Gaspare Spatuzza, mancava dei requisiti logici e cronologici. Abbiamo usato il ragionamento e la memoria. Dopo le parole di Conso, che firmò personalmente, quale ministro della Giustizia, i provvedimenti dei quali ora parla, siamo tenuti ad escludere che altri responsabili istituzionali non ne fossero al corrente: il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro), il presidente del Consiglio e il presidente della Commissione bicamerale antimafia (Luciano Violante). Tutti loro hanno molto e a lungo argomentato tesi e additato complotti che vengono sbugiardati dalla realtà dei fatti ora emersi. Tre incapaci, tre depistatori o tre mestatori?
Torniamo a Massimo Ciancimino. Noi non abbiamo mai chiamato “pentiti” i collaboratori di giustizia. Non esprimo giudizi morali, perché è evidente che le più preziose notizie dall’interno del mondo criminale non possono che venire da criminali. Mi sta bene anche il patto con loro: tu mi dici quello che sai, mi aiuti a provarlo, e io Stato ti faccio lo sconto, anche assai generoso, sulla pena che dovresti altrimenti scontare. Ma è necessaria una postilla: se mi prendi in giro te la faccio pagare, con gli interessi. In questo Paese scombinato, però, non si può dire, perché si alza subito qualche colorito rappresentante dell’antimafia militante e ti dice: così vuoi chiudere la bocca ai collaboratori. No, è che non vorrei chiuderla alla legalità.
Poi arriva il procuratore di turno e teorizza: Ciancimino è credibile a intermittenza. Come gli alberi di Natale. A seconda di quel che dice. Ci sto, ma lo restituiamo alla sua sorte di condannato, perché un collaboratore di giustizia non può raccontare balle. Noi, fin qui, non solo glielo abbiamo consentito, ma ne abbiamo fatto un’icona. Abbiamo divizzato il cattivo esempio. E’ tempo di chiudere questa vergogna.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Vi invito a passare dalle parti del link.
http://segugio.splinder.com/post/23764092/la-patacca-rossa
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
Aggiornamenti su "strani casi".
Testimoni di ferro
.pubblicata da Enrico Tagliaferro il giorno martedì 21 dicembre 2010 alle ore 22.44.Oggi, al processo Mori, si è parlato della perquisizione di casa Ciancimino, all’Addaura, nel 2005.
Quella alla quale Travaglio dedicò un suo passaparola, lamentando il fatto che i carabinieri, in quella circostanza, “si scordarono” di aprire la cassaforte, pur ben visibile nella stanzetta della badante, rifiutando persino l’offerta delle chiavi da parte dei padroni di casa.
Motivo del rifiuto: in quella cassaforte c’era il papello, e i carabinieri lo sapevano bene.
Junior dixit.
Oggi in aula è venuta fuori la nuova versione, già annunciata qualche settimana fa dai giornali:
“Il capitano Angeli mi disse che, nel corso di una perquisizione a casa di Ciancimino, trovò il papello di Totò Riina, e informò della scoperta il suo superiore, il colonnello Sottili, ma che questi gli ordinò di non sequestrarlo sostenendo che già lo avevano”.
Lo ha detto il maresciallo Saverio Masi, sottufficiale dei carabinieri, oggi in aula come testimone.
Come riferisce Livesicilia, Masi
“ha raccontato quanto appreso dall’allora capitano Antonello Angeli che effettuò una perquisizione a casa di Massimo Ciancimino, nel 2005 indagato per il riciclaggio del tesoro del padre, l’ex sindaco di Palermo Vito. In casa del superteste della trattativa, nascosto in un controsoffitto, ci sarebbe stato l’elenco con le richieste di Riina allo Stato. Esterrefatto dall’ordine del superiore di non sequestrare il papello, Angeli lo fece fotocopiare di nascosto a un collega.
Angeli informò della vicenda il maresciallo circa un anno dopo la perquisizione a casa di Massimo Ciancimino e gli raccontò di averne poi discusso animatamente con Sottili e con un altro ufficiale del Reparto Operativo, Francesco Gosciu. Il capitano scelse il sottufficiale per la confidenza sapendo che questi aveva avuto rapporti conflittuali sia con Sottili che con Gosciu, quindi essendo certo di trovare in lui un “alleato”. Angeli e Masi, molto preoccupati per la decisione di non sequestrare il papello, decisero di far filtrare la notizia sulla stampa.
Una mossa che, secondo loro, avrebbe “costretto” i magistrati a convocarli e gli avrebbe consentito di rivelare all’autorità giudiziaria una circostanza che ritenevano inquietante. Nel giugno del 2006 Masi, insieme a un altro sottufficiale, contattò allora il giornalista dell’Unità Saverio Lodato proponendogli un appuntamento con un collega, ma non facendogli il nome di Angeli, e dicendogli di essere intenzionati a dargli una notizia importante. Al cronista chiesero però la garanzia della pubblicazione del pezzo.”
E dunque, facciamo il punto.
Intanto, come ha stigmatizzato l’avvocato Basilio Milio durante il dibattimento, questo Masi è un carabiniere sottoposto a procedimento penale per falso materiale (ma dai…), più volte trasferito, tanto da passare da uomo del ROS ad attuale membro della scorta, cioè guardaspalle, proprio di Di Matteo, il Pubblico Ministero, cioè di una delle parti processuali.
I fatti che descrive, li descrive de relato, non vi ha assistito direttamente.
Si tratta di un tipo di testimonianza quindi, che non sarebbe neppure ammessa, per regola, in un processo americano, o comunque secondo la procedura anglosassone dove sono ammesse solo le testimonianze dirette.
Il teste diretto ci sarebbe, ed è Angeli, ma guarda caso, a testimoniare, non è stato citato lui, ma il collega.
Angeli è invece indagato, allo stato attuale e sempre da quella procura, per non aver voluto aprire la cassaforte proprio in quella perquisizione, e per non aver in generale voluto perquisire a fondo, così come ha riferito Ciancimino.
E come ha relazionato Travaglio.
Ora però, mentre secondo Ciancimino e Travaglio Angeli non avrebbe voluto aprire la cassaforte rifiutando persino le chiavi pur di non trovare il papello, secondo Masi invece avrebbe frugato tutto per benino, sin sotto ai controsoffitti, tanto da trovare il famigerato papello che, secondo Ciancimino, si trovava invece in quel momento nella cassaforte (così ha dichiarato junior in interrogatorio), dove era stato riposto dopo che suo padre lo aveva estratto come una reliquia, nel 2002, dal retro di una copertina di un’enciclopedia, dove lo stesso don Vito lo aveva cautamente occultato nel 1992.
Fatto sta che questi strani carabinieri che secondo un ramo d’inchiesta dei PM non vogliono perquisire rifiutando anche le chiavi della cassaforte pur di non trovarci il papello, e secondo un altro ramo d’inchiesta degli stessi PM di prima, invece, lo fanno benissimo sin sotto i controsoffitti sino a scoprire il papello, salvo rimetterlo al suo posto per odine superiore, ad un certo punto si ritrovano in gruppetto perchè, un attimino rancorosi col un loro comandante un po’ troppo stressante sul piano disciplinare, cercano “alleati” nella prospettiva di tirargli un colpo gobbo.
E c'è, a rodergli per benino, la storia del papello rifiutato.
Guarda caso, un vero colpo di fortuna, proprio dal loro comandante.
A questo punto vanno dal giornalista dell’Unità Lodato, per spifferargli tutto del papello e sputtanare il loro comandante, (ma perché erano carabinieri onesti eh, mica perché erano in conflitto col loro comandante per ragioni disciplinari), ma, guarda caso, come ha riferito Lodato sempre nell’udienza di oggi smentendo clamorosamente Masi, non gli dicono un bel niente del papello:
“Venne a casa mia – ha raccontato Lodato – insieme a un altro carabiniere per dirmi che dovevano parlarmi di una cosa importante. Mi accennarono che erano a un passo dalla cattura di Messina Denaro (?) e che i superiori volevano bloccarli, ma dissero che ci saremmo dovuti incontrare in un altro luogo per parlarne meglio”.
Riferisce poi Livesicilia: “Il giornalista, che ha smentito Masi che aveva sostenuto di averlo cercato per raccontargli del mancato sequestro del papello, non diede credito ai due militari e lasciò cadere la cosa”
Invece, credito, glielo da la procura, a questo carabiniere della scorta della procura che nel 2006 si offriva come alleato con chi, come lui, aveva avuto rapporti conflittuali col suo comandante, all’interno del reparto.
Quello stesso comandante, il Col. Sottili, che, ancora e sempre guarda caso, è stato uno degli artefici dell’arresto di Michele Aiello (braccio destro finanziario di Provenzano, già boss della Sanità in Sicilia ma anche occasionale ristrutturatore di case al mare), e dell’indagine che ha trascinato a giudizio Totò Cuffaro, anche se non con Di Matteo e ed Ingroia come PM preposti, ma bensì con Prestipino e con quel Pignatone che oggi sta alla procura di Reggio, quella che ha inguaiato Ciancimino con la vicenda di “Gino u bancumàtt”.
Questo il quadretto.
Il paesaggio, naturalmente, la Sicilia.
.pubblicata da Enrico Tagliaferro il giorno martedì 21 dicembre 2010 alle ore 22.44.Oggi, al processo Mori, si è parlato della perquisizione di casa Ciancimino, all’Addaura, nel 2005.
Quella alla quale Travaglio dedicò un suo passaparola, lamentando il fatto che i carabinieri, in quella circostanza, “si scordarono” di aprire la cassaforte, pur ben visibile nella stanzetta della badante, rifiutando persino l’offerta delle chiavi da parte dei padroni di casa.
Motivo del rifiuto: in quella cassaforte c’era il papello, e i carabinieri lo sapevano bene.
Junior dixit.
Oggi in aula è venuta fuori la nuova versione, già annunciata qualche settimana fa dai giornali:
“Il capitano Angeli mi disse che, nel corso di una perquisizione a casa di Ciancimino, trovò il papello di Totò Riina, e informò della scoperta il suo superiore, il colonnello Sottili, ma che questi gli ordinò di non sequestrarlo sostenendo che già lo avevano”.
Lo ha detto il maresciallo Saverio Masi, sottufficiale dei carabinieri, oggi in aula come testimone.
Come riferisce Livesicilia, Masi
“ha raccontato quanto appreso dall’allora capitano Antonello Angeli che effettuò una perquisizione a casa di Massimo Ciancimino, nel 2005 indagato per il riciclaggio del tesoro del padre, l’ex sindaco di Palermo Vito. In casa del superteste della trattativa, nascosto in un controsoffitto, ci sarebbe stato l’elenco con le richieste di Riina allo Stato. Esterrefatto dall’ordine del superiore di non sequestrare il papello, Angeli lo fece fotocopiare di nascosto a un collega.
Angeli informò della vicenda il maresciallo circa un anno dopo la perquisizione a casa di Massimo Ciancimino e gli raccontò di averne poi discusso animatamente con Sottili e con un altro ufficiale del Reparto Operativo, Francesco Gosciu. Il capitano scelse il sottufficiale per la confidenza sapendo che questi aveva avuto rapporti conflittuali sia con Sottili che con Gosciu, quindi essendo certo di trovare in lui un “alleato”. Angeli e Masi, molto preoccupati per la decisione di non sequestrare il papello, decisero di far filtrare la notizia sulla stampa.
Una mossa che, secondo loro, avrebbe “costretto” i magistrati a convocarli e gli avrebbe consentito di rivelare all’autorità giudiziaria una circostanza che ritenevano inquietante. Nel giugno del 2006 Masi, insieme a un altro sottufficiale, contattò allora il giornalista dell’Unità Saverio Lodato proponendogli un appuntamento con un collega, ma non facendogli il nome di Angeli, e dicendogli di essere intenzionati a dargli una notizia importante. Al cronista chiesero però la garanzia della pubblicazione del pezzo.”
E dunque, facciamo il punto.
Intanto, come ha stigmatizzato l’avvocato Basilio Milio durante il dibattimento, questo Masi è un carabiniere sottoposto a procedimento penale per falso materiale (ma dai…), più volte trasferito, tanto da passare da uomo del ROS ad attuale membro della scorta, cioè guardaspalle, proprio di Di Matteo, il Pubblico Ministero, cioè di una delle parti processuali.
I fatti che descrive, li descrive de relato, non vi ha assistito direttamente.
Si tratta di un tipo di testimonianza quindi, che non sarebbe neppure ammessa, per regola, in un processo americano, o comunque secondo la procedura anglosassone dove sono ammesse solo le testimonianze dirette.
Il teste diretto ci sarebbe, ed è Angeli, ma guarda caso, a testimoniare, non è stato citato lui, ma il collega.
Angeli è invece indagato, allo stato attuale e sempre da quella procura, per non aver voluto aprire la cassaforte proprio in quella perquisizione, e per non aver in generale voluto perquisire a fondo, così come ha riferito Ciancimino.
E come ha relazionato Travaglio.
Ora però, mentre secondo Ciancimino e Travaglio Angeli non avrebbe voluto aprire la cassaforte rifiutando persino le chiavi pur di non trovare il papello, secondo Masi invece avrebbe frugato tutto per benino, sin sotto ai controsoffitti, tanto da trovare il famigerato papello che, secondo Ciancimino, si trovava invece in quel momento nella cassaforte (così ha dichiarato junior in interrogatorio), dove era stato riposto dopo che suo padre lo aveva estratto come una reliquia, nel 2002, dal retro di una copertina di un’enciclopedia, dove lo stesso don Vito lo aveva cautamente occultato nel 1992.
Fatto sta che questi strani carabinieri che secondo un ramo d’inchiesta dei PM non vogliono perquisire rifiutando anche le chiavi della cassaforte pur di non trovarci il papello, e secondo un altro ramo d’inchiesta degli stessi PM di prima, invece, lo fanno benissimo sin sotto i controsoffitti sino a scoprire il papello, salvo rimetterlo al suo posto per odine superiore, ad un certo punto si ritrovano in gruppetto perchè, un attimino rancorosi col un loro comandante un po’ troppo stressante sul piano disciplinare, cercano “alleati” nella prospettiva di tirargli un colpo gobbo.
E c'è, a rodergli per benino, la storia del papello rifiutato.
Guarda caso, un vero colpo di fortuna, proprio dal loro comandante.
A questo punto vanno dal giornalista dell’Unità Lodato, per spifferargli tutto del papello e sputtanare il loro comandante, (ma perché erano carabinieri onesti eh, mica perché erano in conflitto col loro comandante per ragioni disciplinari), ma, guarda caso, come ha riferito Lodato sempre nell’udienza di oggi smentendo clamorosamente Masi, non gli dicono un bel niente del papello:
“Venne a casa mia – ha raccontato Lodato – insieme a un altro carabiniere per dirmi che dovevano parlarmi di una cosa importante. Mi accennarono che erano a un passo dalla cattura di Messina Denaro (?) e che i superiori volevano bloccarli, ma dissero che ci saremmo dovuti incontrare in un altro luogo per parlarne meglio”.
Riferisce poi Livesicilia: “Il giornalista, che ha smentito Masi che aveva sostenuto di averlo cercato per raccontargli del mancato sequestro del papello, non diede credito ai due militari e lasciò cadere la cosa”
Invece, credito, glielo da la procura, a questo carabiniere della scorta della procura che nel 2006 si offriva come alleato con chi, come lui, aveva avuto rapporti conflittuali col suo comandante, all’interno del reparto.
Quello stesso comandante, il Col. Sottili, che, ancora e sempre guarda caso, è stato uno degli artefici dell’arresto di Michele Aiello (braccio destro finanziario di Provenzano, già boss della Sanità in Sicilia ma anche occasionale ristrutturatore di case al mare), e dell’indagine che ha trascinato a giudizio Totò Cuffaro, anche se non con Di Matteo e ed Ingroia come PM preposti, ma bensì con Prestipino e con quel Pignatone che oggi sta alla procura di Reggio, quella che ha inguaiato Ciancimino con la vicenda di “Gino u bancumàtt”.
Questo il quadretto.
Il paesaggio, naturalmente, la Sicilia.
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
La "lotta da parte dello Stato" : c'è e si concretizza.
mercoledì 22 dicembre 2010, 16:54
Mafia, nel 2010 sequestrati in Sicilia beni per 900 milioni di euro
Ammonta complessivamente a 900 milioni di euro il valore dei beni sequestrati e confiscati alla mafia dai carabinieri in Sicilia nel corso del 2010 e sono state 85 le persone arrestate per associazione mafiosa. È quanto emerge dai dati resi noti dal comandante Provinciale dei Carabinieri di Palermo, colonnello Teo Luzi, che traccia un bilancio dell'attività svolta. Inoltre, i militari hanno eseguito 2.086 arresti per reati comuni, principalmente furti, rapine, droga, ricettazione, truffe; mentre le persone arrestate per reati ambientali connessi all'emergenza rifiuti sono state 195 e altre 193 sono state denunciate in stato di libertà. Invece sono state 8.712 le persone denunciate per reati vari.
Sul fronte della lotta alla droga sono state arrestate 397 persone, di cui 19 minori, mentre ne sono state segnalate 1.335. E complessivamente sono stati sequestrati 90 chilogrammi di sostanze stupefacenti, nonché numerose piantagioni di canapa indiana (circa 17.500 piante). L'attività di prevenzione ha visto impegnate 96.631 pattuglie nel corso delle quali sono state identificate 632.213 persone e controllati 340.128 veicoli. Inoltre, sono stati sottoposti a misure di prevenzione (avvisi orali e sorveglianze speciali) 155 indagati. Ed elevate 28.172 contravvenzioni al Codice della Strada per un importo di 4.620.128,45 euro. E sono state 2.160 le pattuglie miste con militari dell'esercito.
«Le molteplici attività preventive e investigative condotte dai Carabinieri nel 2010 - spiega il colonnello Teo Luzi - costituiscono la vera testimonianza dell'impegno profuso, giorno dopo giorno, dal personale di questo Comando provinciale a tutela dei cittadini. In particolare nel contrasto alla mafia, le diverse operazioni condotte hanno portato in carcere centinaia di persone indiziate di associazione mafiosa e estorsioni. La specifica attività investigativa dimostra come negli ultimi anni le forze di polizia, in un'alternanza di risultati operativi di assoluto rilievo, facciano sistema con la magistratura al fine di assicurare i migliori il contrasto alla criminalità organizzata. Tuttavia non bisogna lasciarsi andare a facili trionfalismi ma occorre guardare avanti con concretezza. Il più deve essere ancora fatto». «Tre sono le linee strategiche - aggiunge il colonnello - per il 2011: combattere il racket delle estorsioni, catturare gli ultimi latitanti di spicco e sequestrare patrimoni mafiosi». Le estorsioni sono una vera e propria piaga ai danni dell'imprenditoria palermitana. Però i Carabinieri e le altre forze di polizia hanno maturato una tale esperienza nel settore che sono perfettamente in grado di proteggere coloro che denunciano e i loro beni aziendali.
Oggi esistono delle norme che favoriscono ogni tutela personale e che offrono incentivi economici da parte dello Stato a favore di coloro che decidono di denunciare. I recenti colpi inferti a cosa nostra dimostrano che il momento storico in cui viviamo è assolutamente favorevole per uscire dalla morsa del racket.
Oggi gli imprenditori che hanno fatto questa scelta sono diverse decine: rivolgiamo quindi nuovamente l'appello a tutti coloro che continuano a pagare il pizzo, e che quindi ne sono le vere vittime, a recarsi presso gli uffici di polizia per denunciare casi d'intimidazione. Li invitiamo ad aver fiducia delle forze di polizia e della magistratura e di affidarsi alla protezione delle istituzioni».
Mafia, nel 2010 sequestrati in Sicilia beni per 900 milioni di euro
Ammonta complessivamente a 900 milioni di euro il valore dei beni sequestrati e confiscati alla mafia dai carabinieri in Sicilia nel corso del 2010 e sono state 85 le persone arrestate per associazione mafiosa. È quanto emerge dai dati resi noti dal comandante Provinciale dei Carabinieri di Palermo, colonnello Teo Luzi, che traccia un bilancio dell'attività svolta. Inoltre, i militari hanno eseguito 2.086 arresti per reati comuni, principalmente furti, rapine, droga, ricettazione, truffe; mentre le persone arrestate per reati ambientali connessi all'emergenza rifiuti sono state 195 e altre 193 sono state denunciate in stato di libertà. Invece sono state 8.712 le persone denunciate per reati vari.
Sul fronte della lotta alla droga sono state arrestate 397 persone, di cui 19 minori, mentre ne sono state segnalate 1.335. E complessivamente sono stati sequestrati 90 chilogrammi di sostanze stupefacenti, nonché numerose piantagioni di canapa indiana (circa 17.500 piante). L'attività di prevenzione ha visto impegnate 96.631 pattuglie nel corso delle quali sono state identificate 632.213 persone e controllati 340.128 veicoli. Inoltre, sono stati sottoposti a misure di prevenzione (avvisi orali e sorveglianze speciali) 155 indagati. Ed elevate 28.172 contravvenzioni al Codice della Strada per un importo di 4.620.128,45 euro. E sono state 2.160 le pattuglie miste con militari dell'esercito.
«Le molteplici attività preventive e investigative condotte dai Carabinieri nel 2010 - spiega il colonnello Teo Luzi - costituiscono la vera testimonianza dell'impegno profuso, giorno dopo giorno, dal personale di questo Comando provinciale a tutela dei cittadini. In particolare nel contrasto alla mafia, le diverse operazioni condotte hanno portato in carcere centinaia di persone indiziate di associazione mafiosa e estorsioni. La specifica attività investigativa dimostra come negli ultimi anni le forze di polizia, in un'alternanza di risultati operativi di assoluto rilievo, facciano sistema con la magistratura al fine di assicurare i migliori il contrasto alla criminalità organizzata. Tuttavia non bisogna lasciarsi andare a facili trionfalismi ma occorre guardare avanti con concretezza. Il più deve essere ancora fatto». «Tre sono le linee strategiche - aggiunge il colonnello - per il 2011: combattere il racket delle estorsioni, catturare gli ultimi latitanti di spicco e sequestrare patrimoni mafiosi». Le estorsioni sono una vera e propria piaga ai danni dell'imprenditoria palermitana. Però i Carabinieri e le altre forze di polizia hanno maturato una tale esperienza nel settore che sono perfettamente in grado di proteggere coloro che denunciano e i loro beni aziendali.
Oggi esistono delle norme che favoriscono ogni tutela personale e che offrono incentivi economici da parte dello Stato a favore di coloro che decidono di denunciare. I recenti colpi inferti a cosa nostra dimostrano che il momento storico in cui viviamo è assolutamente favorevole per uscire dalla morsa del racket.
Oggi gli imprenditori che hanno fatto questa scelta sono diverse decine: rivolgiamo quindi nuovamente l'appello a tutti coloro che continuano a pagare il pizzo, e che quindi ne sono le vere vittime, a recarsi presso gli uffici di polizia per denunciare casi d'intimidazione. Li invitiamo ad aver fiducia delle forze di polizia e della magistratura e di affidarsi alla protezione delle istituzioni».
Luciano Baroni- Numero di messaggi : 414
Data d'iscrizione : 25.09.10
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