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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

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Messaggio  Gimand Mar Ott 26, 2010 11:16 pm


INTRODUZIONE



Gli anni ottanta: un decennio eccezionale nel contesto del nostro secolo. In questo tempo, tra una Milano “da bere” ed una Londra Thatcheriana, tignosa e quasi stoica, si muove il protagonista di questo romanzo. Gianmarco Demattei, giovane rampollo di una neodinastia imprenditoriale milanese, è seguito passo dopo passo, nella carriera di giornalista, di finanziere d’assalto e manager. Lo vediamo gradualmente trasformarsi, da giovane idealista quasi sessantottino, in uno spregiudicato “yuppy”, scaltro ed a volte anche spietato. Gianmarco, a differenza di tanti, troppi come lui, cresciuti nell’atmosfera di quegli anni, riesce però a conservare anche un barlume d’idealismo. Questa qualità, varrà a salvarlo negli anni in grigio, i novanta: l’epoca di “tangentopoli” e della cultura del sospetto, l’epoca della normalizzazione in questo brutto XX Secolo, la fase storica che stiamo tuttora vivendo (e scontando). Lo aiuteranno anche l’amore per una donna che, degli anni ottanta, è stata simbolo ed icona: Diana d’Inghilterra, Principessa di Galles.
Chi scrive vuole conservare l’anonimato, soprattutto perché pochi dei personaggi e delle vicende che scaturiscono da questo romanzo sono inventati, anzi, molti di loro, a cominciare da Diana Spencer, sono esplicitamente nominati, altri invece, facilmente individuabili, anche se mutati nelle generalità; chi scrive, nella realtà non li ha mai né visti né conosciuti, ma qui, li ha spesso fatti muovere ed agire a suo piacimento.
Questo libro vuole rievocare un’epoca, l’epoca che è stata una parentesi umanistica in un secolo materialista e crudel; questo libro, più che un romanzo, vuole essere una cronaca. Non c'è niente da interpretare, non ci sono "messaggi" reconditi: soltanto lo scorrere del tempo e il passare delle vite delle persone. Qualcuna protagonista, tante altre, com'è naturale, soltanto comparse.
L’autore
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Messaggio  Gimand Mar Ott 26, 2010 11:36 pm

Capitolo I

L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil10


LE CORNA DEL DIAVOLO



Gianmarco era uscito prima del previsto dall’università.
Era un po’ deprimente quel pomeriggio del Novembre 1977 a Milano. Una nebbia sottile, la tipica foschia che avvolgeva la città nella stagione autunnale, gli stava dando una strana sensazione: oltre alla tristezza, qualcosa s'insinuava dentro di lui mettendogli addosso una certa inquietudine. L’esame che aveva sostenuto, quello d'inglese, se solo per quello, gli era andato bene, ma lo studente non riusciva ad afferrare la ragione di quel suo stato d’animo.
Uscì dal portone dell’Università Cattolica stringendo forte il libretto degli esami nella tasca del soprabito. Con la prova appena sostenuta compiva un altro passo verso la sua terza laurea.
Avrebbe dovuto essere soddisfatto, tanto quanto uno studente che aveva appena superato l‘esame con un ventiquattro, ma quel giorno, proprio non girava.
Si guardò in giro, come per poter scrutare qualche immaginario pericolo. Ma quale pericolo? Il suo sguardo, andò a fermarsi su alcuni manifestini attaccati abusivamente di fianco al portone d’entrata: unica concessione alle voci più o meno minacciose del sessantotto. All’interno dell’università non era permesso affiggere neppure un ciclostilato senza l’approvazione delle autorità accademiche. In realtà, il vecchio convento trasformato in istituto universitario dal mitico Padre Agostino Gemelli, era stato risparmiato dall’assalto della contestazione e dai suoi corifei, nonostante quei manifestini affissi al portone d’entrata. In alcune occasioni gli era capitato di entrare alla “Statale”, l’altra università di Milano, in via Festa del Perdono, lì i manifestini abusivi, a momenti, erano appiccicati anche sul soffitto, e non solo i manifestini purtroppo. Se non si stava attenti, lì al muro ci appiccicavano anche le persone!
E pensare che dieci anni prima le università erano banalmente considerate un luogo dove si andava a studiare.
-Dieci anni! Sono passati proprio dieci anni? – mormorò tra sé, intanto continuava a guardarsi in giro.
Sembrava ieri quando, nell'autunno del 1967 aveva varcato, appena diciassettenne, quello stesso portone, allora senza neppure l’ombra di un manifestino. Facoltà d'Economia e Commercio.
Un ragazzino spaurito, fresco di diploma in ragioneria conseguito presso i Padri Salesiani, s'iscriveva alla “Cattolica”. Finalmente, o meglio, data la sua giovane età: di già nel “tempio del sapere”. Con quella definizione ingenua nella mente e i documenti richiesti per le mani, si presentò all’ufficio iscrizione delle matricole.
Il segretario addetto alle iscrizioni lo scrutò sospettoso, dall’alto in basso, anzi, dal basso in alto, vista la differenza d'altezza tra i due: un metro e settantacinque Gianmarco, un metro e sessanta, scarsi, il segretario.
-Lei mi sembra un tantino giovane eh? –
-Diciassette anni professore, diciotto a Gennaio dell’anno prossimo –
-Accipicchia! Ha saltato qualche anno al liceo? –
-Non ho frequentato il liceo, come può vedere dai documenti, ho conseguito quest’anno il diploma di ragioneria presso… -
L’ometto gli fece cenno di tacere, inforcò gli occhiali e si decise a leggere i documenti che Gianmarco gli aveva da subito messo sotto il naso.
-Bene, bene!…lei ha dato l’esame di Stato nel Luglio di quest’anno presso i Padri Salesiani ed ora è ragioniere e perito aziendale con la media del sette. Niente male! In ogni modo, le ripeto la domanda: come mai così giovane? Tutte le matricole hanno diciannove, vent’anni, qualcuno anche di più –
-Sono nato nel ’50 – rispose il ragazzo - Ho incominciato le elementari nel ’55, a cinque anni e mezzo. Da allora non ho mai perso anni di scuola. L’anno scorso poi, ho frequentato la terza e la quarta ragioneria insieme. Quest’anno, come vede, mi sono diplomato… ed ora eccomi qua! –
-Vedo, vedo – fece il segretario con voce dubbiosa - Questa mania di saltare gli anni di scuola…mah! S'accorgerà, s'accorgerà, quanto dovrà studiare in più per colmare queste lacune: è come costringere un atleta con un allenamento approssimativo a correre per la prima volta la Maratona. Le ripeto, se n'accorgerà! –
L’aspirante matricola, facendo mentalmente gli scongiuri, allargò le braccia come per dire: “Sono qui per questo”.
-Allora! – proseguì il segretario - Lei si chiama Gianmarco Demattei, nato a Macherio, in provincia di Varese il 20 Gennaio 1950, figlio di Carlo e Maria Manconi, con due fratelli più grandi… Roberto e Paolo, rispettivamente del ’36 e del ’43 –
S’interruppe, poi di nuovo a bruciapelo:
-Qual è il lavoro di suo padre? –
-E’ il direttore della Banca Baranzaghi, quella banca monosportello in Piazza del Duomo… -
-Ho capito di che si tratta - lo interruppe - Suo padre è il direttore della banca dei nobili decaduti di Milano. Veda di non decadere anche lei. Va bene, faccia quello che vuole, lei da questo momento è iscritto all’Università Cattolica del Sacro Cuore –
Lo ricordava, perdinci! Ricordava ancora quel colloquio di…mille anni prima.
Ma in quel giorno, nell’aria nebbiosa e nel crepuscolo autunnale, c’era…c’era appunto qualcosa che gli stava annunciando grandi eventi.
Non era la prima volta che gli capitava. Anni prima, nel 1971, appena uscito dall’aula dove aveva discusso la tesi di laurea d'Economia e Commercio e nella quale era stato per la prima volta chiamato “dottore”, aveva deciso, praticamente sui due piedi, di continuare con altri studi. Quando, il lunedì successivo riaprirono la segreteria, s’iscrisse alla facoltà di Legge, senza avvertire nessuno della sua decisione.
L’ateneo era ormai diventato il suo bozzolo, il tran tran dell’università, il suo rifugio. C’erano i compagni di corso, i professori, le lezioni, gli esami, la biblioteca. Un mondo a sé stante, quasi asettico, nel quale, per anni, s’era recluso. Il mondo, quello vero, quello di fuori, a lui non piaceva come stava andando. Nessuno l’aveva ancora costretto a sbattere la faccia contro la realtà che si trovava di là del portone della “Cattolica”.
Del resto, cos’altro sapeva fare? La testa piena soltanto di teorie, nessun'esperienza dal vivo.
Suo fratello Roberto, grosso “palazzinaro” di Milano, anzi, il più grande d’Italia, lo avrebbe preso volentieri a lavorare presso di sé, ma a Gianmarco non interessava l’edilizia: troppe grane, troppe leggi, troppi politicanti fra i quali sguazzare. Anche se dal 1975 era riuscito a laurearsi anche in Legge…
Aveva poi voluto impegnarsi ai massimi sistemi della politica. Per questo, due anni prima aveva scelto un terzo corso di laurea, dopo Economia e Commercio e Giurisprudenza; s’era iscritto a Scienze Politiche. “La facoltà di laurea più inutile del mondo”, aveva commentato suo padre, ormai spazientito dal fatto di vedere il più giovane dei figli mettere radici nel mondo universitario. Gianmarco non era, ovviamente, della stessa opinione. Riteneva che le scelte delle persone, in quell’epoca di transizione, dovessero essere orientate verso sbocchi più costruttivi. Altre scelte? Non c’erano che le molotov e le spranghe di ferro, o magari il terrorismo, alternative, per le quali avevano optato già troppi giovani come lui.
-Qualcosa da fare dovrò pur decidermi a trovarlo – pensò – dal momento che non ho nessuna intenzione d’intraprendere la carriera accademica…e neppure di dedicarmi al lancio delle molotov. Ma che cosa? –
Con le mani ancora sprofondate nelle tasche s’avviò verso la stazione della metropolitana più vicina, quella della “linea due” di Sant’Ambrogio, così chiamata perché era posta proprio sotto la millenaria basilica romanica. Ogni giorno, dopo essere uscito dalla “Cattolica”, vi si recava a piedi per ritornare a casa dei genitori con i quali viveva. Stava ancora pensando al suo nebuloso futuro, quando, passando di fianco all’entrata della chiesa, la sua attenzione fu attratta dalla colonna sbrecciata che da quasi millecinquecento anni faceva da sentinella all’entrata della basilica. Come se qualcuno l’avesse chiamato, si voltò di scatto, dirigendosi verso quel reperto archeologico: passava in quei paraggi da dieci anni, non l’aveva mai fatto prima, ma carpito da un’improvvisa curiosità, compì d’istinto quel dietrofront.
Sapeva di un’antica leggenda, nella quale si narrava che a Sant’Ambrogio comparisse davanti il diavolo in persona mentre stava in raccoglimento nella chiesa che di seguito avrebbe preso il suo nome. Ambrogio, era un funzionario imperiale nato a Treviri, in Germania. Chiamato a Milano dall’imperatore per mettere ordine nelle diatribe religiose ed amministrative che dilaniavano la città, tanto disse e tanto fece che i milanesi, vista la grinta cui aveva dato prova, lo elessero vescovo. In effetti, era proprio un tipo tosto; ad esempio, non esitò un momento a minacciare con una frusta lo stesso imperatore Teodosio, per impedirgli di entrare in chiesa senza prima aver chiesto perdono per i propri peccati.
Quando dunque il santo si trovò davanti il diavolo, dato il caratterino di cui s’è detto, prese Belzebù per la collottola e lo buttò fuori della chiesa. Il diavolo, dopo un volo di alcuni metri, andò a piantare le corna contro quella colonna, lasciandovi l’impronta: due bei buchi, che ancora oggi si possono scorgere alla sua base.
Gianmarco s’avvicinò alla colonna. In effetti, si notavano due grossi fori ai piedi del manufatto. Probabilmente, nell’antichità dovevano aver alloggiato degli anelli per legarvi i cavalli; poi, come spesso accade per certi particolari che non si possono spiegare, era nata la leggenda delle corna del diavolo.
-Ci vorrebbe un altro Sant’Ambrogio per alcune università – pensò - Solo che se riservassimo lo stesso trattamento per certe zucche che bazzicano gli atenei, non si limiterebbero a lasciarvi due buchi, bensì butterebbero giù tutta la colonna, quand’anche fosse fatta di cemento armato!–
Una voce d’improvviso alle sue spalle:
-Giamma che fai, ti sei imbambolato? –
Lo studente sussultò girandosi di scatto. Si trovò faccia a faccia con Marcello Geraci, il braccio destro di Roberto, il siciliano con il dono dell’ubiquità, sempre presente nei momenti cruciali.
-Mi hai spaventato!… Certo che sai essere furtivo. Sì, ero come in trance, stavo pensando a cose passate –
-Lascia perdere per un momento le cose passate, sono in ballo cose grosse, cose interessanti. Tuo padre e tuo fratello hanno convocato il consiglio di famiglia –
Già, il consiglio di famiglia, come per tutte le famiglie importanti. Ma perché convocavano anche lui? Sapeva a malapena che Roberto costruiva palazzine di lusso.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Marcello lo prevenne:
-No, mio caro, questa volta la cosa riguarderà anche te. E’ ora che ti metta a lavorare per la famiglia; oppure vuoi continuare a far collezione di lauree che non ti serviranno a niente? –
Toccato! Aveva presentito giusto. Quel giorno Marcello era inaspettatamente venuto a prenderlo, ma non lo avrebbe riaccompagnato a casa, bensì a Macherio, alla villa del fratello grande. Oppure avrebbe dovuto dire del Grande Fratello?
Gianmarco ammirava suo fratello, ma non voleva dipendere da lui. Del resto, come poco prima, già da un paio d’anni continuava a chiedersi cos’avrebbe fatto dopo, giacché: tra consulenze presso commercialisti, lavoretti saltuari per conto dell’azienda di Roberto, collaborazioni presso riviste e giornali specializzati in economia politica e qualche traduzione dall’inglese per conto di case editrici, non aveva ancora quello che si chiamava un “impiego sicuro”. Era un giovane che a ventisette anni doveva decidersi a fare il grande passo ed entrare nel mondo del lavoro. Il “tempo delle mele”, per quanto un po’ in ritardo, stava forse finendo anche per lui. Roberto, probabilmente, voleva chiedergliene conto.
-Andiamo! –
Le foglie secche cadute dagli alberi presso la colonna, in quel momento furono smosse da un colpo di vento e, strisciando sul selciato, produssero uno strano fruscio, come un ghigno, un ghigno satanico. Almeno, così credé di sentire.
-Ridi ridi, diavolaccio della malora, ma credo proprio che questa sarà la prima e l’ultima volta che mi sfotti! – pensò, gettando un ultimo sguardo ai due buchi.
Marcello, mentre si stavano dirigendo verso l’automobile, lo guardava incuriosito:
-Ma che ti succede oggi? Sembra che tu abbia visto un fantasma! –
Gianmarco rispose con un’alzata di spalle: non si trattava di fantasmi, bensì di diavoli. Sarebbe comunque stato difficile spiegarglielo. Marcello era stato compagno di scuola di Roberto negli anni cinquanta, poi, terminato il liceo, era ritornato a Palermo, si era laureato in Legge, aveva fatto pratica presso un avvocato commercialista di quella città. Stava preparando a mettersi in proprio, quando Roberto lo aveva chiamato a Milano per lavorare nell’azienda immobiliare che nel frattempo aveva messo in piedi.
L’uomo camminava lentamente, nulla trapelava dallo sguardo dietro gli occhiali da miope che oramai facevano parte della sua fisionomia. Né Gianmarco si provò a rivolgergli delle domande. Sapeva benissimo che Marcello o non gli avrebbe risposto o sarebbe stato evasivo.
Salirono in auto, Marcello s'immerse nel traffico di Milano. Dopo alcuni minuti di code si diresse verso la periferia della città, verso Nord. Imboccò l’autostrada dei Laghi, in direzione di Varese, per la precisione verso Macherio, la loro destinazione.
Il viaggio durò circa un’ora. L’autostrada in quel momento era particolarmente affollata. Un paio di volte i due furono costretti a fermarsi per le code ai caselli di riscossione.
La villa di Roberto comparve d’improvviso dietro una curva. A Roberto “quella roba” non era mai piaciuta, ma sua moglie Flavia, agli inizi degli anni ’70, insistette perché fosse costruita secondo i canoni architettonici “razionali” che allora andavano per la maggiore, s’era quindi rassegnato ad abitarvi. Stava comunque preparando la rivincita sui gusti della consorte. Era, infatti, in trattativa per acquistare una sontuosa villa patrizia del ‘700, nei pressi di Arcore, alle porte di Milano; forse, per l’inizio del ’78 avrebbe concluso l’affare. Finalmente anche lui avrebbe avuto la sua reggia.
Entrarono, imboccarono il vialetto del giardino, fecero il loro ingresso nel grande garage nel seminterrato. A giudicare dalle automobili parcheggiate là sotto, erano già presenti oltre a Roberto anche Paolo, l’altro fratello, il loro padre e Fedele Landolfi, l’altro inseparabile factotum di Roberto. Vi era infine un’altra auto che Gianmarco non aveva mai visto prima. Era forse la macchina che aveva trasportato fino a lì le “cose interessanti” cui aveva accennato Marcello davanti all’università?
I due salirono al piano superiore attraverso la scala interna. Roberto li stava aspettando sul pianerottolo. Come li vide, esclamò con il suo solito tono gioviale:
-Benissimo! Ci siamo tutti, finalmente –
Poi, rivolto al fratello:
-Com’è andato l’esame? –
-Bene: Ventiquattro –
-Ancora un paio d’anni e mi ritroverò un fratello con tre lauree e con… -
-...E con in mano un bel niente! - Lo anticipò Gianmarco
-Sì, ed è proprio ciò di cui volevo parlarti. Come ti avrà certamente accennato Marcello, ti ho preparato una bella sorpresa: chiamiamola un regalo, se di regalo si potrà parlare, ma è meglio che la veda tu stesso, vieni! –
Roberto li guidò lungo il corridoio, fino al salone. Intorno al tavolo erano seduti alcuni uomini: suo padre, suo fratello Paolo, Fedele Landolfi, come aveva immaginato. Poi due altre persone, gli ospiti d’onore di quella serata.
Gianmarco, a mano a mano che s’avvicinava al tavolo non credeva ai propri occhi. Era abituato ai colpi a sorpresa di Roberto, ma questa poi!…
Dei due nuovi ospiti di quella sera, il più alto, che era anche il più anziano, sollevò gli occhi verso di lui, occhi azzurro-ghiaccio, occhiacci che tante volte aveva visto lampeggiare alla televisione, ma che mai gli era capitato di vedere dal vivo. Quegli occhi in quel momento gli si erano piantati addosso e lo stavano squadrando, quasi volessero perquisirlo.
-Oh finalmente! – esclamò l’ospite - Abbiamo qui il piccolo Demattei, l’intellettuale di famiglia, quello che non ha ancora deciso cosa farà da grande –
L’interpellato era rimasto in piedi davanti al tavolo, impietrito. Suo fratello, gli si era messo al fianco e delicatamente aveva posato una mano sulla sua spalla:
-Dottor Montanelli, permetta che le presenti un suo grande ammiratore: mio fratello Gianmarco Demattei -
Gianmarco sentì la propria voce sputare roca un:
-Piacere Demattei! –
Poi si lasciò sprofondare su una delle sedie vuote. Aveva finalmente riconosciuto anche l’altro ospite: era Gianni Granzotto, per Montanelli la figura speculare di quel che erano sempre stati Marcello e Fedele per Roberto. Anche a quest’ultimo strinse la mano senza proferire parola.
-Dunque! Vediamo di ricapitolare anche per quelli che sono stati assenti fino ad ora – disse Roberto sedendosi a capotavola di fianco a Montanelli - Già dall’inizio di quest’anno, il dottor Montanelli ed io ci siamo accordati perché rilevassi una quota di minoranza delle azioni del "Giornale”. In cambio, noi stiamo costruendo una modernissima tipografia a Cologno Monzese ed abbiamo acquistato una palazzina in pieno centro di Milano, in Via Gaetano Negri, per adibirla a redazione del quotidiano -
Roberto s’interruppe e guardò in giro soddisfatto.
-Ah! Quel rogito di cui mi hai fatto preparare l’atto per il Notaio. Ecco a che serviva quella palazzina! – Esclamò Gianmarco.
-Proprio così – rispose Roberto - Ora però debbo affidare proprio a te un lavoretto facile facile: in poche parole, mi devi mettere in funzione la tipografia, entro il luglio dell’anno prossimo –
Gianmarco fece un fischio.
-Dici poco tu! Cosa ti fa pensare che riesca ad improvvisarmi tipografo industriale dalla sera alla mattina? –
Ma Roberto aveva le idee chiare, non si sarebbe scoraggiato per così poco:
-In fondo, ti sei sempre occupato di computer, considera quindi le rotative dei giornali come delle grosse stampanti -
-Mi sono effettivamente occupato di computer, di programmi, di grafica, ho scritto articoli di giornale – poi, rivolto a Montanelli - Ma non mi sono mai cimentato con le rotative e la stampa dei quotidiani –
-Li ho letti i tuoi articoli di politica internazionale su quel giornaletto di Comunione e Liberazione – gli rispose Montanelli - Sono prolissi ed un po’ troppo pieni di fronzoli per i miei gusti, ma un certo talentaccio, te lo riconosco –
Poi, rilevando a voce, come faceva di solito
-E tu i miei gusti li conosci bene, vero? –
-Ehm…sì, credo –
-Allora è giunto il momento di mettere in pratica ciò che fino ad ora hai studiato in teoria. La ricreazione è finita! Sono stufo di vedere giovani virgulti che strologano sui massimi sistemi ed alla fine non sanno tirare due righe in croce –
Aveva terminato la frase quasi gridando, mentre Gianmarco, appoggiato alla sedia, incominciava a sudare freddo.
-Tra un po’ mi mena! – pensò.
-Quindi, caro ragazzo – continuò il vecchio leone - Per te c’è un nuovo lavoro dal primo gennaio dell’anno prossimo, quello di giornalista praticante, oltre beninteso, a mettere in funzione quella benedetta tipografia computerizzata. Per tutto l’anno scarpinerai come cronista di “nera” nelle aule dei tribunali e nelle questure. Di tanto in tanto mi scriverai dei pezzi sulle prodezze di quegl’imbecilli dei tuoi compagni d’università, oramai dovresti conoscerli bene. Chissà se, con qualche opportuna “dritta”, non riuscirò ad evitare altre pallottole alle gambe! –
Già, l’attentato a Montanelli del giugno di quell’anno. Se l’erano tutti dimenticato e lui lo ricordava ai presenti. Per qualche secondo, piombò nella sala un silenzio imbarazzato, interrotto soltanto dall’allegra esclamazione di Roberto.
-Però, non abbiamo ancora sentito che ha da dire l’interessato, accetti o no? –
L’interessato fissò per qualche secondo il piano del tavolo, poi, alzato lo sguardo verso il fratello sibilò:
-Accetto! Del resto…del resto, questa sera sentivo che qualcosa doveva succedermi, ed è successa –
Montanelli lo guardò compiaciuto:
-Cominciamo bene! Anche tu possiedi il fiuto per gli avvenimenti, come tuo fratello Roberto possiede quello per gli affari, buon sangue… –
Montanelli si alzò dalla sedia, appoggiandosi al tavolo, allungò la mano in direzione di Gianmarco. L’eterno studente della “Cattolica” gliela strinse con entusiasmo.
-Benvenuto a lavorare tra i maledetti del “Giornale di Montanelli”, uno con il tuo naso non possiamo lasciarcelo scappare – esclamò il suo nuovo direttore – Spero invece che riuscirai ad evitare le pistolettate che sono capitate a me–
Già, il suo “fiuto”, come lo chiamava Montanelli, anche questa volta lo aveva aiutato, gli aveva fatto presentire che da quel giorno sarebbe cambiata la sua vita, ma di quanto, neppure lui lo immaginava. A detta di qualche fine pensatore: quando pochi si trovano attorno ad un tavolo per prendere decisioni coinvolgenti milioni di altri individui, costoro stanno sicuramente tramando qualcosa, forse senza neppure accorgersene. Ciò che si preparò da quella sera, nessuno avrebbe potuto fiutarlo: fu, infatti, l’inizio di una grande avventura. Un’avventura che si sarebbe dipanata negli anni successivi ed avrebbe coinvolto tante altre persone. Nessuno, infatti, in quel momento, poteva lontanamente pensare che con quell’accordo stava per iniziare un’epoca che avrebbe preso il nome di una donna, allora a tutti sconosciuta. Ma quella donna, compatita e vilipesa, onesta e disonesta, sincera e bugiarda, povera e ricca, amata ed odiata, sarebbe diventata l’emblema di un’era. Incominciò così per Gianmarco Demattei, quella sera del Novembre 1977: l’ETA’ DI DIANA.
Per la cronaca, restava a Gianmarco un solo dubbio: quella sera aveva incontrato il diavolo o Sant’Ambrogio? Comunque, fosse stato diavolo, santo o entrambi, Montanelli di cornate era capace darne anche ai carri armati, e il segno lo lasciava sempre, lo avrebbe lasciato anche addosso a lui, per tutta la vita.
Gimand
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Messaggio  Gimand Mar Ott 26, 2010 11:46 pm

Capitolo II


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil11


COLEHERNE COURT


Buttò all'aria i fogli dell'articolo che stava rileggendo:
-Non è possibile, un’altra volta, porca putt…! – gridò in direzione del soffitto.
Quelle benedette ragazze al primo piano stavano facendo un casino pazzesco, come quasi tutte le sere: risate, gridolini, tacchi picchietati sul pavimento, poi, per un po’, il silenzio. Dopo qualche minuto, di nuovo strilli e risate inspiegabili. Sembravano le fans dei Beatles negli anni sessanta.
Gianmarco era arrivato a Londra all'inizio del '79, dove Montanelli l'aveva spedito, praticamente allo sbaraglio. Come sede dell’ufficio nella capitale britannica, nonché come abitazione sua, aveva scelto un condominio al numero 60 di Coleherne Court, nel quartiere di South Kensington, perché pensava avrebbe potuto lavorare più tranquillo. Appartamento al piano terreno: così, allo stesso modo dei pompieri, sarebbe stato subito pronto per fiondarsi in strada ogniqualvolta “Il dovere l’avesse chiamato!”. Che fesseria! Non s’immaginava che gli appartamenti al pianterreno erano anche i più disturbati; e dire ch’era fratello di un costruttore! Inoltre, non poteva prevedere che le inquiline del piano di sopra avrebbero fatto più baccano della fanfara dei bersaglieri.
L'anno prima, nel '78, era entrato al giornale come cronista di “nera”. Aveva seguito inoltre la messa a punto della nuova tipografia di Cologno Monzese, dove vi si erano trasferiti nel Giugno di quell'anno, portandosi con loro quasi la metà dei tipografi che lavoravano alla SAME, la vecchia tipografia dove stampavano in precedenza.
Alla SAME, come tutte le tipografie in quegli anni, le maestranze s'erano messe in testa d’interferire nei giornali che stampavano. "Il Giornale" di Montanelli era nato come quotidiano di centro-destra ed i suoi lettori desideravano che restasse tale. Il consiglio di fabbrica ed i sindacati della SAME che erano, ad essere benevoli, un tantino più a sinistra, li subissavano di scioperi.
Per questo Montanelli, dopo una lunga e ponderata cernita degli eventuali soci di minoranza che, dati i tempi e le difficoltà, era costretto portarsi in casa, si era messo nelle mani di Roberto. Il fratello di Gianmarco, infatti, più volte si era offerto di aiutarlo ad ottenere quello che desiderava: una tipografia tutta sua, da dove il direttore del “Giornale” avrebbe potuto stampare ciò che gli aggradava, senza per questo dover contrattare gli articoli con i sindacati dei tipografi.
Così Gianmarco, un po' improvvisando, un po' studiando i problemi dal vivo, era riuscito a far funzionare una stamperia, la più moderna d'Italia per quei tempi. Stampa per fotocomposizione, terminali al posto delle vecchie linotype, un grosso computer nella nuova redazione di Via Negri, la palazzina che suo fratello aveva acquistato e ristrutturato a tempo di record.
Si occupava di fotocomposizione e d’impaginazione. Le macchine per scrivere erano state abolite in tutta la redazione, tranne che nell'ufficio di Montanelli. Il direttore, infatti, aveva minacciato di usare il mitra per difendere la sua "Olivetti Lettera 22" dalla furia modernista di Gianmarco e degli altri “pasdaran” del computer.
Dopo prove e controprove, condotte nel più assoluto segreto, con pochi collaboratori che si riunivano come cospiratori sotto un capannone a Cologno Monzese costruito ad hoc, le rotative erano finalmente riuscite a "sputare" qualcosa che potesse finalmente esser considerato graficamente un giornale, inoltre, avevano il vantaggio di operare con un numero d'addetti ridotto e in migliori condizioni di lavoro.
Il 25 Giugno 1978 entravano in funzione la nuova sede, la nuova tipografia e tutto l'armamentario necessario per stampare. Il suo primo impegno importante: era riuscito ad attivare uno stabilimento tipografico nel giro di sei mesi. Aveva ancora negli occhi - il giorno dell’inaugurazione - il sorriso a trentadue denti di suo fratello, mentre premeva il pulsante d’avvio delle rotative, sotto lo sguardo sospettoso di Montanelli.

Che anno quel 1978! Se si fosse soltanto dedicato all’assemblaggio della tipografia, lo avrebbe quasi potuto definire un periodo di riposo. Gianmarco però doveva svolgere contemporaneamente ben altre mansioni: primi passi nel mondo del giornalismo, “mattinali” delle questure, i grandi delitti delle Brigate Rosse, l'inizio della fine della violenza.
Ci furono anche la morte di due Papi in pochi mesi, la fuga dello Scià di Persia dal suo paese, le dimissioni di Giovanni Leone da Presidente della Repubblica e l’elezione al suo posto di Sandro Pertini, i mondiali in Argentina, lo “shock petrolifero” numero due. Il culmine della follia fu però raggiunto il 16 Marzo di quell'anno, quando i terroristi rapirono l'ex Presidente del Consiglio Aldo Moro, uccisero cinque uomini della scorta e poi scomparvero con l'ostaggio.
Quello che fu poi chiamato “il caso Moro”, fu il suo primo grosso impegno da giornalista.
Montanelli, come tutti i direttori in quei giorni d’emergenza continua, aveva sguinzagliato i suoi (pochi) cronisti a caccia di notizie; tra questi, fu inevitabile gettare nella mischia anche i novellini come Gianmarco.
Il giovane pivello fu incaricato di indagare negli ambienti universitari, ancora in ebollizione dopo dieci anni, dove, quasi sicuramente, erano state reclutate gran parte delle menti organizzative (ed esecutive) del terrorismo. Lì avevano trovato un "humus" che favorisse il loro crescere e moltiplicarsi. Venne a sapere che in quell'operazione erano stati coinvolti, in modo diretto od indiretto, circa un migliaio di militanti dell’organizzazione. Voci di un attentato clamoroso erano corse già diversi mesi prima che questo fosse materialmente eseguito. Scoprì fosse in corso la preparazione del rapimento di un uomo politico o forse di un alto prelato, già dal Gennaio 1978.
Che quelli del “Giornale” avessero subodorato un grave pericolo con due mesi di anticipo, se n’ebbe conferma qualche anno più tardi, quando le autorità inquirenti scoprirono che i brigatisti, in alternativa a Moro, si erano preparati a rapire Papa Paolo VI. I Palestinesi di “Al Fatah”, loro complici nell'esecuzione di quel delitto, si opposero, temendo una violenta reazione dei cristiani nei paesi Arabi.
Tali notizie furono tutte debitamente riportate per tempo dal "Giornale", ma in quel momento polizia e Magistratura erano praticamente cieche e sorde; tali sarebbero rimaste per almeno altri tre anni. L'attentato non potevano prevenirlo comunque. Non solo, anche se in condizioni di farlo, non si sarebbero poi impegnati più di tanto per salvare il politico che, anni prima, aveva ignorato i loro avvertimenti, lasciando il Paese in balia dei gruppetti extraparlamentari, dei terroristi e della malavita comune, minimizzando ogni loro attività.
Aldo Moro, perso com’era nelle sue elucubrazioni, riteneva che tutto quello che viene definito “Ordinaria amministrazione” e quindi, anche l’ordine pubblico, non fosse cosa che potesse interessare una mente eccelsa come la sua. I fatti avrebbero invece dimostrato quanto avesse torto, anche se nelle lettere scritte durante la sua prigionia non mostrò di rendersene conto. Si aggiunga che i servizi d'informazione degli altri paesi NATO ed il "Mossad", il servizio segreto israeliano, si rifiutarono di collaborare, allorquando i loro colleghi italiani, praticamente in ginocchio, li pregarono di fornir loro informazioni.
Neppure la CIA, per espresso ordine dell’allora presidente Carter, poté intervenire. Quel ritardato mentale del presidente USA temeva di compromettere le relazioni con l’Unione Sovietica. Infatti, gli americani sapevano benissimo che da eventuali indagini del loro servizio di spionaggio, sarebbe emersa la responsabilità dell’URSS e di gran parte dei paesi dell’Est europeo, nell’organizzare ed appoggiare attentati nei Paesi NATO. Ragion per cui, alfine di salvare la politica di appeasement che Carter portava avanti nei confronti dell’URSS, fu sacrificata la vita di Aldo Moro (In tal modo, Carter si giocò, per la sua rielezione del 1980, anche il voto degli italo-americani e non soltanto quelli).
Il 18 Maggio 1978, in una via del centro storico di Roma, nel bagagliaio di una Renault “Quattro” rossa, coperto da un telo, fu rinvenuto il corpo senza vita di Aldo Moro, crivellato da undici proiettili.
Il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga si dimise il giorno dopo.
Si era toccato il fondo.
Da quel giorno qualsiasi delitto, qualsiasi avvenimento, del quale fossero stati protagonisti dei terroristi o loro fiancheggiatori, non sarebbe più rimasto impunito, come invece era regolarmente accaduto negli anni precedenti, anche grazie all’influenza nefasta esercitata da Aldo Moro. Naturalmente, i terroristi si resero protagonisti di altri attentati, anche dopo l’uccisione dell’uomo politico. Ma da allora in avanti, ad ogni colpo portato dall’eversione, lo Stato avrebbe risposto puntualmente.
Il “caso Moro” rappresentò per l’eversione, l’inizio della fine. In effetti la violenza di piazza incominciò a declinare proprio a partire da quell’anno. Venne a mancare quella che si chiamava la “massa di manovra”, cioè, non si trovarono più un numero sufficiente di stupidi da mandare sulle barricate per giocare alla rivoluzione. Forse, fu anche perché sentivano ormai scemare le proprie forze e, di conseguenza, la loro “presa” sulla società civile, che gli strateghi delle Brigate Rosse si risolsero a radicalizzare la propria azione, vale a dire, ad uccidere i loro avversari.
Fra non molto, agli isolati arresti di stralunati esemplari del terrorismo, avrebbe fatto seguito la cattura di intere bande con le loro armi, gli elenchi degli obiettivi e, soprattutto, di tutti i loro complici. Tutto questo però, sarebbe avvenuto più tardi, e, paradossalmente, “grazie” alla strage di Via Fani.
Alla redazione del “Giornale” ed a Gianmarco in particolare, l’amara soddisfazione di avere visto giusto e di aver segnalato il pericolo per primi, oltre alla rabbia per essere stati ignorati dall’autorità competente, quando invece, l’attentato avrebbero potuto prevenirlo; il loro, dopotutto, era considerato un giornale “fascista”.
Quella sera di Luglio del 1979, nella Londra all’indomani delle elezioni (si era votato il 4 Maggio), i problemi italiani sembravano tanto lontani.
Come corrispondente dalla capitale britannica, dopo avere registrato la cronistoria della campagna elettorale, doveva seguire i primi passi del nuovo governo conservatore: il primo nella storia della Gran Bretagna, con una donna, la signora Thatcher, che alloggiasse al numero 10 di Downing Street, la sede del Primo Ministro.
Bell’affare intervistare ministri e sottosegretari in una lingua straniera, anche se in quei pochi mesi a Londra, era riuscito a padroneggiarla come mai in anni di studi universitari. Gianmarco non conosceva nessuno, loro non conoscevano lui. Fortunatamente, “Il Giornale” di Milano e Montanelli in particolare, godevano di buona fama presso i conservatori.
Dopo ogni avvenimento, intervista, od incontro, cui era stato testimone e cronista, inforcava la motocicletta, correva a Coleherne Court, batteva alla telescrivente l’articolo, riceveva le istruzioni da Milano. Montanelli sapeva essere anche arcigno come direttore: era capace di fargli riscrivere il più banale degli articoli anche una dozzina di volte.
Nei ritagli di tempo preparava gli esami all’università. Ormai si era rassegnato ad andare “fuori corso”, perché l’anno prima era riuscito a darne solamente un paio, ma tra pochi giorni sarebbe dovuto ritornare a Milano per sostenerne un altro. Stava appunto studiando un articolo del “Financial Times” sulle prospettive a medio-lungo termine della Borsa di Londra, per l’esame di Economia, quando…le bambinaie del piano di sopra incominciarono a fare chiasso, impedendogli di concentrarsi sulla lettura.
La ragazzona che le guidava era una Lady, come lui aveva saputo dall’amministrazione del condominio. Era arrivata in quell’appartamento all’inizio del mese, si chiamava Diana; suo padre, un autentico conte, un gentiluomo di campagna, glielo aveva regalato in occasione del suo diciottesimo compleanno: come regalo niente male! Tenuto conto che gli Spencer, così si chiamava la famiglia della sua disturbatrice, erano anche proprietari di un sontuoso palazzo nel centro di Londra.
Quella sera però non era in vena di signorilità, questa volta non avrebbe subìto, gliele avrebbe proprio cantate a quelle quattro. Fu tentato di picchiare tre o quattro colpi con il manico della scopa contro il soffitto, scartò immediatamente quell’idea perché si rese conto di non essere in un condominio in Italia, doveva affrontarle de visu.
Salì di corsa le scale. Al pianerottolo del primo piano si fermò un momento per riordinare le idee: doveva ricordare d’incazzarsi in inglese, non in italiano, poi con decisione premette il pulsante del campanello.
Il chiasso cessò di colpo (almeno un risultato lo aveva ottenuto), sentì uno scalpiccio lungo il corridoio, il chiavistello girò e la porta si aprì.
Diana, appoggiandosi al battente, mise fuori la testa con fare circospetto. Due occhi azzurro fiordaliso, quegli occhi che di lì a qualche anno avrebbero incantato milioni di persone, in quel momento lo stavano guardando stupiti:
-Yes? –
-You have making a defening noise! – esordì con voce supplichevole (State facendo un rumore che rompe i timpani).
Sempre in inglese proseguì:
-Mi spiace disturbarvi, ma domattina debbo alzarmi presto, ho un’intervista con un deputato. Se la farò da mezzo addormentato, quel signore potrebbe anche offendersi e farmi togliere il permesso di soggiorno e questo lei non lo vuole, vero Milady? -
-Lei è l’inquilino del piano di sotto, se non sbaglio? – chiese Diana - La prego di scusarci, signore…. signor? –
-Il mio cognome è un po’ complicato per un’inglese. Mi chiami pure con il mio nome di battesimo: Gianmarco, per gli amici Giamma, è più semplice – e finalmente riuscì a sorridere.
Quella del sorridere era l’espressione che gli riusciva meglio. Gianmarco poteva definirsi un bel ragazzo: occhi azzurri, capelli castani chiari lisci e piuttosto folti, alto, più dei suoi fratelli. Quella ragazza però, lo sovrastava di almeno una decina di centimetri. Ora che l’aveva davanti, ad occhio e croce valutò dovesse superare il metro e ottanta.
-Mi scusi di nuovo mister Ghiamma, o come si chiama. Io e le mie inquiline ci stavamo divertendo a fare delle telefonate ad alcune persone. Non stia sul pianerottolo, se vuole accomodarsi? –
Così dicendo Diana spalancò la porta e lo fece entrare. Dietro Diana, se ne accorse in quel momento, si era formato un capannello con le altre tre ragazze che abitavano l’appartamento.
-Permesso! –
-Che ha detto? – domandò Diana
-Permesso: tipica espressione di cortesia italiana, quando si entra in casa d’altri, se ne domanda licenza – rispose lui
-Beh!…- fece Diana - Allora tanto vale presentarsi come si deve: io sono Diana Spencer –
Quindi, indicando una per una le altre tre ragazze:
-Philippa Coaker, Sophie Kimball, Anne Bolton –
-Pleased to meet you – disse, stringendo loro la mano a turno.
L’appartamento era piuttosto disordinato. Dovevano ancora finire di arredarlo, ma prometteva bene. Il soggiorno era stato dipinto in giallo; gli mostrarono persino il bagno, tinteggiato con un bel rosso ciliegia. La mobilia era quella di poco prezzo, ma, come spiegò Diana, quella era la sua prima casa. A diciotto anni appena compiuti, che cosa poteva chiedere in più dalla vita?
Le quattro ragazze lo fecero accomodare nel soggiorno.
-Non posso trattenermi molto, debbo finir di leggere un articolo per il mio giornale in Italia, ma voi cosa stavate facendo di tanto divertente? –
Diana, un poco imbarazzata:
-Vede….Alla sera, dopo cena, quando abbiamo sparecchiato, telefoniamo alle persone che troviamo sull’elenco e che abbiano nomi un po’ buffi… ci divertiamo a sfotterle –
Gianmarco spalancò gli occhi. Sì, Diana aveva proprio usato il verbo “sfottere” (to tease), poi la ragazza si mise a ridere:
-Divertente vero? –
-Mah! Non saprei, certo, voi vi divertite con poco, dovreste vedere e sentire gli scherzi che fanno al mio giornale, poi ne riparliamo –
-Perché, che genere di scherzi vi fanno in Italia? –
-Per esempio: quasi tutti i giorni chiamano dicendo d’aver piazzato una bomba in cantina; due anni fa, al nostro direttore, tanto per gradire, hanno sparato alle gambe. Quanto agli insulti che riceviamo sempre per telefono, quelli ve li risparmio, perché farebbero arrossire di vergogna un “Higthlander” –
Le quattro risero di nuovo all’unisono, poi la più vecchia di loro domandò:
-Così lei è giornalista, di che si occupa? –
-Di tutto, non ho un ruolo molto preciso. In pratica l’appartamento qui sotto, oltre che mia abitazione, è anche la redazione del mio giornale per tutto il Regno Unito. L’ho attrezzato con due linee telefoniche, telex and so on… –
-Caspita! – Esclamò la lady – allora conoscerà un sacco di gente importante –
-Non proprio – Si schernì – Il direttore del mio giornale, Indro Montanelli, mi ha mandato alla ventura. Mi ha incaricato di aprire una redazione a Londra e via! Per il resto mi debbo arrangiare; e non devo fare solo questo, sono anche incaricato a curare gli interessi di mio fratello sulla piazza di Londra, allo Stock Exchange e….-
-Che cosa fa suo fratello, è forse un uomo d’affari? –
-In Italia, a Roma per la precisione, lo chiamerebbero “palazzinaro”, costruttore di palazzine, ma sarebbe riduttivo per lui, ambizioso com’è. In realtà è il più grosso costruttore italiano, costruisce interi complessi residenziali alla periferia di Milano. Recentemente si è messo a fare l’impresario teatrale, rilevando la gestione di un famoso teatro milanese. Ha acquistato un giornale e, giacché aveva un fratello penniless and jobless (senz’arte né parte), che si divertiva a collezionare lauree senza concludere niente… lo ha messo lì dentro a lavorare. Ecco perché sono qui –
-Interessante – esclamò Diana, spalancando a sua volta gli occhioni – Mi sta dicendo che suo fratello ha acquistato un giornale per trovarle un lavoro? –
-A volte me ne viene il sospetto. Se non fosse che gli interessi di mio fratello sono ormai così… così… variegated che non credo possano essere compressi solamente in un giornale. Mio fratello è ora come ora….un vulcano in eruzione. Per esempio: da qualche anno a questa parte si è messo in testa di lanciare una catena televisiva che si mantenga con la pubblicità, come avviene in America. In Italia le piccole televisioni private stanno sorgendo come funghi, lui sogna molto più in grande. Pensa ad una specie di “CBS” od una “ABC” italiana, ma ci vorranno anni per realizzare questo sogno. Intanto sta conducendo degli esperimenti di trasmissione negli scantinati dei suoi palazzi a Cologno Monzese, vicino Milano. Staremo a vedere, qui per ora io sto soltanto perfezionando il mio inglese -
-Lo parla bene, per essere qui da pochi mesi – esclamò Diana - Magari io avessi imparato il Francese altrettanto, quando sono andata in Svizzera all’Institut Alpin Videmanette, una specie di lager per ricchi, ma lì ho imparato soltanto a sciare e pattinare -
-Beh è già qualcosa Diana! – disse una delle ragazze - Io ho paura persino a scendere le scale di corsa, altro che sci! –
Il giornalista guardò l’orologio: era tardi, purtroppo non avrebbe potuto prolungare la conversazione.
-It’s time to go, pleased to meet you (è ora di andare, lieto di avervi conosciute) –
Tutte e quattro le ragazze si alzarono, non insistettero perché rimanesse, anche loro al mattino avevano il loro lavoro da sbrigare. Lo accompagnarono alla porta e nel congedarsi, Gianmarco lanciò un’ultima battuta:
-La prossima volta che vorrete sfottere qualcuno per il suo nome, vi regalerò l’elenco telefonico di Milano. Anche se non parlate l’Italiano e se le telefonate vi costeranno un po’ più care, credo che vi divertirete un mondo –
-Se da voi sparano anche alle gambe dei direttori – commentò Diana – Credo non sarà proprio il caso di provarci! –
Quindi, il giornalista soggiunse nella lingua di Dante:
-Buonanotte ragazze –
-Buuonnanotte Ghiamma! – rispose Diana – Spero di rivederla ancora, avrà capito che alla sera, dopocena, non abbiamo molte occasioni per divertirci, ora che conosce la strada venga a farci visita ogni tanto –
-Non mancherò, non dubitatene! – rispose, lusingato da quell’invito.
Mentre stava scendendo verso il suo appartamento pensava all’accaduto. Dopotutto, quella giovanissima Lady avrebbe potuto fargli comodo. Se era vero che suo padre rappresentava una delle più eminenti famiglie patrizie d’Inghilterra, ed ora che i conservatori erano ritornati al governo, poteva capitare l’occasione per incontri molto interessanti nei tempi a venire, poi Diana era così carina!….
Il suo soggiorno a Londra era stato, fino ad allora, abbastanza tranquillo: non si correvano i rischi che aveva corso in Italia un cronista come lui, non aveva nessuna intenzione di far la fine di Carlo Casalegno, il vicedirettore della “Stampa” di Torino, ucciso, due anni prima, dalle Brigate Rosse, sotto al portone di casa. Alcuni imbecilli, fuori e dentro il giornale dove lavorava, non condividevano quel che scriveva.
Certamente Montanelli lo aveva voluto proteggere, mandandolo “allo sbaraglio” a Londra. Ma proteggere da chi?
-Da me stesso. Dopotutto, i guai me li vado proprio a cercare! – esclamò tra sé chiudendo, l’uscio del dell’appartamento.


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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 12:03 am

Capitolo III


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil12


CAMBI DI PROGRAMMA






Il giorno dopo si alzò alle sei del mattino. Come spesso gli capitava, aveva dormito male quella notte: l’afa di Luglio e la cena, non proprio eccellente, gli avevano lasciato un certo qual imbarazzo di stomaco.
Aveva fatto uno strano sogno: stava uscendo dal portone del condominio, era ancora buio. Alzando lo sguardo verso la finestra del primo piano, notò che le luci nell’appartamento erano accese già a quell’ora. Diana, la vicina di casa che aveva appena conosciuto, era alla finestra. La ragazza, con il naso schiacciato contro i vetri, stava guardando in giù, verso di lui. Quando si accorse che anche Gianmarco, a sua volta la stava osservando, gli rivolse un cenno di saluto appoggiando la mano sinistra ad un vetro e sfiorandone la superficie con le dita.
-Quando ci rivediamo? – gli aveva sussurrato.
Nel sogno, poteva persino udire distintamente la sua voce, nonostante vi fossero tra lui e Diana due piani del fabbricato e i vetri della finestra.
Subito dopo, come in tutti i sogni, era suonata inopportunamente la sveglia.
Stropicciandosi gli occhi, si avviò verso il bagno; per poco non entrò nella doccia in pigiama, s’era dimenticato di spogliarsi, incominciava bene la giornata!
Stava ancora asciugandosi quando squillò il telefono: era il capo servizi esteri da Milano.
-Demattei, come stai con l’intervista che devi fare oggi? –
-Come può costatare sono ancora nel mio appartamento, anzi, mi sono appena alzato. Tra mezz’ora sarò in viaggio verso l’ufficio del deputato – poi domandò allarmato -Perché mi chiama, ci sono delle novità? –
-Per l’appunto. Il deputato in questione, è stato pizzicato proprio ieri dalla polizia in un gabinetto pubblico vicino al Parlamento, mentre… ehm! Ti puoi immaginare il seguito –
Per la verità, in quel momento, forse perché era ancora mezzo addormentato, non capì l’allusione.
-Vuol dirmi che quel deputato oggi e nei prossimi giorni non potrà essere intervistato? –
-Proprio così, l’hanno pescato mentre rivolgeva delle avances ad alcuni dei guaglioncelli che sostavano in quel gabinetto, come del resto era solito fare ogniqualvolta se ne presentava l’occasione. Certo, se non ti avessi avvertito avresti corso un bel rischio andandolo a trovare solo soletto – rispose l’altro, frenando a stento una risata.
-In che senso correvo…oddìo! Ed ora che faccio? Quell’intervista l’avevo programmata da dieci giorni, accidenti! –
-Niente di male, cambierai i programmi, vedi tu. Butta giù qualche articoletto di costume. In Italia, in questi giorni, si parla soltanto di ferie e vacanze, stai quindi sul leggero. Ciao Demattei, stammi bene e cerca di evitare i cessi pubblici per qualche giorno! – E riattaccò senza aspettare risposta.
Un altro contrattempo. Nel lavoro di giornalista erano all’ordine del giorno, ma lui non s’era ancora abituato.
Aveva quindi un sabato tipicamente britannico a disposizione. Giacché ormai era in piedi e quasi del tutto vestito, tanto valeva uscire da casa e tentar d’improvvisare qualcosa che potesse assomigliare ad un servizio giornalistico.
Indossò un paio di jeans ed un giubbotto di pelle nera, s'infilò gli stivaletti, prese i caschi dall’armadio ed uscì.
Nel box, che aveva affittato nei pressi della propria abitazione, teneva i suoi “potenti mezzi di locomozione”: una vecchia “Mini”, acquistata d’occasione quand’era arrivato a Londra ed una Moto Guzzi “850 Le Mans”, che s’era portato dall’Italia. Per tutta l’estate avrebbe usato la motocicletta, anche se il clima capriccioso dell’Inghilterra avrebbe potuto riservare qualche brutta sorpresa ai motociclisti, anche in quella stagione.
Avviò il motociclo, lasciò girare in folle il motore per alcuni minuti, si allacciò il casco sotto il mento. Quindi, afferrato il manubrio, innestò la prima, lasciò andare la frizione a secco e contemporaneamente accelerò.
La moto schizzò in avanti e prese velocità. Gianmarco sbucò nella Coleherne Court Road e smanettò a tutta birra.
Cosa diavolo avrebbe fatto per quel giorno? Ci avrebbe pensato strada facendo. Per ora si annunciava una bella giornata estiva, aveva una motocicletta tra le gambe e tutta l’Inghilterra a sua disposizione.
Al primo incrocio voltò a sinistra, per prendere la circonvallazione che portava fuori Londra, quando, guardando avanti a sé, scorse una figura che gli era ormai, se non familiare, almeno già nota: quella della sua vicina di casa.
Accostò al marciapiede, staccò la frizione e tirò i freni: la motocicletta si fermò di colpo.
-Lady Diana – esclamò alle spalle della ragazza.
Lei si girò, stentò per qualche secondo a riconoscerlo, per via del casco integrale.
-Oh! Buuonciorno Mr. Ghiamma, How are you this morning? –
-Good morning Madam. A quanto pare, ieri sera vi ho disturbate per niente. L’intervista di cui le avevo parlato è saltata. Quindi per oggi sono disoccupato. Cose che capitano ogni tanto –
La ragazza si avvicinò al bordo del marciapiede, indicando il velocipede:
-Allora oggi lei è libero come l’aria, dove sta andando? –
-E’ quello che vorrei sapere anch’io. Lei che fa, se mi è lecito? –
-Ho appena riconsegnato alcuni vestiti lavati e stirati a dei miei amici. Ora prenderò l’autobus per tornare a casa. Sa, sono stata tanto stupida da prestare la mia “Golf” ad un’amica che me l’ha sfasciata –
-Ma come!…fa anche la lavandaia? – chiese lui stupito.
-Non proprio, lavoro sì, come baby-sitter presso una scuola materna, ma lavo e stiro per passare il tempo e per un favore ai miei amici –
Gianmarco pensò per un momento ai costosi favori che chiedevano gli “amici” a suo fratello, oppure avrebbe dovuto chiamarli ricatti? Invece, quell’aristocratica inglese!…
Mentre lei gli stava elencando i capi di vestiario che aveva appena consegnato e gliene descriveva i relativi proprietari, fu colto da un’idea improvvisa: voleva a tutti i costi restare in compagnia di quella ragazza, il più a lungo possibile. Quel sogno, dopotutto, era stato premonitore.
-Dove abita Lady Diana? Questa notte l’ho sognata, mi stava salutando dalla finestra del suo appartamento e mi chiedeva se potevamo rivederci –
-Accipicchia come corre! Ci siamo appena conosciuti e sono già la protagonista dei sui sogni –
Lei s’interruppe per un momento, dubbiosa se dirlo o meno, poi riprese:
-Abito a cento chilometri da Londra, in una vecchia villa piena di quadri antichi e di pendole, dentro una tenuta di cinquemila acri, piena a sua volta di pecore. Un luogo chiamato Althorp –
-Vuole un passaggio? – chiese lui, dando un colpetto al sellino posteriore della motocicletta.
La ragazza fece mezzo passo all’indietro, spaventata.
-No! Su quel “coso” no, ho paura persino dei cavalli. Sa, mi sono rotta un braccio cadendo da un pony, quand’ero bambina, si figuri una motocicletta e poi, il casco? –
Senza dire una parola, Gianmarco estrasse dal bauletto il casco per il passeggero e lo porse a Diana, dicendo:
-Non si preoccupi, i cavalli hanno un carattere, si spaventano come gli esseri umani e non sempre gradiscono il cavaliere. Una motocicletta no, fa assolutamente quel che le dice il guidatore, inoltre io guido le moto da quand’ero un ragazzino, non ha nulla da temere – poi soggiunse - Ho l’impressione che se riuscirò ad intervistare suo padre, avrò trovato il lavoro per oggi –
Diana giocherellò per qualche secondo con il casco che Gianmarco le aveva porto:
-Se promette di non andare troppo forte, va bene, verrò con lei. Quanto ad intervistare mio padre, credo proprio di doverla deludere: è reduce da una grave malattia, un ictus cerebrale, ha quindi qualche difficoltà ad articolare le parole… e poi c’è Raine –
Il viso di Diana divenne triste tutto d’un tratto.
-Chi è Raine? –
-E’ la donna che ha sposato mio padre in seconde nozze: una vera arpia. I miei genitori sono divorziati –
-Sua madre dov’è? –
-Ha sposato, anche lei in seconde nozze, un industriale. Ci vediamo ogni tanto; io, fin da bambina, sono stata affidata a mio padre –
-Capisco! – rispose imbarazzato.
Sì, aveva capito: era proprio il caso di non approfondire la questione genitori. Dall’espressione di Diana, si vedeva che la cosa le bruciava ancora dentro, nonostante dovesse essere trascorso già qualche anno dal giorno del divorzio. Notò anche che Diana, passava facilmente dal riso e dall’euforia alla tristezza, come una bambina.
Pensò che mancasse qualcosa a quella ragazza, come se avesse nell’animo un grosso buco nero.
Diana, senza dire una parola, salì sul sellino posteriore. Quando riuscì ad appollaiarvisi sopra, s’infilò il casco e lo abbracciò alla vita:
-Partiamo, le indicherò la strada –
La motocicletta si scostò dal cordolo del marciapiede. Poiché aveva un passeggero inesperto sul sellino posteriore, si comportò con maggiore prudenza. Chiunque abbia guidato una motocicletta di una certa prestanza, sa benissimo che con qualcuno spaventato sul retro, un mezzo a due ruote come quello, poteva diventare inguidabile.
La conversazione, per forza di cose, fu piuttosto limitata a qualche “left” o “right” che ogni tanto Diana gli lanciava attraverso il casco per indicargli la strada.
A mano a mano che procedevano verso la periferia di Londra, incominciavano a comparire i primi quartieri composti da villette unifamiliari. Il traffico si stava diradando, poi, dopo qualche chilometro, la campagna.
La campagna inglese, in quella bella mattina d’estate, apparve loro in tutto il suo rigoglio: per questo Gianmarco, quando poteva, preferiva usare la motocicletta alla più comoda e sicura automobile. Come tutti i motociclisti di lungo corso, riusciva a frazionare i suoi riflessi, parte per guidare il mezzo, parte per pensare ad altre cose ed infine, molto per ammirare il paesaggio, che in quel giorno d’estate gli appariva appunto come in un’oleografia dell’ottocento.
La strada s’era fatta dritta e poco frequentata, il giornalista accelerò ed il motore del mezzo incominciò a ruggire. La lancetta del contachilometri prese a salire: centoventi, centocinquanta, centottanta. Sentì la ragazza stringerglisi addosso, la cosa lo eccitò, ma pensò subito dopo che forse l’aveva spaventata. Lasciò allora scivolare la manopola dell’acceleratore, immediatamente la moto rallentò. Gianmarco ne approfittò per voltarsi verso la passeggera:
-Tutto bene? –
Lei fece cenno di sì con il capo:
-Credevo peggio –
Al primo villaggio accostò e quindi si fermò. Spense il motore, poggiò entrambi i piedi a terra per tenere ritta la moto, poi, si tolse il casco: incominciava ad avere caldo.
Anche Diana si levò il suo. Quando a Gianmarco riapparve per intero il viso della ragazza, si accorse che s’era trasformata. Era l’effetto della motocicletta. Una sgroppata sul filo dei duecento all’ora mette sempre addosso al passeggero uno stato d’euforia e gli fa provare un senso di potenza indicibile, anche se prova paura. Anche per Diana era come se la corsa in moto, in quell’ora scarsa, l’avesse mutata da crisalide in farfalla.
-Ehi! –
-Cosa succede? Perché ti sei fermato? – domandò lei, a sua volta meravigliata per quell’esclamazione.
-E’ come trasformata Madam, un’ora fa era meno carina di adesso –
-On the first (per prima cosa) – attaccò Diana decisa – Piantala di chiamarmi Lady o Madam, lascia stare i prefissi nobiliari. Sono nata per caso figlia di un conte, ma potevo ugualmente nascere in una capanna in Africa od al Polo Nord dentro un igloo o chissà dove –
-Ma…! -
-Non ho finito, on the second: voi continentali quando sentite pronunciare un titolo nobiliare in inglese, diventate tutti cerimoniosi come tanti cicisbei. A scuola ci hanno insegnato che sul continente hanno tutti il complesso di Robespierre. Avete decapitato il vostro Re, ora ne provate rimorso e cercate di rimediare in qualche modo, leccando i piedi a tutti i baronetti inglesi che trovate per strada. Non vi rendete conto di quanto apparite ridicoli ai nostri occhi? Ma cosa fate in Francia, in Spagna, in Germania ed anche in Italia, dei corsi speciali di piaggeria nei confronti dei nobili decaduti? –
Aveva terminato la sua filippica ridendo, era scesa dal sellino e si era messa a camminare lungo il ciglio della strada.
-Non volevo adularti, e neppure prenderti in giro. Credevo semplicemente che la cosa potesse farti piacere –
Poi, dopo essere sceso a sua volta dalla motocicletta ed averla sistemata sul cavalletto, continuò:
-Vedi, a parte il fatto che re, regine, conti, duchi e baronetti, li abbiamo avuti anche noi, non siamo più abituati a trattare con loro…cioè con voi. Vuoi che ti dica: veniamo nel tuo Paese, noi cafoni continentali, per rimirare la famiglia reale, come andiamo allo zoo a vedere gli animali esotici dentro alle gabbie? – poi soggiunse:
-Se vuoi che ti chiami Diana, Diana Frances Spencer, Lady Diana o che altro, non hai che da chiederlo –
La ragazza socchiuse per un attimo gli occhi, poi, con tono tra il divertito e l’inquisitorio gli domandò:
-Ma come fai a conoscere il mio nome per esteso? Volevo chiedertelo anche ieri sera, ma non ho fatto in tempo, sei scappato via quasi subito –
Preso in castagna un’altra volta, Gianmarco rispose un po’ impacciato:
-Che giornalista sarei se non conoscessi nemmeno i miei vicini di casa! Cara Diana, un giornalista italiano, presso i suoi colleghi inglesi, americani, francesi e tedeschi, è svantaggiato: lo considerano un servo di chi comanda. Per questo diffidano di noi. Per lavorare tranquillamente, sono venuto a Coleherne Court e non a Fleet Street, come tutte le redazioni più importanti del mondo. In quel condominio, nessuno mi conosce, quindi non ho colleghi giornalisti che abbiano la pretesa di insegnarmi il mestiere. Io però, gli inquilini li conosco tutti. Per esempio: vuoi sapere quanti figli ha la segretaria al secondo piano, quella che… -
Diana l’interruppe con un gesto della mano.
-Non me ne importa niente dei miei coinquilini. Tu, piuttosto, sei uno spione? –
-Sono curioso, come tutti i giornalisti, poi… ho un segreto da confidarti –
-Quale segreto? – Domandò la ragazza.
-Sono stato spedito qui in Inghilterra perché… temevano che le Brigate Rosse, quei terroristi italiani di cui avrai certamente sentito parlare, mi facessero la pelle. Il direttore del mio giornale, come ti dicevo ieri, se l’è cavata con un paio di pallottole alle gambe. Da un anno a questa parte però, questi signori hanno preso a sparare anche alla testa, specie a quella dei giornalisti troppo ficcanaso. A quanto pare, io appartengo a quest’ultima categoria, almeno, stando ad alcune telefonate anonime pervenute al mio giornale – quindi concluse – Ecco, ora anche tu sai la verità –
Poi rimontò sulla moto, avviò il motore e si accostò a Diana:
-Vuole un passaggio signorina? – domandò.
Diana stette al gioco.
-Con uno sconosciuto che per di più è diventato un bersaglio mobile per terroristi? Ma come si permette! Lei non sa chi sono io –
-Chi è lei ? –
-Io sono una Lady, sono figlia di un conte, anzi, dell’ottavo Conte Spencer di Althorp, e se non gira al largo mio padre la farà decapitare, cioè no, la farà impiccare, come del resto si conviene con tutti i plebei che alzano troppo la cresta, altro che pallottole dei terroristi! –
Il giornalista ci pensò su, poi rispose:
-Mi permetto d’insistere Milady. Vuol dire che se suo padre vorrà appendermi per il collo, chiederò il privilegio di scegliere la pianta, come si faceva una volta in Italia –
Poi, senza darle il tempo di rispondere aggiunse:
-E quella pianta me la sceglierò molto piccola! –
-Sfrontato, villanzone e plebeo! Non mi hai ancora detto perché ti eri fermato? –
Gianmarco, imbarazzato, tentò una risposta evasiva:
-Mi sono fermato perché… perché avevo un po’ di torcicollo, sai, il casco! –
Diana rimontò sul sellino, si rinfilò il casco, diede uno schiaffetto su quello del giornalista:
-Torcicollo? E tu saresti un centauro esperto! –
Gianmarco, che stava per ripartire, ebbe un’impuntatura, fermò di nuovo il motore del mezzo, si girò verso la sua passeggera e, in un improvviso slancio di sincerità:
-Vuoi la verità? Ebbene, m’ero fermato perché m’era improvvisamente venuta voglia di baciarti. Sarebbe stato problematico, con la motocicletta in movimento ed i caschi in testa! –
-Perché non lo fai adesso? Ti sei perso d’animo? Oppure m’hai preso per una terrorista? Sono o no la ragazza dei tuoi sogni? –
Senza aspettare una risposta che lui non avrebbe comunque saputo dare, Diana scese dal sellino, sfilò di nuovo il suo casco e si piazzò davanti al viso di Gianmarco. Anche il giornalista si decise a togliere, a sua volta, l’ingombrante protezione del cranio.
-Così va meglio – esclamò Diana.
Quindi gli prese il viso tra le mani e lo baciò.
Il centauro, ch’era rimasto seduto sul mezzo, per poco non cadde trascinandosi dietro anche la moto.
-Diana… è stata decisamente una pessima idea, tanto vale che lo ammetta, se tenti un altro assalto mi butterai per terra. Questa moto, che mi cadrà addosso, pesa più di duecentocinquanta chili! –
Diana convenne che quello dov’erano non era il luogo adatto per simili effusioni. Saltò di nuovo sul sellino dietro a lui, si rimisero entrambi i caschi in testa:
-Forza! Servo infedele e sciocco, galoppa verso il tuo tragico destino –
Poi, prima di ripartire, aggiunse confidenziale:
-Però, com’è strana la vita! Le persone che mi sono più care io non riesco mai a sognarle; dovrai insegnarmelo tu. Quando saremo arrivati a casa mia, invece di intervistare mio padre, sarò io ad interrogare te. Vedremo se mi racconterai altre balle –
-Perché pensi che ti abbia raccontato balle? –
-Perché sei un italiano, e gli italiani sono tutti bugiardi –
-E gli inglesi tutti imbecilli – pensò lui, poi finalmente riuscì a ripartire.
Dopo alcuni minuti di strada dritta, arrivarono a Northampton e quindi imboccarono la statale A428. Proseguirono per una decina di chilometri. Un cartello stradale gli indicò che erano in prossimità della casa di Diana.
Great Brighton era un villaggio di poche anime, in una fila di case in mattoni rossi lungo il bordo della strada, soltanto un “pub” ed un ufficio postale. Poche le persone che camminavano per il paese.
Alla fine della strada, un cancello ed un’inferriata neri con finiture oro, indicarono che lì incominciava il dominio degli Spencer. La motocicletta si accostò lentamente alla cancellata, e si fermò. Diana scese dal mezzo, mentre Gianmarco restava in sella. La ragazza si avvicinò all’inferriata, contemporaneamente un uomo, probabilmente il custode, uscì da un’abitazione all’interno della proprietà. Diana si sfilò il casco, l’uomo riconobbe la figlia del padrone, quindi fece scattare la serratura del cancello, che si aprì scorrendo su rotaie. Gianmarco riattivò la moto, si avvicinò a Diana, la quale stava conversando familiarmente con il guardiano. La ragazza risalì sul sellino e ricominciò a canzonarlo, mentre Gianmarco, allibito dallo sfarzo di quel parco tentava di guidare la motocicletta lungo il viale.
Diana gli indicò le querce secolari lungo il percorso:
-Come puoi vedere, in questo parco ci sono tutte le piante che desideri per farti impiccare da mio padre, ma temo proprio che di piante piccole, quelle che tu preferisci, qui non ne crescano. Desideri ancora conoscere il Conte Spencer? –
Lui non rispose: prima di tutto perché non aveva ancora veduto la dimora vera e propria, poi perché pensava che se il padrone di casa, il Conte John Edward Spencer, avesse avuto un carattere consono alla sua dimora, quel giorno avrebbe potuto al più, intervistarne il maggiordomo.
Althorp House alla fine apparve d’improvviso da dietro una macchia di alberi.
L’edificio era il frutto di numerosi rimaneggiamenti ed allargamenti apportati fino al secolo scorso. Era la tipica “Stately Home” inglese (residenza nobiliare di interesse storico), grande, splendida, maestosa.
-Accidenti! –
-Come? –
-Niente – rispose il giornalista – Tipica espressione di meraviglia italiana –
In effetti, c’era di che essere meravigliati: una grande villa a due piani, l’ingresso della magione era in stile neoclassico, un pronao con quattro semipilastri terminanti con capitelli in stile corinzio.
Scesi dalla moto, si diressero verso il portone d’ingresso. Una persona di mezza età venne loro incontro. L’uomo, piuttosto massiccio, con i folti capelli ancora biondi, un viso da cane San Bernardo, strinse la mano a Gianmarco.
-Mio padre, il Conte Spencer – lo presentò Diana.
-Così lei è un giornalista? – chiese il conte.
Il custode al cancello, doveva averlo avvertito che la figlia stava arrivando in compagnia di un gazzettiere.
-Per l’appunto Milord –
-Di quale giornale? Se è lecito –
-Di un quotidiano chiamato “Il Giornale” –
-Mi perdonerà, ma non l’ho mai sentito nominare –
-Non c’è niente da farsi perdonare, signor conte. Anche in Italia, c’è parecchia gente che perlomeno finge di non averlo mai sentito nominare. Ma vede, noi siamo, nel giornalismo italiano, come i fantasmi in certi castelli scozzesi: nessuno che possa dire di averli visti, però tutti ne hanno paura –
Era una battuta un tantino vecchiotta, ma il Conte sorrise ugualmente divertito.
-Ha compiuto un piccolo miracolo facendo salire mia figlia su di una motocicletta, Diana non monterebbe in sella neanche ad un pony –
-In effetti mi ha raccontato dell’incidente – rispose Gianmarco
-Mister Ghiamma Blablablà vorrebbe farti un’intervista – esclamò Diana, rivolta al padre.
-Come hai detto che si chiama? – domandò allarmato il conte alla figlia.
-Non so, questi italiani hanno dei nomi impronunciabili - rispose la ragazza.
-Gianmarco Demattei, signor conte – precisò
-Va bene, va bene Mister Blablablà, o come diavolo si chiama, mi segua – tagliò corto il conte – le mostrerò la mia dimora-
L’interno del palazzo era in linea con quanto prometteva all’esterno: i quadri alle pareti, più di cinquecento, erano di artisti inglesi, fiamminghi, francesi e qualche italiano. I più famosi erano alcuni di Van Dyke.
La fortuna degli Spencer era incominciata a cavallo tra il XV° ed il XVI° secolo. Arricchitisi con il commercio di ovini, nel 1508 avevano acquistato il feudo di Althorp ed il titolo di baronetti da Re Enrico VIII. Nei secoli successivi la tenuta fu ampliata e la casa abbellita con altre aggiunte. A metà del settecento, gli Spencer erano considerati gli uomini tra i più ricchi del mondo. Acquisti di opere d’arte ed altri arredi, avevano contribuito a fare della loro dimora di rappresentanza la splendida reggia che si poteva ancora ammirare.
Poco dopo pranzarono. A tavola, se tavola si poteva chiamare, quella specie di monumento che troneggiava in mezzo alla sala dei banchetti, il conte rispose gentilmente alle sue domande. Per quanto, a volte, incespicasse nelle parole, a causa dell’ictus del qual portava ancora lo strascico.
No, non era facile amministrare quella tenuta, era cosciente che il mondo e l’Inghilterra guardavano ormai all’aristocrazia terriera con un misto di curiosità e divertimento. Sperava nel nuovo Governo conservatore e considerava la signora Thatcher “A woman of nerve” (una donna di polso).
Gianmarco lo stava ascoltando senza prendere appunti. La dote che aveva sviluppato in anni di lezioni universitarie. Il giornalista, infatti, poteva mandare a memoria i discorsi più lunghi, senza bisogno di annotarli sul taccuino e senza usare registratori di sorta. Quante volte i suoi intervistati si erano stupiti di non vederlo mai trascrivere nulla di quello che dicevano. Si erano stupiti ancor più il giorno dopo, leggendo l’intervista riportata per filo e per segno come loro l’avevano rilasciata.
Il Conte Spencer però, non parlava italiano, quindi non avrebbe potuto controllare l’intervista. In compenso Gianmarco aveva ormai imparato a pensare in inglese. Mentre pranzava, la sua memoria stava registrando in bell’ordine ciò che più tardi gli sarebbe servito per scrivere quell’articolo.
La società britannica? Imbarbarita. Il Paese in quegli anni settanta era diventato sguaiato e violento: troppa povertà morale e materiale, troppa pigrizia, troppa corruzione, troppe tasse. Già, le tasse, se fosse andata avanti così, nel giro di un paio di generazioni, o forse meno, la famiglia Spencer sarebbe stata costretta a vendere tutto per pagare le imposte di successione, terreni, fabbricati, opere d’arte.
-Una delle più importanti pinacoteche d’Europa venduta a pezzi agli arricchiti di turno. A very reprehensible thing (una cosa veramente riprovevole)– concluse il conte sconsolato - Unless… (a meno che) –
-Unless?…- lo sollecitò il giornalista.
Il conte rimase pensieroso per qualche istante, poi facendo un vago cenno con la mano bofonchiò:
-The proof of the pudding is in the eating –
Gianmarco non insistette. Guardò Diana all’altro lato del tavolo: la ragazza stava ridacchiando sotto i baffi. Cosa voleva dire il conte con quel vecchio detto inglese, equivalente pressappoco all’italiano “se sono rose fioriranno”?
Poi le parti s’invertirono, furono il Conte e Diana a porre domande a lui.
-Come si chiama il direttore del suo giornale? –
-Indro Montanelli –
-Il nome non mi è nuovo – dichiarò, bontà sua, il conte.
-Come mai così giovane l’hanno mandata a Londra? –
-Perché non avevano per le mani altri corrispondenti così pazzi da mandare alla ventura. Veramente avrebbero voluto collocarmi a Parigi, ma io ho insistito per venire a Londra, dov’eravamo completamente “scoperti” –
Per un momento temette che Diana rivelasse al padre la storia dei terroristi, ma la ragazza continuò ad ascoltare senza intervenire. Alla fine, soggiunse:
-Anche perché per Parigi, di aspiranti corrispondenti ce n’erano già troppi –
-Ah, Parigi! – lo interruppe il conte – Ci dovrò andare, come ogni anno, con mia moglie Raine tra pochi giorni. Io mi fermerò al “Ritz”, mi fa ritornare alla mia giovinezza –
-A Parigi – soggiunse Gianmarco - Mio fratello possiede un appartamento sugli Champs Elisées, ed ha alcune partecipazioni in immobiliari francesi. No, sicuramente a Parigi mi sarei trovato ancor più sotto alla sua tutela, qui in Inghilterra sono più libero –
-Suo fratello è un immobiliarista? –
-Non soltanto, ne ho parlato l’altra sera con Diana. Tra l’altro, è azionista di minoranza del giornale dove lavoro, ma ho l’impressione che non si fermerà a questo. Ormai “he has the finger in the pie” (ha le mani in pasta dappertutto), credo proprio che si sentirà molto presto parlare di lui, anche fuori d’Italia: è un uomo molto ambizioso –
-Magari ce ne fossero ancora in Inghilterra di uomini come suo fratello! – esclamò il conte.
-Ce ne saranno ancora - rispose il giornalista - Voglio azzardare una profezia, signor conte: abbia pazienza e di qui a qualche anno, li vedrà spuntare come funghi –
Il pranzo era terminato, così come l’intervista. Il conte si congedò con un leggero inchino, Gianmarco preferì stringergli la mano ed esibire il suo miglior sorriso mentre lo ringraziava per l’ospitalità.
Intanto che la servitù stava sparecchiando, Diana lo prese per mano, lo condusse all’esterno attraverso i saloni. Come furono rimasti soli Gianmarco azzardò:
-Che intendeva dire tuo padre con quel… “pudding is in the eating”? O come diavolo si dice –
Diana divenne pensierosa, i suoi occhi si trasformarono in due fari accesi, poi, guardandosi intorno, gli si avvicinò e sottovoce:
-Mia sorella – sibilò.
-Tua sorella ? –
-Si, mia sorella Sarah, è fidanzata con il Principe di Galles! –
-Accipicchia, e me lo dici adesso! Quindi tuo padre corre il rischio di diventare il suocero del re; niente male come prospettiva –
-Tu non conosci mia sorella – continuò Diana – E’ una vera Lady, non sarà tanto facile per il Principe Carlo mettersela sotto i piedi, poi ci sono l’altra mia sorella Johan e Charles, il maschio di famiglia, l’erede al titolo di conte. Io sono invece una pezza da piedi, almeno, così mi considerano i miei fratelli –
-Suvvia Diana, non buttarti giù così –
-No, purtroppo non mi sto sminuendo. Figurati che il nome Diana era di una mia trisavola del settecento, mio padre me l’ha affibbiato scegliendolo a caso sul registro degli antenati della famiglia Spencer. In attesa di darmi un nome decente, mi hanno chiamato “Bambi” per quasi un mese. A proposito, come lo pronunciate voi in Italia? –
-Deeana, lo pronunciamo Deeana e lo scriviamo come voi, dopotutto è un nome latino, lo sapevi? –
-Certo! Era il nome che i Romani davano alla della dea della caccia – rispose Diana - Il fatto è che io sono nata penultima, avrei dovuto essere un maschio, Charles è l’ultimogenito. Vedi Ghiamma…prima di me è venuto al mondo un altro fratellino, morto a pochi mesi: se fosse sopravvissuto io non sarei mai nata. Mia madre si ostinava a mettere al mondo "soltanto" femmine. Credo che fosse questa la causa principale del litigio dei miei genitori. Dopo, quando nacque finalmente anche Charles, mia madre si era ormai trovata un altro uomo. Qualche anno dopo la nascita di mio fratello, se ne andò –
-E a voi non ha pensato? –
Diana lo guardò sbalordita.
-E’ la stessa, identica domanda che rivolsi a mio padre, quando la vidi allontanarsi per sempre da casa nostra –
Diana non resistette più e cominciò a singhiozzare, poi tra le lacrime continuò:
-Sai che rispose mio padre? Rispose: “No, a voi non ha pensato, è innamorata di un altro uomo” –
Gianmarco era imbarazzato, si sentiva in colpa. La sua curiosità fuori luogo aveva causato quelle lacrime. Le mise le sue dita tra i capelli e le accarezzò la testa. Avrebbe voluto abbracciarla, ma si trattenne.
In quel momento non poteva sapere che ben altri erano i motivi dello sfacelo della famiglia Spencer: l’alcool, di cui entrambi i coniugi abusavano; meschini calcoli d’interesse economico; il ritardo con cui il nonno di Diana, il settimo Conte Specer, si decideva a tirare le cuoia ed infine, last but not least, la vena di follia che percorreva tutta la famiglia ormai da qualche generazione.
Le domandò dolcemente:
-Torniamo a Londra, vuoi aiutarmi a scrivere l’articolo? –
Lei tenne la testa abbassata, ci pensò sopra per qualche secondo, poi:
-Ma sì! Torniamo a Londra, prima che arrivi quella soia di Raine - Concluse con rabbia.
Il ritorno alla capitale, nel tramonto dorato di quel crepuscolo estivo, fu ovviamente più mesto dell’andata, con il sole che stava scomparendo dietro l’orizzonte alla loro destra.
Questa volta il giornalista lanciò la sua moto a duecento. Diana, forse perché s’era ormai abituata a sedere su di una moto in corsa, forse perché stava ancora pensando a quella scena penosa di poco prima, non diede segni di paura. Per loro fortuna, non incontrarono poliziotti che li fermassero per eccesso di velocità. A quei tempi la polizia stradale inglese, specie con i “velocisti” stranieri, era piuttosto severa.
Verso le diciannove, furono di ritorno a Coleherne Court, Diana se ne ritornò al suo appartamento dopo un breve saluto. Gianmarco non insistette per trattenerla. A casa sua, si sedette alla scrivania ed incominciò a buttare giù l’articolo sulla famiglia Spencer che l’aveva ospitato. Titolò il servizio: “Un aristocratico e le sue pecore”, riferendosi all’attività che da secoli era la fonte di ricchezza dei conti Spencer.
Aveva quasi terminato lo scritto (lo avrebbe dettato per telefono a Milano), quando trillò il campanello dell’ingresso. Era Diana che veniva a trovarlo, quando lui aprì la porta lo abbracciò e lo baciò:
-Hai cenato? – domandò
-Non ceno mai prima di terminare il lavoro. Se pazienterai per altri dieci minuti, il tempo di terminare l’articolo e di telefonarlo in Italia, ti farò assaggiare una delle mie favolose pizze, come le preparo io…-
-Anche a Milano sanno fare la pizza? Credevo che soltanto i napoletani ne fossero capaci – esclamò Diana.
-Guarda che la pizza io la faccio con i preparati in busta; basta seguire le istruzioni –
Lo sguardo della ragazza si era intanto posato sui fogli dell’articolo che il giornalista stava terminando. Si trattava di uno scritto dal tono ironico nei confronti dell’aristocrazia britannica in generale, e del Conte Spencer in particolare. Per fortuna, Diana non conosceva una parola d’italiano.
-Quando hai finito, ti spiacerebbe tradurmelo? –
-Temo che la mia ironia di continentale latino nei confronti degli anglosassoni ti potrebbe offendere; dopotutto, tuo padre con me è stato molto ospitale –
Diana sorrise:
-Mi offenderei se tu non me lo traducessi, tanto, mio padre non potrà mai leggerlo. Com’è intitolato…”Oon eiraistokreitaicoo i lii siuii piikoorii”: mio Dio, ma quante vocali! –
Questa volta toccò a Gianmarco sorridere, poi le tradusse il significato del titolo.
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 12:15 am

Capitolo IV


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil14


SWINGING LONDON







Diana si rivelò una vera miniera se non d’informazioni, certo di pettegolezzi: il vero carburante del giornalismo. Oltre ad aver trovato una ragazza adorabile, Gianmarco aveva scoperto ciò che gli mancava per compiere un passo decisivo all’interno dell’High society britannica, almeno così s’illudeva. Per quanto giovanissima, Diana conosceva a menadito tutte le pieghe (e tutte le piaghe) di quella che passa per la classe dirigente più chiusa, orgogliosa e diffidente del mondo, specialmente nei confronti di uno straniero, quale lui era e restava. Di quanto si sbagliasse, soltanto il tempo e l’esperienza avrebbero potuto rivelarglielo, ma in quei giorni, agli occhi di un giornalista alle prime armi in un paese straniero, tutto appariva a portata di mano. Sembrava aver trovato il filo d’Arianna che fino allora gli era sempre mancato per orientarsi in quel mondo così diverso e soprattutto, così lontano dagli stereotipi che tutti si costruiscono, quando vogliono ritrarre un’altra società che non sia la loro.
Nella settimana successiva al loro incontro, Diana gli presentò alcuni suoi amici, figli di personalità ben introdotte negli ambienti dell’aristocrazia inglese, quindi del nuovo governo conservatore. Gli fece conoscere sua madre, invitandolo a cena a casa di lei, non fidandosi delle virtù culinarie di Gianmarco.
Durante un’altra cena in un piccolo ristorante, capitò loro d’incontrare il vicedirettore del “Sunday Times”, che Diana conosceva bene (era amico di suo padre), il quale era in compagnia di un giovane redattore appena assunto, un certo Andrew Morton. Gianmarco, come un archivio computerizzato, registrò nella sua memoria quei nomi, come del resto aveva fatto prima con tutte le persone che Diana gli aveva presentato. Giornalisti come quelli, erano sempre bene accetti nella rete di rapporti che stava tessendo; non immaginava certamente che Morton, in special modo, sarebbe divenuto tanto importante per entrambi, qualche anno dopo.
Ritornando a casa, Diana invece di salire direttamente al suo appartamento, insistette per farsi invitare in quello del giornalista.
-Non sei ancora pronta per andare a nanna? – domandò il giornalista aprendole la porta della sua abitazione.
Lei entrò, poi indicando a Gianmarco la stanza da letto:
-Io avrei un’idea migliore, che ne dici? –
Diana sapeva essere anche sfrontata quando voleva, come tutte le ragazze inglesi. Lui, preso alla sprovvista, tentò di tergiversare:
-Domattina debbo alzarmi presto –
-Anch’io, se solo per quello – poi, accorgendosi del suo imbarazzo: – Ora è effettivamente un po’ tardi, ma domani sera non ci saranno scuse –
Poi, con tono tra il divertito e l’inquisitorio:
-Non sarai per caso vergine, vero Ghiamma? –
Subito dopo, lo baciò, ed uscì dall’appartamento.



La voce al telefono gli era fin troppo nota, era il suo fratellone Roberto.
-Svegliati Giamma, chi dorme non piglia pesci –
Già a quell’ora rompeva le balle, eppure non era abbonato alla sveglia telefonica!
-Che c’è, hai dormito male questa notte? – chiese il giornalista.
-Ma che dici! Lazzarone, mangiapane a tradimento, giornalista della mutua, corrispondente estero da Canicattì. Ma che mi combini? Noi ti mandiamo in Inghilterra a cercare notizie e novità e tu ci mandi una bella intervista con un vecchio babbione di conte. Guarda che in Italia di gente così ne puoi trovare anche alla Baggina –
Gianmarco ci pensò per un momento, poi sbottò:
-Ma mi svegli per questo? Mi telefoni a quest’ora da Milano per dirmi come fare il mio lavoro? – Poi aggiunse, ancora più incattivito: - Non spetta a te giudicare quel che scrivo. Sei per caso diventato anche il direttore del giornale? –
Certe volte il fratello esagerava con il sarcasmo.
-Non ti ho chiamato per questo e non ho nessuna intenzione di giudicarti come giornalista, vorrei soltanto darti qualche piccolo consiglio –
S'interruppe per un momento, come per riordinare le idee, poi aggiunse:
-Senti, Giamma, c’è in ballo una questione…come dire, imbarazzante, in questo momento. Tu non te ne rendi conto ma non possiamo parlarne al telefono. Vieni a Milano anzi, ad Arcore, alla nuova villa, ne parleremo a quattr’occhi, vuoi? –
Non era più la voce strafottente di prima, ora il tono era diventato suadente, persino affettuoso, da fratello maggiore qual era.
-Non capisco cosa tu voglia dirmi, comunque fra un paio di giorni sarei dovuto venire ugualmente a Milano, sai, debbo dare l’esame di economia all’Università, quindi…-
-Vieni subito! – Ingiunse il fratello – E’ già in viaggio quello che deve sostituirti temporaneamente, poi, fra qualche giorno sarai di ritorno a Londra, ma vieni qui subito!–
Roberto riattaccò, lasciando Gianmarco in preda alle preoccupazioni. Cos’era successo di tanto grave da richiedere la sua presenza urgente a Milano? Ci sarebbe andato subito, per lui non era un problema, visto che lo avrebbero sostituito provvisoriamente, solo che…
-Oh no! E chi lo dice adesso a Diana? –
Già, Diana, la sua amichetta londinese, la Lady un po’ fricchettona, con la quale quella sera stessa aveva… un impegno inderogabile, come le aveva promesso. Lei era già così imprevedibile, come l’avrebbe presa?
Pensò di andare al piano di sopra e di avvertirla del cambio di programma. Dopotutto, quando ci si mette con un giornalista e per di più straniero, ci si dovrebbe aspettare questo ed altro.
Suonarono al campanello d’ingresso, Gianmarco si alzò dal letto, s’infilò i pantaloni del pigiama: dormiva in mutande, con quell’afa estiva…
-Chissà a Milano! – mormorò, aprendo la porta dell’appartamento.
-Ciao Giamma! –
-Beppe! Sei già arrivato accidenti, ha fretta di sostituirmi mio fratello, non sai niente del perché di questa rimpatriata? –
Bebbe Severgnini allora ventiduenne, era stato assunto alla fine del ’78, dopo aver rinunciato alla laurea in legge. Anche lui, come Gianmarco, era un raccomandato di ferro per parte di padre, notaio in quel di Crema a sua volta amico di Montanelli. Il padre, come tutti i padri, desiderava a che anche il figlioletto ne ripercorresse le orme. Il genitore, quindi, prima d’arrendersi, si era rivolto all’amico direttore del “Giornale”, il quale, per mettere alla prova la vocazione da giornalista del giovincello, pensò bene di mandarlo, dopo un breve tirocinio, a tenere compagnia a Gianmarco a Londra. Evidentemente, il tirocinio in sede era già terminato.
-No, non so niente Giamma. Montanelli in persona mi ha tirato giù dal letto e mi ha fatto imbarcare per Londra da Linate –
Poi allungandogli la mano e stringendogliela aggiunse:
-Come stai vecchio sporcaccione? –
-Io benone, sono quelli di Milano, voglio dire, mio fratello e Montanelli che, a quanto pare, sono stati morsi dalla tarantola. Mi ha telefonato Roberto poco fa e mi ha ordinato di partire subito. Ad occhio e croce direi ci siano dei guai in vista. Solo, non riesco a capire che c’entro io. Sei sicuro di non saperne niente?–
Bebbe fece un cenno di diniego con la testa, poi aggiunse:
-A pensarci bene, anche Montanelli appariva un po’ preoccupato, ma non ci ho fatto caso, lui ha sempre qualche gatta da pelare in ogni momento. Mi ha caricato sul taxi e mi ha portato a Linate, dove c’era il FALCON 10 di tuo fratello–
-Come? Sul FALCON e non con un volo di linea? –
-No, con il vostro aereo personale; adesso è sulla pista di Gatwich che aspetta te, sbrigati! –
-Oh Dio! – Implorò Gianmarco alzando le braccia al cielo – Sono diventati tutti matti a Milano, anche con il Jet personale! –
Incominciò a vestirsi, nel frattempo Beppe stava sbirciando i tabulati del telex che nel frattempo s’erano srotolati sul pavimento, poi, togliendosi gli occhialini esclamò:
-C’è un altro problemino, personale questa volta –
Non era decisamente giornata, Gianmarco chiese rassegnato:
-Quale problemino? –
-Non so una parola d’inglese – ammise Beppe con un sorrisetto.
-Sono c…. tuoi! Anzi, di Montanelli e di mio fratello! – concluse, al colmo dell’esasperazione.
In quel momento suonarono di nuovo alla porta, Gianmarco aprì: era Diana.
-Buuociorno Ghiamma! –
-Good morning Diana – rispose Gianmarco, poi si girò verso Beppe gliela presentò:
-Enchanté mademoiselle – attaccò Beppe – Je suis un journaliste italien et je m’apelle…-
-Guarda Beppe che questa ragazza il francese non è riuscita ad impararlo nemmeno a calci nel sedere. Sì, è una Lady, ma un po’ ….come dire…-
-Un po’ somarella! – terminò Beppe – Non occorre essere italiani e plebei, per essere pure ignoranti – concluse comprensivo il suo sostituto.
Gianmarco a questo punto cambiò discorso.
-Hai detto di essere arrivato con il FALCON 10 di mio fratello, ma chi lo ha pilotato? –
-Il pilota ingaggiato da Roberto. Ora è già ritornato a Milano con il primo volo di linea, penso quindi che per il ritorno l’aereo lo debba pilotare tu –
Già, anche l’aereo: oltre all’università, la motocicletta, anche il brevetto di pilota.
-I don’t undestanding anything, please! – esclamò Diana la quale, da quella conversazione italo-franco-inglese era rimasta esclusa.
-Scusami – disse Gianmarco. Poi ebbe un’idea e le chiese:
-Vuoi venire con me a Milano? -
-E il lavoro? – chiese Diana – E poi Milano non è Althorp! –
-Andiamo e torniamo con il nostro aereo privato, puoi telefonare da qui all’asilo-nido e chiedere di farti sostituire per oggi e per domani. A Milano poi, potrai avvertire tuo padre ad Althorp di questa scampagnata. Ti presenterò al mio grande fratello –
La ragazza tacque per un momento. Si capiva che ne era tentata. Lei moriva dalla voglia di evadere per un po’ dalla solita routine quotidiana, anche se Milano non era Parigi o Roma.
Senza fare un commento, prese il telefono, chiamò la scuola materna dove lavorava ed avvertì che per i prossimi giorni non sarebbe venuta.
-A quanto pare ti porti la scorta a Milano – commentò Beppe – E che scorta! –
-Beppe – rispose Gianmarco – risparmiati i commenti salaci. Quanto ai servizi, nei prossimi tre giorni non ci saranno particolari impegni da portare a termine. Fai una cosa: vai al primo pub che trovi per strada, siediti e guarda che faccia hanno gli avventori. Chissà che non trovi lo spunto per un bell’articolo di costume –
Dopodiché tornò in camera sua, s’infilò una camicia pulita (era rimasto ancora in maglietta), la sahariana da viaggio bianca, vi infilò nel taschino il passaporto e gli altri documenti. Prese la sua valigetta, ci mise i libri dell’esame che doveva sostenere, dopodiché si considerò pronto per la partenza. Tornò nel soggiorno, Diana non c’era più; a Beppe aveva detto qualcosa che lui, ovviamente, non aveva capito.
-Probabilmente dev’essere andata a fare i bagagli, abita qui sopra vero? –
Gianmarco ci pensò per un attimo:
-Ma che stupido! Pretendo di portarmi appresso una ragazza fino a Milano, con gli abiti che indossa. E’ sicuramente un po’ troppo vero? –
Dopo qualche minuto Diana tornò giù con un paio di valigioni grossi come armadi.
-Diana, staremo via tre giorni al massimo, non puoi portarti tutta quella roba! –
Diana riguardò le valige, capì di aver esagerato, fece di sì con il capo, ed uscì di nuovo dall’appartamento, il tutto senza pronunciar parola. Poco dopo rientrò con una borsa da viaggio grande un terzo di una sola delle valigie che s’era trascinata poco prima. Gliela mostrò trionfante. Gianmarco annuì soddisfatto.
-Pronti a partire… forse!-
Consegnò a Beppe le chiavi dell’appartamento, l’agendina con i numeri di telefono più importanti, le chiavi della macchina e della motocicletta, gli fecero ciao ciao con la manina ed uscirono.
Mentre percorrevano l’atrio del condominio sentì Diana dietro di lui mormorare qualcosa, si voltò: stava leggendo a bassa voce un depliant turistico di Milano che aveva scovato chissà dove.
-El Duuommo de Maileeno, laa Skaala, Senta Marraia deele Crazzie, el Castillo Sfoorsiskoo –
Gianmarco le fece osservare:
-Su quel depliant manca l’articolo più importante: mio fratello Roberto –


Roberto Demattei era un gaudente, quand’era gaudente, della “vecchia scuola”, nel senso che, quando voleva spassarsela, si recava a Parigi in pompa magna, lui, moglie, figli, amici e famuli.
Nella capitale francese aveva acquistato un lussuoso appartamento sugli Champs Elisées, dove se no? Coltivava amicizie tra gli imprenditori di grido, specie tra i costruttori edili come lui e, attraverso Montanelli e Bettiza, intrecciava rapporti anche con qualche intellettuale come Raymond Aron, François Fejto e la folta schiera dei “Nouveaux Philosophes” che in quel periodo dettavano legge nel campo della cultura francese e no.
Questo era il callido Roberto nei suoi gusti, tutto sommato classici, per il tipo d’educazione e le abitudini degli anni della sua formazione culturale, quelle della Joje de vivre, della Ville Lumiére, eccetera.
Il piovorno Gianmarco, ultimo e inatteso figlio di genitori ormai piccolo-borghesi e non più giovani, era cresciuto negli anni sessanta. Teen ager al tempo dei Beatles, di Carnaby Street e di Mary Quant, con il culto della Londra di quegli anni. I suoi grandi eroi erano stati quelli della stampa, i leggendari Kronkite, Carl Bernstein, Robert Woodward e quello che più di tutti amava, il corrispondente per antonomasia, il più famoso e temuto giornalista italiano, l’uomo dalle sette vite e dalle mille morti presunte, il suo idolo, pur senz’averlo mai incontrarlo: Indro Montanelli.
Così, privilegiato tra i privilegiati, poté realizzare tutti i suoi sogni di ragazzo: diventare giornalista e corrispondente estero, avere come direttore Indro Montanelli, vivere a Londra tra gli ultimi bagliori della “Swinging London”.
Naturalmente si rendeva conto che Montanelli lo aveva trattato con i guanti per il provvidenziale aiuto datogli dal fratello, collocandolo in una sede prestigiosa, anche se un poco decaduta. Ma Gianmarco era un tipo tosto ed il vecchio toscanaccio non si sarebbe pentito della scelta.
Per prima cosa l’esperienza londinese gli servì per perfezionare il suo inglese, che in quei pochi mesi imparò a menadito. In secondo luogo, i lunghi anni di studio all’università gli avevano posto le basi culturali e tecniche per destreggiarsi con disinvoltura tra le pieghe di una società, quella britannica in generale e quella londinese in particolare, che in quel periodo stavano riprendendo a marciare.
Non tutti, infatti, avevano capito che con l’elezione di Margareth Thatcher a primo ministro, si apriva un nuova era per i sudditi del Regno Unito, per il resto d’Europa, per l’America, ed infine per il mondo intero.
Le elezioni inglesi di quel 4 Maggio 1979, svoltesi in un clima britannicamente plumbeo, in un paese squassato da scioperi, inefficienza generalizzata, inflazione a due cifre, in uno stato piagato da governanti rassegnati e “webs” (molli), furono considerate, anni dopo, una svolta storica.
Da quel giorno, gli inglesi ricominciarono a sentire, come i cavalli, le briglie sul collo (e le nerbate sul groppone).
I primi anni di governo della signora Thatcher, quelli che andarono dal 1979 al 1985, furono comunque terribili. Un periodo paragonabile alla grande depressione americana degli anni ’30, ma circoscritto alla sola Gran Bretagna. Nonostante ciò, Margareth Thatcher fu confermata Primo Ministro per ben tre elezioni consecutive, cioè fino alla fine del 1990, anno in cui, per la solita congiura di palazzo ordita da alcuni deputati del suo stesso partito, fu costretta alle dimissioni.
Negli undici anni e mezzo del suo soggiorno al numero 10 di Downing Street, un diluvio di riforme, leggi ed ordini perentori si abbatté sulla compassata e sorpassata Inghilterra.
Le industrie “decotte” furono nell’ordine: chiuse, ristrutturate, riducendo drasticamente il personale, privatizzate, vendute e, se occorreva, anche svendute.
La burocrazia fu snellita, le furono assegnate nuove direttive con gli stessi sistemi dell’industria.
Gli ospedali, i mitici ospedali del Regno Unito, si trovarono trasformati in aziende. Medici ed infermieri che per una qualunque ragione non erano stati in grado di raggiungere gli obiettivi loro assegnati, furono licenziati sui due piedi, nemmeno si fosse trattato di fattorini di una qualsiasi industria privata.
Con i quattrini così risparmiati, fu possibile abbassare di parecchio le tasse ed i tassi d’interesse bancari (i più esosi del mondo).
La Borsa di Londra, riprese a salire vorticosamente. Immediatamente furono quotate nuove azioni in sostituzione di quelle delle aziende nel frattempo fallite.
Perché una durata così lunga? Perché il periodo del suo governo, a differenza di quello d’altri statisti inglesi come Churchill, fu chiamato Era Thatcheriana, come nel caso della regina Vittoria? Le spiegazioni che si possono dare sono tante: la considerevole espansione economica nel resto del mondo, che attutì le conseguenze della recessione in patria, l’appoggio avuto dal presidente americano Reagan, il successo nella guerra delle Falkland-Malvinas, la cocciutaggine della Thatcher nell’imporre la propria linea di politica economica, la durezza nel trattare con i sindacati, corresponsabili nel precedente declino economico. La “figlia del droghiere“, come veniva chiamata sprezzantemente dagli schifiltosi gentlemen del partito conservatore che, in passato, avevano fatto marcire la Gran Bretagna, fu sempre, come donna, costretta a lottare per raggiungere quegli obiettivi che ai suoi colleghi maschi erano scodellati nel piatto, per la semplice ragione d’avere imbroccato nel nascere, il sesso e le mamme giuste.
In poche parole, gli Inglesi riconobbero e premiarono in lei la persona di carattere, così diversa dalle figure dei governanti-robiolina che allora andavano per la maggiore in tutto il mondo occidentale.
A questo proposito, lo stesso Gianmarco fu testimone di un episodio emblematico di quello stato di cose. Nell’inverno del 1979, negli ultimi mesi di governo dei laburisti, durante le trattative per risolvere una spinosa vertenza sindacale (si erano messi in sciopero i becchini dei cimiteri, per questo, da alcuni giorni i morti restavano insepolti nelle celle frigorifere degli obitori). Tutti notarono che a Downing Street, i ministri ci arrivavano in taxi, i rappresentanti dei sindacati, più modestamente, vi si recavano in limousine con autista.
“L’inverno dello scontento”, come venne poi in seguito denominata quella stagione del 1978-79, segnò in modo profondo la memoria collettiva degli inglesi. Il secondo choc petrolifero dell’autunno 1978, in seguito alla crisi iraniana che provocò la fuga dello Scià di Persia e l’ascesa al potere degli integralisti islamici di Komeini, aveva fatto riesplodere in Gran Bretagna l’inflazione a due cifre, senza che il governo laburista potesse impedirlo. La crisi economica, che negli anni dal 1974 al 1978 era stata a malapena tamponata con gravi sacrifici, tornò ad aggravarsi proprio in quei primi mesi dell’anno. Per la fine del 1979, la disoccupazione era risalita a due milioni di persone e l’inflazione aveva raggiunto il venti per cento.
Le elezioni di primavera furono quasi una formalità. I conservatori non dovettero quasi far campagna elettorale per vincere a mani basse.
I Laburisti del Primo Ministro uscente, forse più che contenti di lasciare ai loro avversari il compito di sbrogliarsela in simili frangenti, furono dignitosamente sconfitti. Si ritirarono sul lato sinistro della Camera dei Comuni, là dove si siedono da sempre i deputati dell’opposizione, preparando la rivincita. Avrebbero dovuto aspettare diciotto anni.
Di quei diciotto anni, Gianmarco ne avrebbe passati quasi quattordici a Londra, in parte come corrispondente del “Giornale”, in parte come operatore finanziario nella “City”. Furono gli anni più belli ed intensi della sua vita, anni in cui tutto gli riusciva. Forse fu fortunato, forse abile, o forse, qualcuno più in alto di lui, guardò giù.
Il mondo, lentamente ma inesorabilmente, stava riprendendo a girare, dopo essersi avvoltolato su se stesso in quegli schifosi anni settanta, che ormai, grazie a Dio, volgevano alla fine. Gianmarco questo cambiamento di clima lo stava avvertendo, lui come parecchi altri.


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Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 1:14 pm

Capitolo V


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil15


SAPESSI COM’E’ STRANO…







L’aereo volava ormai da un paio d’ore. Impugnando il volantino della cloche, Gianmarco, di tanto in tanto, sbirciava Diana sul seggiolino di fianco al suo. La ragazza, a sua volta, osservava i numerosi indicatori del cruscotto. Ogni tanto gli rivolgeva qualche domanda sul funzionamento dei comandi e sul significato degli indicatori.
Il jet personale era la penultima follia di suo fratello (l’ultima era stata la villa di Arcore, che Roberto aveva acquistato l’anno precedente). Gianmarco, che aveva preso il brevetto da pilota già dal 1970, lo trovò ad ogni modo “un’esagerazione volante”. Un jet come quello, in Italia, lo possedevano soltanto pochissimi VIP, ed in ogni caso, anche come status symbol, era sì prestigioso, ma anche pericoloso. Esponeva chi lo possedesse a critiche, invidie ed ironie, da parte di una società che in quel periodo si atteggiava ad un giacobinismo di maniera e vedeva in quegli aggeggi una manifestazione di “scarsa sensibilità sociale e di cafoneria per ricchi privilegiati”. Non pensavano che a suo fratello ed a molti come lui, l’aereo potesse semplicemente servire.
Quante volte quell’aereo aveva trasportato cronisti del “Giornale” da una parte all’altra del globo. Nel Gennaio di quell’anno, il jet pilotato da Gianmarco era atterrato all’aeroporto di Teheran, dopo la rivoluzione Komeinista, ed in fretta e furia, aveva caricato due corrispondenti del “Giornale”, altrettanti del “Corriere della Sera” ed alcuni giornalisti americani che non avevano trovato posto sugli aerei messi a disposizione dal loro governo, per squagliarsela.
-Tutto bene? – chiese a Diana.
-Che hai detto? –
Sarà stata l’aria di casa, ma lui c’era cascato un’altra volta: si era rivolto a Diana in italiano e lei, naturalmente, non aveva capito nulla.
-Ti ho chiesto come va – ripeté, questa volta in inglese.
-well, very well! – rispose Diana, poi soggiunse - E se imparassi la tua lingua? –
Gianmarco si girò verso di lei e la guardò con tenerezza, poi esclamò:
-Lascia stare Diana, non sei riuscita ad imparare il francese, vuoi parlare l’italiano, molto più complicato e che, fuori d’Italia, non parla quasi nessuno –
Si girò di nuovo verso la ragazza: si era offesa, il suo viso era diventato rosso e gli occhi mandavano lampi. Un vecchio luogo comune vuole che le donne diventino più belle quando si arrabbiano. A Gianmarco facevano soltanto paura. Era terrorizzato all’idea che si fosse offesa per le sue grossolane allusioni agli studi poco brillanti; chi era lui per poterlo fare?
-Scusami – mormorò – Non volevo offenderti! Il fatto è che la mia lingua è un po’ troppo difficile, non solo per te, ma anche per tanti italiani con lauree e titoli onorifici, che, a differenza tua, sono nati e cresciuti in Italia –
Diana taceva, guardando fisso davanti a sé. Gli occhi continuavano a lampeggiare. Le aveva toccato un nervo scoperto. Non immaginava certo che di lì a qualche anno, per chi le fosse stato vicino, le arrabbiature di Lady Di non si sarebbero limitate solamente a qualche broncio più o meno duraturo, bensì avrebbero avuto effetti più devastanti. Per tutto il resto del viaggio, tra i due passeggeri calò un silenzio imbarazzato.
Il radiofaro di Linate incominciò a farsi sentire dopo qualche minuto. Gianmarco ne approfittò per trasmettere un messaggio via radio per Roberto, affinché mandasse un’auto per prelevarli, non appena fossero atterrati.
L’aereo toccò l’asfalto di Linate alle due del pomeriggio. Quando il portello dell’aereo si aprì, i due passeggeri furono investiti dall’afa estiva che in quella stagione gravava sempre sulla Lombardia.
-Mio Dio! – esclamò Diana – Ma siamo atterrati in Africa? –
Gianmarco sorrise, poi le mise una mano sulla spalla e sussurrò:
-Niente Africa, è Milano che ti dà il benvenuto –
Aveva caldo anche lui, all‘estate italiana si era disabituato.
Alla dogana dei viaggiatori in arrivo, mentre controllavano i loro piccoli bagagli, vide Marcello e Roberto che li aspettavano nell’atrio dell’aerostazione. Quale onore!
Dopo aver sbrigato tutte le formalità di rito, si aprirono le porte a vetri che separavano i viaggiatori in arrivo dalla sala aperta al pubblico. Gianmarco e Diana si fecero incontro a quel comitato di ricevimento.
-Ciao Roberto, ciao Marcello, allora, quali novità? Ma prima permettete che vi presenti… -
-Lady Diana Frances Spencer – lo anticipò Marcello, l’unico dell’entourage di suo fratello che conoscesse bene l’inglese – Lieto di conoscerla –
I due giovani rimasero interdetti, Gianmarco non aveva fatto in tempo a segnalare l’arrivo di un’ospite, ma non disse niente.
-Finalmente sei arrivato – Disse Roberto, avviandosi verso l’uscita.
Gianmarco notò che il fratello era terreo in volto ed imbarazzato dalla presenza della sua accompagnatrice. Decisamente la cosa non era da lui.
Marcello, nel frattempo, aveva raccolto la borsa da viaggio di Diana e si avviò insieme con lei verso l’uscita dell’aerostazione, conversando in inglese, come soltanto lui sapeva fare quand’era in vena loquace.
Gianmarco si mise alle loro calcagna, Roberto lo prese sottobraccio e lo fermò, tirandolo dolcemente per il gomito
-Aspetta! – Gli sussurrò.
-Insomma, si può sapere cosa avevi da dirmi di tanto urgente e di tanto segreto? – sbottò Gianmarco.
-Te lo dico subito, ma prima rispondimi sinceramente. Come fratelli non c’è mai stato un grande feeling tra noi. Forse per la differenza d’età, forse perché io, fin da giovane, ho dovuto occuparmi d’altro, ma… devi dirmi la verità –
Il giovane Demattei cominciava ad essere anche impaurito. Che aveva fatto di male?
-Ma quale verità? Santo Iddio! –
-Quella ragazza, Diana, da quanto la conosci, cos’hai combinato insieme con lei, insomma, te la sei fatta? –
-E’ lei la pietra dello scandalo? E’ per lei che mi hai fatto ritornare a Milano di gran carriera? – Poi, vedendo che suo fratello s’aspettava una risposta, aggiunse:
-La conosco da una decina di giorni, è una mia vicina di casa, suo padre è un conte e possiede una villa nel Northamptonshire, al confronto della quale la villa di Arcore è una baracca da bidonville. No, non me la sono fatta, è una brava ragazza e si guadagna da vivere…-
-So tutto di lei – disse Roberto – Non stupirti per le domande che ti ho rivolto, ma vedi, pur non essendo giornalista, ho anch’io i miei informatori, persino a Londra, tu piuttosto, cos’altro sai di lei? –
Il giornalista spalancò gli occhi:
-Ma che succede? Insomma, ti vuoi decidere a dirmi tutto, cosa vuoi che sappia di lei, come ti ho già detto, la conosco appena da dieci giorni, ma cos’ha fatto di male? –
-Lei non ha fatto assolutamente niente di male. Vedi Gianmarco, quella bella cavallona che ti sei portato appresso, tra qualche annetto potrebbe diventare la nuova regina d’Inghilterra, il Principe di Galles le ha messo gli occhi addosso e… -
Gianmarco sospirò di sollievo e rise:
-Ho capito, avete sbagliato persona, non si tratta di Diana, ma di sua sorella Sarah, me l’ha riferito lei stessa: è sua sorella Sarah che ronza intorno al Principe Carlo, non lei –
-No, non sto sbagliando persona – rispose mestamente Roberto – So anche di Sarah, cosa credi. Vedi… la posizione di Sarah è ormai, come dire, compromessa, bruciata. Con il Principe di Galles ha fatto un po’ la sostenuta ed il matrimonio è andato a monte. Fra qualche mese Carletto d’Inghilterra farà a Diana una proposta di matrimonio, le regalerà un bellissimo anello di fidanzamento e vivranno insieme felici e contenti – poi soggiunse: - Loro, felici e contenti, tu un po’ meno –
Quella sì che si poteva definire una bella tegola sulla sua testa.
-Ma… ma… a me Diana non ha detto niente – balbettò con un filo di voce – Nemmeno suo padre mi ha accennato qualcosa in proposito –
-Non ti hanno detto niente perché probabilmente niente sapevano. Caro Giamma, queste cose sono venuto a saperle attraverso Montanelli, al quale a sua volta, le hanno dette, in via confidenziale, certi suoi amici britannici molto vicini alla Corona d’Inghilterra. Evidentemente la ragazza è già da qualche tempo sotto discreta sorveglianza da parte dei servizi di sicurezza inglesi. Quando vi hanno visti assieme, hanno riferito la cosa a chi di dovere ed in pochissimo tempo la catena delle informazioni è arrivata fino a me –
Poi soggiunse:
-Ma adesso giura che non te la sei mai portata a letto! –
-Ti giuro di no! Come te lo debbo dire, non dico che non mi piacerebbe, probabilmente piacerebbe anche a lei. Nonostante le apparenze, è una ragazza un po’ all‘antica, piena di pregiudizi ed alquanto complessata –
-Appena in tempo – pensò il giornalista - se Roberto avesse aspettato a telefonarmi altre ventiquattr’ore… avremmo fatto una bella frittata! –
Poi all’improvviso domandò:
-Ma come fanno ad essere così sicuri che Diana accetterà la proposta di matrimonio… -
Non aveva ancora terminato la domanda, che già gli balenava in mente la risposta: a domande inutili, risposte inutili.
-Tu cosa faresti al suo posto? – gli domandò il fratello - Non dimenticare, è pur sempre un’aristocratica, anche se, da quel che vedo, molto alla mano. Il Principe di Galles è ancora un bell’uomo, inoltre è anche uno dei più bei partiti del mondo e tra qualche anno sarà re –
Gianmarco chinò il capo.
-Immagino che se insistessi a frequentarla, andrei… andremmo tutti incontro a guai molto seri – mormorò senza alzare lo sguardo dal pavimento.
-Ho paura di sì. Chi siamo noi in questo momento, per metterci a rivaleggiare contro la Corona d’Inghilterra, ma forse un giorno, chissà –
Proprio ora si metteva a sognare da megalomane.
-Un bel guaio! Non c’è che dire – esclamò
-Non per colpa tua, non potevi sapere niente e niente ti è stato detto fino ad ora. Poi, te la sei pure portata con te fino a Milano… quando l’ho vista comparire al cancello d’uscita in tua compagnia, m’è preso uno sturbo! – E si portò una mano al cuore, per rendere più significativa la sua frase.
-Ed ora che facciamo? – chiese Gianmarco con voce atona.
-Per quanto tempo avete intenzione di fermarvi? –
-Due, tre, quattro giorni al massimo, il tempo di dare quel benedetto esame, farle vedere Milano e tornare a Londra –
-Ma sì! – approvò Roberto - Conviene far finta di nulla e continuare come se niente fosse. Ma d’ora in avanti…mi raccomando, le mani a posto! – Poi soggiunse – Suvvia! Ci sono anche le italiane – gli strizzò l’occhio, dandogli nel contempo uno schiaffetto.
Gianmarco non disse niente. Prese la sua valigia e seguì il fratello verso l’uscita dell’aeroporto. Passo dopo passo, sentiva crescere l’ira dentro di sé, stava per esplodere, non aveva mai provato una sensazione del genere.
Si sentiva avvampare, i visceri contorcersi, l’adrenalina gli stava andando al cervello. Voleva urlare, voleva piangere, voleva ribellarsi, voleva rompere tutto. Aveva bisogno di prendere a pugni qualcuno, anche Roberto. Sì, Roberto meritava una bella scarica di botte.
-Ma come “Chi siamo noi”? – pensò – Noi siamo noi, Diana è Diana, non siamo più nel Medio Evo. Diana è mia, chi è quel tonno del Principe di Galles che le ha messo gli occhi addosso. Vada a cercarsi qualcun’altra, stia alla larga da Diana! Stia alla larga da me! –
-Allora! Ci decidiamo a partire? –
La voce di Marcello lo riscosse dai suoi pensieri.
-Giamma! Hai una brutta cera, che ti succede, non sei più abituato al caldo di Milano eh? –
Gianmarco annuì, la rabbia gli stava sbollendo, salì sull’auto di Marcello. L’uomo si mise al volante, il giornalista al suo fianco, Diana si accomodò sul sedile posteriore. Roberto invece era montato sulla Mercedes che stava davanti alla loro auto. Prima di richiudere la portiera, gridò al fratello:
-Ci vediamo tutti questa sera ad Arcore, per adesso divertitevi! –
Il giornalista si voltò verso Diana.
-Ti è piaciuto mio fratello? –
-Non so, ha parlato soltanto con te, praticamente mi ha soltanto salutata –
-Non devi farci caso, è sempre molto occupato, è già tanto che sia venuto di persona ad accoglierci, ma stasera lo conoscerai meglio –
-Mi spiace interrompervi – si intromise Marcello – ma vorrei sapere dove volete che vi porti –
Gianmarco, che aveva quasi del tutto recuperato la lucidità, ordinò:
-Piazza del Duomo, poi alla Scala quindi… Santa Maria delle Grazie –
-Originale! – commentò Marcello e partì.

Quella sera a cena c’erano proprio tutti: i suoi genitori, i fratelli Roberto e Paolo, la moglie di Roberto, i due figli di Roberto, poi Marcello Geraci, Fedele Landolfi e, già che passava di lì, pure Montanelli.
-Andiamo bene! – pensò Gianmarco – Dal segreto di stato al segreto di Pulcinella, e tutto questo perché quella vecchia sultana di Roberto non riesce mai a tenere un segreto –
Naturalmente, l’attenzione di tutti era incentrata su Diana. La ragazza era visibilmente a disagio, un po’ perché non era ancora abituata ad essere al centro della curiosità, molto, per la barriera linguistica, inoltre non conosceva nessuno all’infuori di Gianmarco. Forse, trovava i suoi ospiti anche un po’ noiosi.
Roberto era orgogliosissimo della villa settecentesca di Arcore appena acquistata. Villa Giulini-Casati, così si chiamava, era davvero un magnifico “pezzo d’antiquariato”, sebbene quasi scomparisse a confronto con quella degli avi di Diana. Aveva dato ordine al cuoco di preparare una cena tipicamente lombarda: risotto alla milanese, bollito misto con mostarda, sogliole ai ferri e, per finire in bellezza, mousse alla fragola.
Diana faceva onore alle vivande. Gianmarco aveva notato che ultimamente era un tantino ingrassata, forse era colpa del corso di cucina che stava frequentando.
Gianmarco invece, per una volta, non aveva un grande appetito. Pensava a Diana, pensava all’esame all’università, pensava al suo lavoro a Londra, pensava al Principe di Galles ed infine, pensava a sé stesso. Tanto per cambiare, si autocommiserava.
Roberto, come suo solito, teneva banco nella conversazione. Si era seduto all’ultimo posto a lato del tavolo, vicino a Diana, che come ospite d’onore era a capotavola. Montanelli, da vecchio e misurato buongustaio quale era, in fatto di cucina e in fatto di donne, guardava ora il piatto che gli stava davanti e che mostrava di gradire, ora l’ospite a capotavola, la quale gli stava evidentemente sul piloro.
Gianmarco, prudentemente relegato dal padrone di casa in fondo alla tavolata, ogni tanto lanciava occhiatine di sottecchi alla sua Lady. Quest’ultima gliele ricambiava tra un boccone e l’altro, mentre Roberto continuava a bombardarla di domande in francese. La ragazza, quando riusciva ad afferrare il significato di qualche parola, gli rispondeva in inglese. Il risultato finale fu quello della vecchia barzelletta del dialogo tra sordi:
-Ciao, sei andato a pescare ieri? –
-No, ieri sono andato a pescare –
-Ah! Credevo tu fossi andato a pescare –
La tortura per Diana e per Gianmarco, finì alla mousse di fragola, quando, dopo l’ennesimo “qui pro quo”, Marcello propose a Diana, finalmente nella lingua di Shakespeare, di fare un salto a vedere il Castello Sforzesco di notte. Gianmarco si alzò da tavola e fece l’atto di seguire il gruppo.
-Vado a tirar fuori la macchina dalla rimessa e… -
-No, tu vai a dare gli ultimi ritocchi alla preparazione dell’esame di dopodomani – lo bloccò Roberto.
-Come? Ma io debbo… -
Il fratello incominciò a guardarlo in tralice.
-Orsù, dai a Diana il bacetto della buona notte, mentre noi pensiamo a farla divertire – lo esortò il padrone di casa con il classico sorrisone d’intesa.
Gianmarco era quasi alle convulsioni, poi calmatosi, cercando di essere il più carino possibile, spiegò alla ragazza che lui non avrebbe potuto accompagnarla perché si doveva mettere a studiare. Dopo averla portata in aereo da Londra a Milano!
Diana non dovette avere più dubbi: era capitata dentro una gabbia di matti. Ma, da come lo guardava, stava forse pensando che il più scemo di tutta la combriccola fosse proprio Gianmarco.
Il giornalista si alzò sulla punta dei piedi e le stampò un castissimo bacio sulla guancia. Lei, guardandolo con freddezza, nemmeno si chinò per riceverlo.
-Fuck you! – gli sibilò all’orecchio, poi si girò di scatto e seguì Marcello e Roberto, che nel frattempo stavano gia uscendo dal salone.
Lui rimase là in mezzo, fisso come un palo, mentre la guardava uscire a capo chino, diretta allo scalone d’onore.
Si riscosse, andò lentamente ad una delle finestre della sala da pranzo e guardò giù, verso il giardino. La Mercedes di Roberto, guidata dall’autista, si stava dirigendo a passo d’uomo verso l’ingresso della villa. Roberto, Marcello e Diana sbucarono dal portone e, tutti e tre sorridenti salirono sull’auto. Diana sul sedile posteriore insieme a Roberto, mentre Marcello andò a sedersi di fianco all’autista. Lentamente, come era arrivata, l’automobile si avviò lungo il vialetto che conduceva al cancello.
Gianmarco restò ancora per un momento ad osservarne i fanalini posteriori, mentre si allontanavano nel buio oltre l’inferriata, poi, si voltò verso la tavola, s’era dimenticato degli altri.
La cognata ed i bambini se l’erano già filata, così pure Paolo ed i genitori.
Fedele Landolfi e Montanelli, ancora seduti in tavola, lo stavano guardando. Gianmarco raggiunse il suo posto e sprofondò sulla sedia, quindi si mise a fissare la tovaglia.
-E mò che vuoi tu fare? – Gli domandò Montanelli.
Lui fece le spallucce, ma non rispose.
-Dammi retta Gianmarco, domani le spieghi tutto – fece Montanelli – Domani, mentre mano nella mano passeggerete in giardino, le dirai che c’è stato un equivoco, che non potete più…ehm… frequentarvi, che ci sono in ballo cose più grandi di voi e di noi tutti messi assieme, che tra qualche mese capirà…insomma! – sbottò il vecchiardo –Mandala a quel paese, al suo paese, con i dovuti modi naturalmente –
Ci fu qualche minuto di silenzio, poi, con voce fioca, Fedele Landolfi si permise d’intervenire.
-Però, la soddisfazione di cornificare il Principe di Galles io me la sarei levata – ed incominciò a ridacchiare.
Gianmarco li guardò tutti e due.
Montanelli si pulì le labbra con il tovagliolo, poi riattaccò:
-Io comunque, che con le Principesse ci ho una certa dimestichezza ti dico una cosa sola: a sposare Carletto d’Inghilterra un’ ci vol nulla – poi proseguì – Ma se quella diventa regina…beh…ti dico che se quella la diventa regina, allora io domani mi sposo Raquel Welch! –
Gianmarco li guardò di nuovo, si alzò, e dirigendosi verso l’uscita della sala esclamò:
-Ma andate tutti a farvi fottere! –


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Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 1:34 pm

Capitolo VI


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil16


UN'ALTRA RIMPATRIATA



Quello che s’annunciava per il 1981 era un Natale malinconico, anche per Gianmarco. Lui osservava le luci dei lampioni nella strada sottostante. Lungo i marciapiedi, passanti frettolosi sbirciavano le vetrine dei negozi e filavano via senza entrare. Per i commercianti londinesi era un altro un Natale di austerity, così pure per tutti i sudditi di Sua Maestà Britannica.
Gianmarco, dopotutto, non aveva di che lamentarsi: ai primi di ottobre si era finalmente laureato per la terza volta in Scienze Politiche. Ormai la cosa non gli interessava più di tanto. Voleva semplicemente terminare quello che aveva incominciato sei anni prima.
Dacché aveva rotto con Diana s’era stancamente trascinato con gli studi a suon di diciotto o venti per ogni esame.
Per Il Giornale aveva mandato puntualmente le sue corrispondenze in Italia ed era riuscito ad entrare nel giro giusto della stampa britannica, almeno così pensava. Era arrivato in Inghilterra convinto di trovarvi la patria del giornalismo e della libertà d’informazione, invece aveva scoperto di essere capitato in mezzo a un’accozzaglia di saltimbanchi degli “scoop”. Scoop che si risolvevano di solito nello scovare l’ultima fiamma del Principe Andrea oppure l’ultima gaffe di Filippo di Edimburgo.
Una sottile pena fece accelerare per un momento i battiti del suo cuore. L’ultima fiamma del Principe di Galles invece, era stata Diana. Avevano visto giusto gli informatori di suo fratello: proprio in quell’anno, Diana era andata in sposa a Charles Philip Arthur George Windsor, erede al trono del Regno Unito. Da quella cena ad Arcore di due anni prima, nella quale l’aveva mandato a quel paese, lei non l’aveva più filato. Erano ritornati entrambi a Londra con due voli di linea separati. Per prima era partita la ragazza, poi Gianmarco, dopo aver dato quel benedetto esame; successivamente, lei aveva tagliato i ponti col giornalista italiano.
I giorni che seguirono il suo ritorno in Inghilterra furono un inferno. Diana e le allegre comari sue inquiline, si divertivano a far baccano sopra il suo appartamento e proseguivano fino a notte inoltrata. Conoscendo ormai le sue pollastre, Gianmarco le lasciava fare, anche perché sapeva che più protestava, più quelle là di sopra avrebbero alzato il volume. Tutte le volte che aveva incrociato la giovane Lady sulle scale del condominio, lei aveva girato la testa altrove. Una mattina, avendo parcheggiato la sua Mini sotto casa e non nel box, trovò il cofano imbrattato da un miscuglio di farina e uova. Un pizzico di sale, un po’ d’acqua calda ed avrebbe potuto impastare delle ottime fettuccine direttamente là sopra.
A differenza di Diana, Gianmarco sapeva che di lì a poco la pulzella sarebbe stata chiesta in sposa dal futuro Re d’Inghilterra. Avrebbe quindi avuto cose più importanti da sbrigare. Altro che rompere le scatole a lui!
Già! Il “matrimonio del secolo”, come l’avevano chiamato i media.
Con una perfidia che rasentava il sadismo, Montanelli l’aveva obbligato a stenderne il resoconto. Nonostante le sue rimostranze, per sei mesi, dal dicembre 1980 al giugno 1981, dovette a correr dietro a Diana, intruppato in un plotone di fotografi che, come consistenza, ricordava quello che aveva tallonato Jaqueline Kennedy nel periodo del suo splendore.
Rispetto agli altri colleghi era ovviamente avvantaggiato. La loro preda più ambita abitava proprio sopra la sua testa, ma una telefonata anonima l’aveva avvertito: la futura principessa del Galles usciva da casa con la borsetta piena di grossi bulloni. Se le fosse capitato d’incrociarlo sulle scale, magari con la macchina fotografica per le mani, quella borsetta gliel’avrebbe fiondata sulla testa.
Gianmarco, era sempre stato un tipo buono e caro, ma non si poteva definirlo propriamente una mammoletta. Le occhiatine ironiche, i sorrisetti di compatimento che Diana gli elargiva ogniqualvolta se lo trovava davanti (e a quei tempi, se lo trovava davanti molto spesso), il baccano sopra il suo appartamento, meritavano una vendetta, una tremenda vendetta, bastava soltanto attenderne l’opportunità.
La prima fu nel febbraio 1981: in occasione della festa per il fidanzamento ufficiale dei principi, presenti le teste coronate di mezzo mondo. Diana s’era trasferita provvisoriamente a Clarence House, quindi Gianmarco dovette aspettarla sotto il portone di quel palazzo. Quando lei uscì per recarsi al ricevimento, indossava un abito lungo di taffetà di seta nera, molto scollato, nudo sulla schiena e senza spalline. Il giornalista comprese che stava presentandosi l’opportunità che aspettava.
Mentre Diana saliva sulla Rolls-Royce reale, si rivolse ai colleghi:
-Ragazzi, un’idea! Come lei è salita su quella macchina, dovrà pure scenderne e quando scenderà, tremerà la terra e piangeranno gli angeli –
I colleghi, data un’occhiata al vestito di Diana, capirono al volo, quindi, si precipitarono tutti alle rispettive automobili. A rotta di collo raggiunsero il luogo del ricevimento. Quando l’automobile reale, che nel frattempo aveva imbarcato anche il Principe Carlo, si fermò davanti all’entrata del salone dei festeggiamenti, tutti i fotografi (compreso Gianmarco) s’erano già schierati sul marciapiede. Per primo ne discese il principe, quindi toccò a Diana. Impacciata dall’abito lungo, la futura principessa dovette quasi piegarsi in due per uscire dall’auto, mossa quest’ultima che mise in bella mostra il contenuto della sua già generosa scollatura: proprio come aveva previsto Gianmarco. Il “plotone d’esecuzione” dei fotografi, in quell’istante, lasciò partire una sventagliata di flash, immortalando Diana in quella posa, che qualcuno definì: “semi-porno”.
La pubblicazione sui giornali di quelle immagini, si dice provocasse il precoce incanutimento della Regina Elisabetta, uno dei suoi segretari dovette farsi applicare un bypass coronarico, le tirature dei settimanali rosa arrivarono a cifre mai viste. Per festeggiare l’evento, che fu battezzato “Il festival della mucca”, i fotografi organizzarono un party.
Gianmarco non era però del tutto soddisfatto. Voleva che Diana sapesse che la vendetta era proprio la sua. L’occasione per la rappresaglia numero due, ancora più sanguinosa del “festival della mucca”, fu quindi rimandata di qualche mese.
Nella primavera di quell’anno, un gruppo di fotoreporter suonò alla porta dell’asilo-nido di Pimlico, dove Diana lavorava ancora come assistente-bambinaia.
Quegli scocciatori, volevano ritrarla intenta a spupazzare i bambini. Era una delle ultime occasioni: per la fine del mese, Diana avrebbe lasciato definitivamente quel lavoro. Ragion per cui, l’aiuto-bambinaia più famosa al mondo, non si fece pregare troppo a farsi ritrarre con in braccio un paio di pupi biondi. Dopo qualche insistenza, uscì nel giardinetto antistante l’asilo e si mise in posa.
-Un po’ più a sinistra, Milady! –
Diana, accompagnata dai bambini, si spostò dove le era stato indicato.
-Ancora un po’ a sinistra, si metta controluce, così le foto verranno meglio…Ecco!…Così, perfetto! –
Diana riconobbe la voce del fotoreporter che le aveva rivolto la parola e si girò verso di lui: era infatti Gianmarco. Frenando un scatto d’ira (non aveva con sé la borsetta piena di bulloni), prese in braccio uno dei bimbi, l’altro lo tenne per mano. In quella tenera posa, fu così fotografata la futura regina d’Inghilterra.
La lady non s’accorse subito che quel malizioso reporter, suo ex amico, aveva fatto in modo che fosse ritratta in controluce, perché nella foto, attraverso la gonna leggera che indossava, sarebbe apparso chiaramente il profilo delle sue lunghissime gambe.
Dello scherzetto giocatogli da Gianmarco (questa volta non c’erano più dubbi), si rese conto il giorno dopo, quando tutti i giornali pubblicarono le immagini della “Madonna dei collant”. Il Principe Carlo, quella mattina le telefonò seccato:
-Che avessi belle gambe io lo sapevo già, ora lo sa anche tutto il mondo –
Alla sera, Gianmarco ricevette un biglietto proveniente da Clarence House. Nessuno, tanto meno lui, avrebbe potuto immaginare che un figurino come Diana potesse comporre una simile sequela di oscenità e che avesse pure il coraggio di metterle per iscritto!

Li rimpiangeva quei dispetti. Oh come li rimpiangeva!
Dopo il matrimonio della figlia, il Conte Spencer aveva affittato l’appartamento ad un’altra famiglia e le amichette della principessa dovettero sgomberare il campo ad altri inquilini più silenziosi. Quel condominio a Coleherne Court era ripiombato nel silenzio e nella noia. Diana non lo aveva neppure invitato al suo matrimonio; perché avrebbe dovuto farlo, dopo tutti i dispettucci che s’erano scambiati?
Un ronzio di cicalino lo avvertì di una telefonata. Fino a prova contraria era ancora un giornalista ed un telefono che rompesse, nel suo mestiere, non gli sarebbe mai mancato.
-Pronto! –
-Indovina chi ti sta scocciando! – era di nuovo il caposervizio esteri - Ho qui un altro lavoretto per te –
-Ma lei non dorme mai? –
-Tu stai forse russando? –
-Lo sa che sono teso come una corda di violino, perciò faccio fatica a addormentarmi, ma lei… -
-Senti, bando alle chiacchiere sull’insonnia, veniamo agli affari. Come forse hai già saputo per mezzo del telex, proprio questa mattina a Verona le Brigate Rosse hanno rapito un generale americano. Sai, quel Dozier… -
-Sì, ho letto, il generale James Lee Dozier, ma io che c’entro, non faccio più parte delle BR da un pezzo – scherzò Gianmarco.
-No, no – esclamò il capo-servizio ridendo – Ma dovresti rientrare in Italia per seguire le indagini da vicino, con le tue aderenze nelle università… ci siamo capiti, vero? –
Il tono di voce s’era fatto allusivo.
-Sta a vedere che tra un po’ mi chiederà di confessare – pensò - Ma io… - fece appena in tempo a balbettare.
-Guarda che abbiamo già spedito con il FALCON Beppe Severgnini, viene di nuovo a sostituirti. Prepara le valige e vieni qua a Milano in redazione, ti stiamo aspettando a braccia aperte – poi aggiunse a mo' d’incoraggiamento -Questa volta ho l’impressione che non finirà come nel caso Moro, stavolta a far la figura dei cioccolatai saranno le BR e forse ci scappa pure un bello scoop eh? –
-Si, e magari lei s’aspetta pure che Dozier lo liberi io, facendo “pum pum” con la bocca, ma cosa volete che faccia? –
-Devi semplicemente riprendere i contatti con quelli che ti avevano passato informazioni durante la prigionia di Aldo Moro. Se la polizia ci avesse dato retta allora, forse Moro non lo avrebbero nemmeno rapito –
-Dubito che quelle persone siano tuttora in circolazione, o siano ancora vive, sono passati quasi quattro anni –
-Non fare storie! – disse perentorio il suo superiore – Ti aspetto domani in redazione. Arrivederci! –
Il turpiloquio non era certamente tra le specialità di Gianmarco, ma dopo quella telefonata, recuperò trentuno anni di mancate scurrilità. Tutte le bestemmie e gli improperi che non aveva pronunciato fino ad allora, le vomitò con voluttà e ad alta voce, poi, stabilito che anche se s’arrabbiava da solo non sarebbe cambiato niente, prese a rimuginare sprofondato sulla poltrona del salotto.
Per quanto ne sapeva, le BR erano conciate piuttosto male, in questo caso però, avevano dato prova di una certa vitalità. Ma una vecchia talpa degli atenei come Gianmarco, sempre a contatto per via indiretta con l’eversione, non si faceva trarre in inganno. Le BR avevano rapito Dozier perché, per loro, era un obiettivo “facile”.
Stando alle informazioni ricevute per telex, si erano fatti passare per portalettere, affinché quel fesso di Dozier aprisse loro la porta di casa. I rapitori, prima di portarselo via, avevano ammanettato la moglie ad un termosifone.
Non c’era da dir niente: tutto liscio come l’olio, troppo liscio.
Probabilmente, convenne Gianmarco, questo Dozier non doveva essere quel personaggio così importante nella scala gerarchica dei comandi NATO, come invece i dispacci d’agenzia volevano far credere. Infatti, se tale fosse stato, i suoi superiori avrebbero alloggiato lui e la famiglia all’interno della base NATO di Verona e non in un condominio in centro città. Forse Dozier voleva passare inosservato e comportarsi come uno dei tanti manager di una ditta americana che avesse una filiale in Italia. Possibile che nessuno s’immaginasse che qualche terrorista avrebbe fatto un pensierino anche su di lui? Ciò che lo rendeva perplesso, era il fatto che al generale non avessero ordinato di prendere delle precauzioni. Se fosse incorso in un attentato, com’era poi successo, ciò avrebbe rappresentato un’altra pericolosa vittoria per il terrorismo e nessuno era più disposto a fare simili regali ai movimenti eversivi, specialmente dopo l’elezione di Reagan alla Casa Bianca. A quanto si diceva, il vecchio-nuovo presidente americano, tra una preghiera e l’altra, stava dando in escandescenze per questo rapimento.
Più ci pensava più la cosa gli sembrava strana, o quantomeno, meritevole di un’analisi critica. Sì, forse il capo-servizio di Milano aveva ragione, c’erano concrete possibilità di cavarne fuori uno scoop di risonanza internazionale, altro che i filarini della Royal Family, sui quali campava da trent’anni un esercito di pseudogiornalisti dalla fantasia inaridita.
Lui era proprio la persona che ci voleva in quel momento. Forse quella era l’occasione che aspettava da quasi tre anni. Non poteva però fare tutto da solo, doveva portarsi appresso un giornalista inglese, non importava se famoso; anzi, meglio se non lo fosse stato. Doveva essere qualcuno che, come lui, voleva arrivare, qualcuno che dovesse ancora farsi un nome. Aveva bisogno di un appoggio nella stampa britannica.
-Credo di avere la persona giusta! – esclamò scattando in piedi dalla poltrona.
Prese la sua rubrica telefonica, la scorse sulla lettera “M”, finché non trovò il nominativo che cercava. Andò al telefono e compose il numero trovato. Dovette attendere diversi squilli prima che il destinatario, all’altro capo del filo, si decidesse ad alzare la cornetta.
-Hallo! – rispose una voce assonnata.
-Andrew? Parlo con Andrew Morton? –
-Si, chi sta chiamando a quest’ora? – rispose la voce.
-Sono Gianmarco Demattei del “Giornale” di Milano, ti ricordi di me? –
L’uomo ci pensò per qualche secondo, poi rammentò:
-Se ben ricordo, sei quel pazzo di un corrispondente italiano responsabile del “Festival della mucca” e della “Madonna dei collant”, per il quale ho scritto… o meglio, che mi ha copiato fino all’ultima riga, la serie di articoli scritti in occasione delle nozze del Principe di Galles –
-Exactly! – confermò allegramente – Con una precisazione: gli articoli non te li ho copiati fino all’ultima riga –
-Ah no? –
-No, per poterli pubblicare su di un giornale italiano, li ho dovuti tradurre nella mia lingua perbacco! – poi aggiunse – Ad ogni buon conto, dovresti ricordare che ti avevo promesso di sdebitarmi molto presto –
-Intendi farlo proprio in questo momento, sai che ore sono Mr. Demattei? –
Adesso toccava al giornalista italiano guardare il suo orologio. Erano l’una e trenta del mattino.
-Se avessero telefonato dalla tua redazione per spedirti in Sudafrica, cosa avresti detto? – chiese Gianmarco.
-Gli avrei detto di chiamare domattina ad un’ora un po' più decente –
-Le notizie non hanno orario quando dobbiamo correr loro appresso. Quindi, prepara le valige perché tra qualche ora si parte per l’Italia, alla ricerca del generale James Lee Dozier, rapito dalle Brigate Rosse. Seguiremo le indagini della polizia, ma questa volta a fare sfracelli saremo noi, lo sento!–
-Capirai! Le Brigate Rosse stanno proprio ad aspettare noi due – commentò sarcasticamente Morton.
-Dammi retta Andrew, non intendo mettermi in concorrenza con la polizia, non voglio fare indagini parallele; mi metterò alle calcagna di quelli che faranno le indagini, si può dire che li conosco tutti, perché dove saranno loro, ci saremo anche noi, di questo puoi starne certo. Ho pure una mezza idea per… ma ne parleremo dopo –
-Ma come farai ad intuire quale direzione prenderanno le indagini? –
-Proprio un giornalista di belle speranze come te mi rivolge di queste domande –
-Senti Gianmarco, sarò ancora giovane e inesperto, ma non sono abbastanza stupido da andare a cacciarmi nei guai gratis. Ora, per favore, lasciami dormire. Il piacere che ti ho fatto quest’estate me lo renderai un’altra volta –
Poi, senza dargli modo di rispondere si congedò con un
-Good Night! –

Alcune ore dopo, Gianmarco ed Andrew stavano conversando piacevolmente nella carlinga del FALCON 10 diretto verso l’aeroporto di Linate.
-Ma figurati se queste cose te le potevo dire per telefono, con quello che c’è in ballo; anzi, sono convinto che per telefono questa sera ci siamo detti anche troppo –
-Sei sicuro di quel che stai facendo? – domandò l’inglese – Ti avverto che sono quasi dovuto fuggire dal mio appartamento e senza neppure avvertire il direttore del mio giornale. Ho proprio paura che quando sarò ritornato al “Sunday Times”, sarò licenziato in tronco –
-Invece, quando sarai ritornato, credo proprio ti dovranno aumentare lo stipendio, sempre che non vogliano vederti emigrare verso qualche concorrente. Altrimenti non avresti accettato il mio invito –
Andrew Morton si appoggiò allo schienale della poltroncina, rovesciò la testa all’indietro, chiuse gli occhi e cominciò a pensare. S'intuiva chiaramente che voleva porgergli delle domande, e quelle, avrebbero messo in imbarazzo entrambi, ma Gianmarco lo prevenne:
-Now, Andrew, out with it – (ora sputa il rospo)
Morton riaprì gli occhi, si accomodò meglio sulla poltrona e cominciò ad esporre:
-Negli ambienti di Fleet Street… circolano voci strane sul tuo conto e ancor più sul conto di Roberto, tuo fratello… mi capisci vero? –
-Che dicono di preciso, sul nostro conto, gli ambienti di Fleet Street ? –
-Che tuo fratello ricicla il denaro del commercio di droga, che assieme ad alcuni elementi della massoneria italiana stesse preparando un colpo di stato in Italia, che tu sei stato mandato come corrispondente in Inghilterra in realtà per aiutarlo a concludere affari poco puliti nella “City”, d’accordo con l’attuale Governo. Che tu hai avuto una relazione con la Principessa di Galles, prima che sposasse il Principe Carlo e che ve la intendiate tutt’ora in segreto. Infine, che tu sia una specie d’agente segreto al soldo degli americani per non so quali scopi destabilizzanti. Questo è quel che si dice di voi dalle nostre parti, mentre, dalle vostre parti, una volta si diceva “Vox populi…” –
-Tutto qui? – scherzò Gianmarco – Credevo piovesse, non che grandinasse! –
-Non prendertela con me, io ti ho solo riferito delle voci di corridoio. Ora però, mi devi convincere che è tutto falso: crederò a qualsiasi cosa tu mi dica, ma voglio la verità –
La tegola era di quelle grosse, certo. Suo fratello era stato “pescato” pochi mesi prima nelle liste della P2, aveva varato da poco più di un anno la rete televisiva commerciale alla cui preparazione e messa a punto lavorava da anni, stava diventando un referente politico e finanziario per tutti coloro che avevano una qualche ragione per contestare l’attuale sistema vigente in Italia da troppo tempo e che, ai più, sembrava artificiosamente bloccato. Ma tutto questo ed altro ancora non si poteva certamente considerarlo un reato.
-Senti Andrew – Esordì Gianmarco – Queste voci sono giunte anche al mio orecchio. Ti potrei assicurare che è tutto falso ed inventato. Purtroppo, a complicare le cose, c’è una parte di verità che rende queste voci, se non credibili, perlomeno attendibili –
Stette bene attento a scegliere i vocaboli ed a trasporli in inglese: potevano assumere significati diversi rispetto all’italiano (redible e reliable). Guardò verso Morton, lo vide fare un cenno d'assenso con il capo, poi proseguì.
-Ci sono, come ti dicevo, fatti veri e…conclusioni false, come in tutti i piani diabolici, come in tutte le “verità” preconfezionate a danno di persone che possano dare fastidio ad altri –
-Sì ma…perché proprio con voi? –
-Il fatto è che neppure io sono in grado di conoscere tutti gli sviluppi della vicenda. Potrò spiegarti tutto se avrai un po’ di pazienza e non avrai preconcetti, come invece li hanno molte persone in Italia alle quali mio fratello pesta i piedi (quelle stesse persone che hanno messo in giro queste voci). Almeno nel modo in cui io vedo le cose ed in conformità a quello che certamente so – poi concluse – e so molte cose, vuoi ascoltarle? –
-Sono qui per questo. Che cosa credevi? Che sia venuto con te fino a Milano per dare la caccia ai rapitori di Dozier, sempre che riusciranno a rintracciarli? – domandò beffardo il giornalista inglese.
-Poiché t’interessano tanto le vicende di un’oscura famiglia d'imprenditori milanesi…cominciamo da principio: sai com’è strutturato il capitalismo italiano? –
-No! Non m’intendo assolutamente di finanza – rispose il collega.
-Te lo dico io. Vi sono alcune famiglie che cent’anni fa sono diventate ricche e potenti grazie all’abilità dei loro capostipiti. Oggi, i loro discendenti pretendono di conservare potere e ricchezze solo per il nome che portano e non grazie alle loro attuali capacità imprenditoriali. Tu mi assicurerai che il mercato alla fine deciderà tutto, che il mercato premierà chi merita e punirà chi vive di rendita sul passato. In linea di principio dovrebbe essere così, ma da noi questa selezione naturale è molto più difficoltosa perché… -
-Perché? –
-…Da noi ci sono alcune istituzioni che vivono in simbiosi con il sistema e che frenano questo processo –
-Quali istituzioni? –
-I partiti politici e le banche con alcuni alleati, i quali, che se ne rendano conto o meno, li aiutano concretamente affinché il sistema rimanga bloccato così com’è –
-Nulla di nuovo sotto il sole – commentò Morton – Anche da noi… -
Gianmarco lo bloccò con un cenno della mano.
-Ho appena incominciato. Guarda che da noi le cose sono molto più complicate: manca una coscienza civica, manca un’informazione che sia veramente tale, manca una cultura economico-politica di respiro internazionale e soprattutto, manca una nuova classe d’imprenditori che possa occupare il posto di quelli che vivono di rendite parassitarie e di glorie passate. Senza di ciò, sarà molto difficile che il mio Paese possa veramente entrare nel ventesimo e magari nel ventunesimo secolo –
Gianmarco si fermò per cercare di capire se il suo collega lo stesse seguendo nel suo complesso discorso, poi proseguì.
-Ecco perché, chiunque si dia da fare per crescere ed innovare, nel nostro Paese sarà sempre costretto a pestare i piedi a qualcun altro che da qualche generazione ha già occupato tutti i posti migliori… per il fatto di essere nato dalla mamma giusta. Se poi lo fa troppo velocemente, come mio fratello Roberto, puoi stare certo che lo accuseranno di barare al gioco. E puoi stare ugualmente certo che le “vecchie pantegane”, per impedirgli di crescere ulteriormente non lesineranno né le calunnie né altre porcherie per fermarlo –
Gianmarco fece un’altra pausa per riprendere fiato.
-Per arrivare ai fatti accertati, per quanto ne so, posso precisarti che mio fratello, quindici anni fa, agli inizi della carriera di costruttore edile, chiese ed ottenne i finanziamenti per le sue iniziative ad alcune banche cattoliche. E dire che allora non aveva altra garanzia da offrire se non la sua bella faccia simpatica. Perché abbiano aiutato lui, mentre tanti altri sono rimasti a becco asciutto, non te lo so dire. Forse bussò alle porte giuste, forse incontrò le persone giuste, o forse…qualcuno ha guardato giù: siamo tutti cattolici in Italia, almeno a parole. Sta che lui ha avuto successo, altri no. Per quel che riguarda la droga: qualche anno fa, nel 1974 per la precisione, Roberto fu avvertito dalla polizia, in modo informale, che la mafia calabrese stava progettando il rapimento di uno dei suoi figli. Il suo braccio destro, Marcello Geraci, s'incaricò di cercare una guardia del corpo per i ragazzini. Dopo qualche giorno si presentò alla villa di Roberto un aspirante stalliere, siciliano come Marcello, una persona che quest’ultimo aveva reclutato a Palermo con lo scopo di accompagnare a scuola i suoi figli e, naturalmente, di badare ai cavalli della sua scuderia. Per quanto ne so io, non successe mai nulla ai ragazzi. Dopo qualche mese lo stalliere si licenziò e Roberto non ebbe più bisogno di guardie del corpo, né per i suoi figli, né per nessun altro membro della famiglia, soltanto che… -
-Soltanto che? – lo sollecitò Morton.
-L’anno scorso questo signore è stato arrestato a Londra con una partita d’eroina nascosta nella ventiquattr’ore. La polizia inglese ha scoperto poi, dietro segnalazione di quella italiana, che l’uomo era affiliato ad un cosca mafiosa ed era diventato nel frattempo un importante corriere della droga. Ora si trova rinchiuso in una prigione in Inghilterra –
Poi, senza che il suo collega gli chiedesse alcunché, Gianmarco proseguì:
-Quest’anno poi, in Italia è scoppiata la grana della P2, la loggia massonica segreta che, stando a ciò che dicono tutti quelli che non ne fanno parte, stava preparando un colpo di stato in accordo col Governo Italiano. Non so se ti rendi conto dell’assurdità? –
-E tuo fratello era tra gli iscritti vero? –
Gianmarco fece un cenno d’assenso con il capo.
-Questo è ciò che sono riuscito a capire stando a Londra: in primo luogo, la P2 non è mai stata una loggia segreta (tant’è vero che la sua esistenza è sempre stata nota a Roma da più di cent’anni). In secondo luogo, il capo della P2, negli ultimi tempi s’è dato da fare per cercare di mettere d’accordo l'elemento cattolico, quello socialista e quello liberale della classe politica e della classe dirigente italiana, al fine di poter modificare la nostra Costituzione in modo tale da poter costituire governi un po’ meno friabili. Questo, in Italia è chiamato complotto. Purtroppo, sempre secondo quel che ho capito, è intervenuta a tal proposito la massoneria inglese, la Grande Loggia Madre d’Inghilterra, la quale, ha denunciato alla nostra magistratura quello che stavano progettando il loro “confratelli” italiani. In una notte il capo della P2 si è trovato incriminato di cospirazione e tutti i suoi affiliati sono stati sputtanati davanti all’opinione pubblica –
Morton spalancò gli occhi ed esclamò:
-La Loggia d’Inghilterra? La massoneria inglese? Ma cosa c’entrano? –
-Queste voci tu non le hai raccolte vero? – Chiese con tono ironico – Si capisce perché. Eppure il nuovo Gran Maestro della massoneria inglese, sta facendo oggi in Inghilterra quel che ha fatto Licio Gelli in Italia, e nessuno lo arresta. All’atto del suo insediamento lo scorso anno, ha parlato chiaro; ha detto, se ben ricordo, che “Occorre operare affinché la Gran Bretagna ritorni a contare nel Mondo e torni anche ad occupare il posto che le spetta nel contesto delle grandi nazioni…” eccetera eccetera, e che a tale scopo, la massoneria inglese farà la sua parte. Ecco, contro la massoneria italiana ha cominciato ad operare, a quanto pare è riuscita a metterla KO –
-Perché lo avrebbe fatto? – domandò ancora Morton.
-Penso, per ristabilire una sorta di primato. La prima ad esserne colpita è stata la Massoneria italiana perché, al solito, è la consorteria più debole ed anche la più divisa. Non farti illusioni, perché non si limiteranno a questo; ho l’impressione che nei prossimi anni ne vedremo delle belle in proposito –
Andrew non sembrava troppo convinto delle sue spiegazioni: da buon anglosassone aveva in ubbia i teoremi, comunque cambiò argomento.
-E per ciò che riguarda… -
-La principessa Diana? – lo anticipò Gianmarco – Senti Andrew, se permetti su questo, preferisco essere evasivo, sono dopotutto questioni personali e soprattutto, sono questioni molto delicate. Ti basti sapere che Diana ed io ci siamo frequentati in tutto per un paio di settimane. Quando sono venuto a sapere che il Principe di Galles intendeva sposarla, a costo di passare per un emerito villanzone, mi sono ritirato in buon ordine e, da allora, lei non mi ha più rivolto la parola. Il sottoscritto si è ben guardato dal cercare di riannodare i fili recisi. Prova ne sia il fatto che, come tu sai benissimo, per scrivere qualcosa che assomigliasse ad un servizio giornalistico sul “Matrimonio del Secolo” di quest’anno, sono dovuto ricorrere a te. Io a quelle nozze non sono stato invitato nemmeno come corrispondente del mio giornale –
-Ora vediamo di ricapitolare – disse Morton, poi contando sulle dita, riprese:
-On the first: tuo fratello ha incominciato la sua attività, praticamente da zero. Può succedere a tutti gli imprenditori, ma in questo caso lui è partito subito alla grande grazie a finanziamenti dati praticamente sulla fiducia e senza garanzie di sorta. -
-On the second: tuo fratello si prende come braccio destro, un suo amico di Palermo, il quale, sapendo il suo datore di lavoro minacciato dalla mafia, chiama dalla Sicilia, un mafioso che con la sua sola presenza, mette in fuga i cattivoni che minacciavano i figli del signor Roberto Demattei – si fermò per un momento guardandolo negli occhi, poi proseguì:
-On the third: sempre tuo fratello, acquista e finanzia un giornale d'orientamento destrorso, ci mette a lavorare il suo fratellino e lo spedisce a Londra come corrispondente. Il fratellino, e qui arriviamo al quarto punto, guarda caso, va ad abitare nello stesso condominio dove ha preso alloggio una ragazza che un giorno diventerà la regina d’Inghilterra. La ragazza ed il fratellino si innamorano l’uno dell’altra… -
-Questo non l’ho mai detto! – lo interruppe Gianmarco.
-Lasciami finire: ad un certo punto, anzi, quasi subito, il fratellino interrompe la relazione e la ragazza convola quindi a giuste nozze con il Principe di Galles. Ma non è finita, siamo arrivati al punto quinto: il fratellone Roberto, qualche tempo dopo vara, primo in Europa, una televisione commerciale, la quale si mette in concorrenza con la TV di stato italiana ed assorbe gran parte delle televisioni private che erano sorte, più o meno disordinatamente, in tutto il Paese, costituendo un network che in futuro potrebbe condizionare pesantemente l’opinione pubblica italiana –
-Non ti sembra di guardare un po’ troppo lontano? – domandò Gianmarco.
-Punto sei – continuò imperterrito Morton – Si scopre una loggia segreta della massoneria, una specie di lobby illegale, della quale fanno parte generali, prefetti, alti burocrati, uomini politici, banchieri, imprenditori, magistrati, giornalisti e…anche il tuo bel fratellone. Tra le carte sequestrate si trovano anche fotocopie di documenti riguardanti le indagini sui terroristi, lettere compromettenti, ricatti e via discorrendo…-
Morton fece un‘altra pausa, poi proseguì:
-Tutto questo, per voi… per voi Demattei intendo, non significa che siate dei malfattori, ma…, ma qualcuno appena informato e se permetti, come giornalista, ho il dovere di essere informato, secondo te, che cosa dovrebbe pensare? –
Morton s’interruppe e lo fissò. Evidentemente si aspettava una risposta.
Gianmarco, s’era preparato ad un quarto grado di quel genere, ma quel ragazzo era maledettamente ben documentato sugli affari italiani, anche troppo.
-Pensa quel che ti pare – esclamò tutto ad un tratto – Come integrazione ai tuoi rilievi, potrei aggiungere che il sottoscritto, prima di volare a Londra a corteggiare Lady Di, si è fatto un mazzo così all’università per quasi quindici anni, alla fine, si è trovato con tre lauree in tasca. Vorrei aggiungere che tra i documenti in suo possesso, per esempio sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, ne ha alcuni che se consegnati a chi competono, porterebbero dritti in galera parecchi uomini politici italiani e no. Aggiungerei inoltre che sono a conoscenza del fatto che la metà dei magistrati che stanno indagando sulla P2 sono dei corrotti, che l’altra metà è affiliata a qualche altra loggia massonica, magari un po’ meno chiacchierata, e per questo, ancora più segreta. A tutto questo aggiungerei ancora che la metà degli uomini politici che ci accusa di tutte le nefandezze di questo mondo, fino a qualche mese fa, faceva la fila davanti all’ufficio di mio fratello per chiedere finanziamenti per conto dei loro partiti (e per le loro tasche); l’altra metà di questi politici, la fila per prendere soldi la faceva invece presso i banchieri iscritti alla suddetta P2. Infine, come ciliegina sulla torta, aggiungerei che la metà dei giornalisti che ci sta prendendo a pesci in faccia, fino a qualche mese fa stava facendo la fila davanti all’ufficio del direttore di quel giornale destrorso, come tu l’hai chiamato, per farsi assumere come redattori o aiuto redattori o aiuto degli aiuto redattori. L’altra metà di quegli stessi giornalisti faceva la fila per farsi assumere al “Corriere della Sera”, il cui direttore, non dimenticarlo, era pure lui iscritto alla P2…Debbo continuare? –
-No, basta! Sono stanco, forse non dovevo neppure incominciare –
Già, erano quasi venti ore che non dormivano. L’aereo questa volta non lo pilotava Gianmarco, ma uomini alle dipendenze di suo fratello.
Il FALCON 10 stava scendendo di quota, fuori era buio, ma ad occhio e croce, l’aereo sorvolava le Alpi in quel momento. Tra una decina di minuti sarebbero atterrati a Linate, stava per incominciare una pericolosa avventura che l’avrebbe riportato, sia pure per qualche giorno, alla cupa ma sotto molti aspetti, eccitante atmosfera degli “anni di piombo”.
Gianmarco si recò in cabina di pilotaggio: da qualche minuto sorvolavano il territorio italiano. Quando tornò nello scompartimento dei passeggeri, notò che Morton si era beatamente addormentato sulla sua poltroncina. Lui, invece, non aveva nessuna voglia di dormire. A mano a mano che si avvicinava a casa, sentiva scariche di adrenalina nelle vene e nei visceri. Già, quello era il suo elemento, sentiva quasi l’odore della preda, proprio come un segugio.
-E nessuno me la strapperà dalle grinfie! – mormorò sottovoce, sedendosi a sua volta sulla sua poltroncina.
La voce del comandante dell’aereo, da un piccolo altoparlante, li avvertì che stavano per atterrare.
Gianmarco si rialzò, allacciò le cinture di sicurezza a Morton, che non s’era neppure svegliato, poi allacciò le sue, si adagiò allo schienale e chiuse gli occhi.
-Caro Dozier! – mormorò - A noi due –
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 1:55 pm

Capitolo VII


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil17


LA ZONA GRIGIA





Montanelli troneggiava davanti al suo corrispondente da Londra ed era parecchio agitato. Teso, come non l’aveva mai visto, stava dietro la scrivania, questa, tutta ad un tratto, sembrava diventata troppo piccola per le sue lunghe gambe da cavalletta. Il gran vecchio menava fendenti in aria impartendo ordini a destra e a manca, indicando punti immaginari con il suo indice ossuto.
-Questi americani! S’offendono a morte quando noi li tacciamo di coglioneria. Dopo essersi offesi per bene, alla prova dei fatti, si comportano tutti proprio come minus habentes. Caro fratellino del padrone, a quanto pare, farai il Natale in famiglia eh? –
Gianmarco come in un gesto di resa:
-Non l’ho voluto io –
-Altro che Natale! – proseguì Montanelli – Tu da oggi, anzi, da subito, ti metti alle calcagna dell’antiterrorismo e mi riporti qui Dozier, vivo o morto… Cioè morto no, perdiana! Vivo, vivissimo come non è mai stato. Ma tu guarda! Quest’imbecille s’è fatto prendere come un allocco, dopo tutto quel che è già successo qui in Italia. Quelli vanno alla porta di casa sua, suonano il campanello e lo piluccano come niente. Con tutti i segreti militari che ha in testa. Io l’ho sempre detto che ai segreti militari ci credono soltanto i militari più fessi, e adesso… -
-Guardi che… - Gianmarco cercò d’inserirsi in quel monologo.
-Che? – domandò il direttore, concedendogli finalmente la parola.
-…Questo Dozier, direi che non sa un asso! L’hanno mandato fresco fresco dall’America per farlo catturare. Ma si figuri se gli americani, con l’aria che tira, i Cruise e tutto il resto che stanno per schierare in Europa, sono così fessi da mettere a disposizione delle BR, e quindi del KGB, un comandante con tutta la strategia del fianco Sud della NATO nella testa. No, caro direttore, Dozier, se non è proprio un minus habens è uno specchietto per le allodole. Un bel generalone con tanti alamari sul petto, messo lì per far credere ai terroristi di essere riusciti a piazzare un colpaccio clamoroso. Non mi dica che casca dalle nuvole perché non le credo –
In effetti, Montanelli spalancò gli occhi azzurri, poi, come spesso gli capitava nei frangenti in cui era particolarmente emozionato, incominciò a balbettare:
-Co…co…cosa mi stai di…dicendo? Vu…vuoi farmi credere ch…che l’hanno messo lì apposta per…ma va là! –
-Negli ultimi tre giorni – proseguì Gianmarco – la polizia ha scoperto una mezza dozzina di covi, ha arrestato una cinquantina di terroristi, ha trovato un arsenale di armi da far invidia all’Armata Rossa e per finire, qualche mese fa, alcuni “bierre” sono stati arrestati mentre sorbivano il cappuccino al bar. Forse in questo momento, mentre stiamo parlando, altri terroristi stanno ricevendo la loro brava razione di manette. Nemmeno più i messaggi o i loro cosiddetti comunicati riescono a recapitare. Sono diventati talmente maldestri da non riuscire nemmeno a proteggere se stessi, e vogliono farci credere che sono stati capaci di mettere le mani su di una specie di Von Clausewitz, facendolo sparire nel nulla? –
Guardò in faccia Montanelli e poi concluse anche lui con un:
-Ma va là! –
-Se c’è una cosa che non riesco a sopportare in un giornalista, tu dovresti averlo ormai imparato, sono le esercitazioni di dietrologia. Quando si enuncia una teoria, dopo, occorre provarla! Puoi farlo? – domandò il direttore, puntandogli addosso il dito.
-Arrivo fresco fresco da Londra e lei già pretende che le porti qui Dozier, magari in alta uniforme. Mi lasci almeno spiegare quel che ho in mente. Secondo me l’Antiterrorismo, coadiuvato dai servizi segreti americani, sta seguendo una strategia a cerchi concentrici. Ad ogni cerchio, si avvicina sempre più all’obiettivo finale, quando faranno centro…noi saremo là con loro, e le manderò i saluti di Dozier –
-Stai vendendo la pelle dell’orso? – chiese Montanelli ironico.
-No, sto soltanto usando la testa. Ai tempi dell’affare Moro, cercavo di pensare con la testa dei terroristi o dei loro fiancheggiatori, ora cerco di ficcarmi nella zucca del capo dell’antiterrorismo per sapere quando e dove colpiranno la prossima volta –
-Te lo ripeto: hai idea di come comportarti? Hai, fin da ora, una risposta alle classiche domande del buon giornalista: chi, dove, come, quando, perché, eccetera eccetera? –
-Mi faccia intervistare un paio di persone che conosco, poi saprò risponderle con esattezza –
Ciò detto, si alzò dalla sediola posta davanti alla scrivania del direttore, guardò verso Andrew Morton che l’aveva imitato. L’inglese aveva capito che Gianmarco stava congedandosi e, facendo un cenno di deferenza nei confronti del Grande Vecchio, si diresse anche lui verso l’uscita insieme al collega.
-Non stai dimenticando qualche cosa? – domandò Montanelli con tono di rimprovero.
Gianmarco si girò di nuovo verso Cilindro, come ormai lo chiamavano a mezza voce i redattori del “Giornale”, ci pensò per un secondo, poi, ricordandosi all’improvviso.
-Ah sì, perbacco! Non le ho presentato il nostro collega inglese Andrew Morton, del “Sunday Times”. Me lo sono portato dietro perché gli debbo un grosso favore –
-Questo giovanotto o ti ha fatto conoscere un paio di Top-model oppure ti scrive gli articoli che poi mi mandi – concluse Montanelli.
-No, non conosce una parola d’italiano, ma per il suo giornale scriverà un bell’articolo in esclusiva sulla liberazione di Dozier – rispose Gianmarco strizzando l’occhio al direttore – Sa che bella pubblicità anche per noi. Completamente gratuita! –
Quando furono usciti, Gianmarco e Andrew si guardarono in faccia, poi entrambi, contemporaneamente, scoppiarono a ridere.
-Hai finalmente conosciuto il “grand’uomo” – disse Gianmarco rivolto al collega.
-Ma davvero ha passato tutto quello che raccontano di lui? –
-Così narra la sua leggenda – rispose, poi, strizzandogli, l’occhio aggiunse: - Ho fatto delle indagini, all’acqua di rose naturalmente. Ti posso confermare che quell’uomo ha passato gran parte della sua esistenza tra i denti degli squali, riuscendone sempre assolutamente indenne! –
-Quel che si chiama vivere pericolosamente – commentò Morton.
-A proposito di pericoli, non dimentichiamo il motivo per cui siamo venuti fino a Milano: prima di Natale dovremo scarpinare parecchio in giro per l’Italia –
-Per esempio? –
-Per esempio, dovremo fare quattro passi dalle parti di Padova e di Verona, dove ha sede una delle più importanti basi NATO per il Sud Europa e dove è stato rapito Dozier. Ma prima ancora, vorrei fare quattro chiacchiere con alcuni miei amici di Milano; se permetti, faccio strada –
Mentre pronunciava queste ultime parole, Gianmarco imboccò la scala che scendeva alla metropolitana, “Linea 1” di Piazza Cordusio. Dopo aver acquistato alcuni biglietti all’edicola e averne dati un paio a Morton, si avviarono ai treni.
-E’ troppo chiederti dove stiamo andando? –
-Andiamo a trovare un mio vecchio confidente da quando frequentavo l’università. E’ un tipo strano, per un po’ ha militato nei gruppi più radicali della sinistra, poi è stato folgorato sulla via di Damasco dal cattolicesimo; ogni tanto capita ancora. Dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, è diventato un confidente dell’antiterrorismo e di alcuni giornalisti, fra cui il sottoscritto. Quando lavoravo ancora in Italia, debbo a lui il fatto di essere riuscito ad evitare un bell’azzoppamento da parte delle BR, o forse anche una pallottola in testa, però…-
-Però? – lo incoraggiò Morton
-Però non mi ha mai fatto nomi, si è sempre limitato a segnalare eventuali pericoli ai quali potevo andare incontro. Se la polizia e la magistratura si fossero a suo tempo fidate delle sue segnalazioni, chissà, forse Aldo Moro potrebbe essere ancora vivo.
-Questo signore ci dirà dov’è nascosto Dozier? –
-Naturalmente no, non credo lo sappia; ormai, anche gli ambienti vicini al terrorismo cominciano a diffidarne. Ma sono sicuro che lui conosca qualcuno che, a sua volta conosce qualcun altro…e così via –
Ebbe qualche difficoltà a tradurre quest’ultima espressione. Guardando la faccia di Morton, ebbe il sospetto che avesse una certa qual confusione in testa, in ogni caso l’inglese non fece altre domande e si limitò a seguirlo.
Lasciarono la metropolitana alla stazione Primaticcio, risaliti in superficie attesero l’autobus che li avrebbe portati all’estrema periferia della città. Prima che il mezzo pubblico giungesse, Gianmarco andò ad una cabina telefonica, estrasse di tasca il suo solito taccuino e, dopo una brevissima conversazione, riattaccò. Quando raggiunse Morton alla fermata dell’autobus, poco ci mancava che si mettesse a saltare di gioia.
-Buone notizie, vero? –
-Ottime! Si trova in casa, e ci riceverà. Non gli ho detto di te, crede che venga da solo, ma quando gli dirò che sei inglese e che non capisci una parola d’italiano comincerà a sbottonarsi. Figurati che, non appena ha riconosciuto la mia voce al telefono, non mi ha lasciato nemmeno proseguire, mi ha domandato subito se venivo a trovarlo per Dozier! –
-Un uomo informato, a proposito, non ti ho chiesto come si chiama –
Gianmarco rimase per un attimo titubante, poi, sorridendo rispose:
-Chiamiamolo Matteo, come il primo evangelista, quello che ha fornito il modello a tutti gli altri per narrare la vita di Gesù: tutti quelli del nostro ambiente, infatti, lo conoscono con questo nome di battaglia –
-Uhm!… Più che un evangelista mi sembra uno spione bello e buono – commentò Morton con una smorfia.
-Dipende dalle informazioni che dai. Lo ripeto, Matteo nomi non me ne ha mai fatti, ma di persone ne ha salvate tante dalle pallottole, e tutto questo, senza ricevere un soldo da nessuno. Non solo, ma ha anche convinto parecchi baldi giovani a rinunciare alla lotta armata. Sicuramente avrebbe potuto salvare ancora di più gente, se gli avessero dato retta molto tempo prima. Ma i soloni che hanno retto finora le sorti del Paese, pensavano, ed in parte pensano tuttora, d'essere troppo intelligenti perché diano retta ad un barbone che non si fa nemmeno pagare –
Morton non pareva troppo convinto. Per lui una cosa o era bianca oppure nera. Per educazione, per formazione culturale; non concepiva che potessero esistere anche delle vaste zone grigie. Il tempo e l’esperienza gli avrebbero dato modo di ricredersi; ma in quel momento, mentre aspettavano un autobus che non si decideva ad arrivare, Morton stava forse pensando di tornarsene in Inghilterra a scrivere dei “Royals”, perché lì stava solo perdendo tempo.
Come Dio volle, l’autobus arrivò. Gianmarco e l’amico salirono, si sedettero l’uno accanto all’altro ed osservando le case e le piazze scorrere dal finestrino, se ne stettero zitti entrambi per tutta la durata della corsa.
Quando si dice “palazzone anonimo” per indicare un condominio progettato da qualche ingegnere con poca fantasia e parecchio altro lavoro da svolgere, collocandolo magari alla periferia di una grande città, si rischia di sconfinare nel luogo comune. I due giornalisti stavano appunto entrando nell’atrio di un palazzone anonimo alla periferia di Milano. Gianmarco suonò al campanello del portone: sulla targhetta v’era scritto il nome dell’inquilino, un certo Matteo Evangelisti. Una voce dal citofono domandò:
-Sii? –
-Sono Giamma, aprimi –
La serratura elettrica scattò dopo qualche secondo, i due si diressero verso l’ascensore e salirono al quarto piano.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono, li accolse il muro sbrecciato del pianerottolo. Gianmarco uscì per primo, svoltò a destra, dopo pochi passi, la porta davanti a lui si aprì di colpo. Quell’apertura improvvisa non se l’aspettava, istintivamente, fece un passo all’indietro. Fortunatamente, sulla soglia era comparso il volto familiare e sorridente di Matteo, il quale gli venne incontro, lo baciò e l’abbracciò direttamente dove si trovavano, poi fece cenno ad entrambi di entrare.
Matteo si rivolse all’ospite inaspettato e, prima che Gianmarco potesse fare le presentazioni, mormorò rivolto all’inglese:
-Mr. Morton, I suppose? –
-Io però non ti avevo detto che questo signore sarebbe venuto con me, inoltre come fai a sapere il suo nome? – domandò Gianmarco.
-Se non avessi imparato a prevedere e a prevenire i fatti un attimo prima che accadano, sarei già morto ammazzato da un bel pezzo! – gli rispose ironico Matteo, poi proseguì – In realtà non vi siete accorti che vi ho fatti pedinare da un mio amico, non appena siete scesi dall’autobus che vi ha portati qui. Tu piuttosto! Ne hai fatta di strada e pure i tuoi fratelloni ne stanno facendo di soldi eh? –
-Vedo che sei bene informato anche sul mio conto, lo sei altrettanto sull’affare Dozier? –
Matteo si era fino a quel momento trattenuto a parlare con i due giornalisti nell’atrio di quel piccolo appartamento: una stanza da letto, un tinello, un cucinino ed un bagno. Li guidò nel tinello, ammobiliato, si fa per dire, con un tavolino, quattro sedie, una credenza scassata ed un vecchio televisore in bianco e nero che troneggiava su di una piccola biblioteca piena di libri e riviste. Alle pareti alcuni poster raffiguranti animali ed un paesaggio invernale. Anche l’abbigliamento e l’aspetto generale di Matteo non potevano certo dirsi quelli di un cicisbeo: un paio di jeans sdruciti ed un maglione di lana spiegazzato, un paio di ciabatte da casa ai piedi ed una barba grigiastra sul mento, per dare alla fine, l’impressione di una persona quantomeno trasandata.
Matteo fece cenno agli ospiti di accomodarsi sulle sedie (come alternativa non c’era che il pavimento).
Fu una conversazione piuttosto lunga. Gianmarco e Matteo rievocarono per un po’ i tempi passati, poi, gradualmente, passarono al presente e soprattutto all’attualità. Morton stava ad ascoltarli, capendo poco o niente di quello che dicevano. Sapeva che alla fine, Gianmarco gli avrebbe spiegato ogni cosa.
Dopo tre ore di colloquio ed un paio di birre in lattina per disseccarsi il palato, i due giornalisti si congedarono. Gianmarco e Matteo tornarono a scambiarsi i convenevoli di rito sull’uscio di casa; poi, come erano entrati, se la svignarono alla chetichella dal palazzo, questa volta dalla porta di servizio sul cortile.
Fuori era ormai buio; i due giornalisti camminavano affiancati con le mani sprofondate nelle tasche dei giacconi invernali. Gianmarco non era più tanto tranquillo, ogni poco si guardava intorno, come per scrutare se qualcuno li stesse seguendo. Ad un incrocio, un paio di automobili rallentarono fin quasi a fermarsi vicino a loro due. Gianmarco ebbe un’esitazione, poi si chinò per scrutare i passeggeri nella penombra attraverso i finestrini. Non successe nulla, era solo un falso allarme.
-Che succede, siamo forse in pericolo? – domandò Morton.
Gianmarco annuì con il capo, poi sentenziò:
-Per questa sera niente più trasferte proletarie in autobus od in tram, più avanti troveremo un parcheggio di taxi e ci faremo portare in centro. Avrò anche fifa, ma l’appetito non mi è passato, è quasi l’ora di cena e, se permetti, questa sera offro io! –

-What is it?…rice…yellow? – domandò Morton poco persuaso del risotto alla milanese che gli avevano messo davanti.
-Mangia! – Lo esortò Gianmarco dall’altro capo del tavolo – Questo è uno dei ristoranti milanesi più rinomati, e questa volta le spese non devi nemmeno fartele rimborsare. Piuttosto, cos’hai capito della nostra conversazione con Matteo? –
-Praticamente niente, sono riuscito ad afferrare solamente qualche nome di città: Roma, Milano, Verona e…e… - Morton esitò
-Padova! – suggerì infine Gianmarco.
-Padova, oh yes!– confermò Morton.
-E’ lì che dobbiamo andare a cercare, proprio come m’ero immaginato. Per svariati motivi: in primo luogo all’università di Padova si trova l’ultimo nucleo dei puri e duri del sessantotto, di conseguenza è a Padova che si sono ormai concentrati tutti quelli che, provenendo da varie esperienze radicali, sono passati alla lotta armata. Padova è inoltre vicina a Verona, dove è stato rapito Dozier ed infine a Padova…- e sottolineò con il tono della voce - …ha operato, fino a pochi mesi fa, una certa persona, che domani andremo a trovare –
-Abita qui a Milano? –
-No, a Roma, partiremo domattina con il FALCON, saremo di ritorno a Milano la sera stessa, pressappoco a quest’ora –
-Ma domani è la vigilia di Natale! – Protestò Morton.
-Già, me l’ero dimenticato. Comunque il mondo gira ugualmente anche alla vigilia di Natale – commentò Gianmarco, poi soggiunse – Of well, if that’s the case – (se tanto mi dà tanto) …tu qui ci passerai anche il Capodanno, l’Epifania ed una buona parte di gennaio –
Morton allargò le braccia poi commentò:
-Tu non molli mai! – Poi cambiò argomento e domandò a bruciapelo:
-Quel tuo amico Matteo, di che vive? –
-Se lo chiami vivere! – S’interruppe per pensare se dirlo o no, poi si decise:
-Ufficialmente è infermiere in una clinica privata, ma al lavoro non lo vedono quasi mai, riceve lo stipendio e basta –
-E non lo cacciano? –
-No, perché la clinica è di proprietà di mio fratello – concluse Gianmarco strizzandogli l’occhio.
Morton scoppiò a ridere:
-Sons of bitch! –
-Attento, sennò lo dico a mia madre! –.

Gianmarco conosceva bene la villetta nel quartiere Prati di proprietà del colonnello Agostoni, tanto quanto lo squallido appartamento di Milano dove abitava Matteo.
Vi si era recato parecchie volte durante la prigionia di Aldo Moro. Allora però il colonnello Agostoni era assai meno loquace. Nei servizi segreti da trent’anni, conosceva a menadito tutti i risvolti della politica interna ed estera italiana ed anche una fetta considerevole di quella mondiale.
Pochi mesi prima era stato brutalmente congedato dal servizio attivo e messo in pensione, perché anche lui pescato nelle liste della P2. Da allora lavoricchiava e rilasciava di tanto in tanto interviste sibilline, nelle quali cercava di difendersi dalle accuse, quasi sempre a sproposito, che gli arrivavano da più parti.
Gianmarco gli aveva telefonato tre giorni prima, appena sbarcato a Milano. Dal tono delle sue risposte, aveva capito subito che il colonnello era disponibilissimo a vuotare il sacco su quel caso, anche con i disprezzati giornalisti.
Un signore in pantofole ed in maniche di camicia li accolse sui gradini della villetta. Dall’ultima volta che lo aveva incontrato, Gianmarco notò che il colonnello, quasi si fosse liberato d’un peso che l’opprimeva da una vita, apparisse perfino ringiovanito.
-Buongiorno dottor Demattei, vedo che si è portato un collega. Accomodatevi, accomodatevi pure, mia moglie è uscita per le compere: quando sa che ho ospiti in casa, esce sempre per le compere e… guarda caso, torna sempre quando gli ospiti se ne sono andati.
Li guidò nel salotto della casa, li fece accomodare su due poltrone vicino all’albero di Natale che aveva finito di allestire poche ore prima, quindi si sedette a sua volta davanti a loro.
-L’affare Dozier eh? Faccenda delicata, molto delicata, ha parlato con…ehm! Come viene chiamato…ah sì, Matteo, Matteo Evangelisti, vero? –
Gianmarco annuì, poi il colonnello continuò:
-Quindi lei si sarà fatta un’idea abbastanza precisa di come si sono svolti i fatti a proposito di questo rapimento e soprattutto dei retroscena della vicenda?
Il giornalista annuì di nuovo, poi attaccò a parlare.
-Signor colonnello, è mia opinione che questo rapimento sia stato organizzato da dilettanti che hanno paura anche della loro ombra; almeno, se paragonati a quelli che rapirono Moro. Quello che fin dal primo momento mi ha lasciato interdetto è il modo con cui il generale si sia fatto “pizzicare”, e come una personalità così importante sia stata lasciata praticamente a disposizione di chiunque volesse o potesse sequestrarlo. Sarebbe come, mi perdoni il paragone un po’ venale, se si prendesse una tonnellata di lingotti d’oro dalla Banca d’Italia e si mettessero in mezzo a Piazza San Pietro, sorvegliati da un vigile urbano –
Gianmarco si fermò per sbirciare l’espressione del colonnello, ma il viso del vecchio “cekista” rimase imperturbabile e l’uomo si limitò ad un:
-Continui, per favore –
-E’ dunque mia convinzione, che questo Dozier sia un uomo della CIA, o comunque degli apparati di sicurezza americani, i quali, in accordo con il servizio segreto italiano, l’hanno praticamente servito alle BR su di un piatto d’argento. In realtà, non l’hanno mai perso di vista. Ora le forze di polizia, la magistratura ed i servizi segreti della NATO aspettano pazientemente che ciò che resta dell’apparato eversivo italiano, europeo e mediorientale, escano allo scoperto, per tendergli un’imboscata e dar loro il colpo di grazia–
Fece una breve pausa per riordinare le idee, poi soggiunse:
-Chissà quanti ce ne sono di Dozier sparsi per il mondo a dire a tutti i balordi: “Prendetemi, prendetemi!” –
-Ha prove per sostenere questa teoria? – domandò il colonnello.
-Naturalmente no! Il nostro comune amico e confidente Matteo, mi ha però confermato questi sospetti. Da quasi dieci anni, infiltrate informatori e doppiogiochisti all’interno dei gruppi terroristi neri, rossi, verdi e a pallini. E’ un’operazione molto, molto rischiosa. Se divenisse di dominio pubblico, troverebbero conferma anche le accuse di chi vede nel terrorismo un sottile strumento, la cui esistenza possa poi giustificare ulteriori giri di vite repressivi. Tenendo conto del fatto che, anche senza questi infiltrati, il terrorismo esisterebbe ugualmente, per ragioni intrinseche alla realtà sociale e… -
-Lei sta divagando un po’ troppo, dottor Demattei, vorrei le prove di quello che sta dicendo, non un trattato di sociologia. Anche perché è proprio tra i sociologi dell’ultima generazione, che i terroristi reclutano le loro “mosche cocchiere”, come il professor Semerari –
-Già, il professor Semerari – osservò Gianmarco - L’ultima Primula Rossa delle BR, l’ideologo che, a quanto si dice, ha scritto per loro tutti i comunicati più lambiccati, e ve lo siete lasciati scappare da sotto il naso! O forse…forse l’avete sempre saputo che era nel giro dell’eversione. Voi l’avete lasciato fare perché la classe politica ci sbattesse il capo e magari se lo rompesse, così tanti altri. No colonnello, non ho prove di quanto asserisco, ma sono stufo, tutti siamo stufi di questo gioco del gatto con il topo; dove non si riesce mai a capire chi reciti la parte del gatto e chi quella del topo. Ho però l’impressione che ormai si siano stufati anche nelle alte sfere della politica mondiale. Sbaglio o qualcuno, in alto loco, magari lontano da qui, in un paese oltre l’Oceano, ha detto che la ricreazione è finita?–
Il colonnello Agostoni annuì, poi, come se fosse tornato sulla terra da dove s’era assentato per tutta la durata di quella conversazione, incominciò a confidarsi:
-Vede, dottor Demattei, la ricreazione sta effettivamente finendo. Veramente avrebbe potuto finire molto tempo prima, con meno clamore e soprattutto con meno spargimento di sangue, ma non l’hanno permesso. Questo compito spetterà quindi ad altri. Ma quel che abbiamo seminato noi, noi vecchi spioni, noi vecchi sbirri di uno Stato che non esiste più, quello resterà. Altri più giovani ne raccoglieranno i frutti; avrà modo di accorgersene nei prossimi anni, nei prossimi mesi…o nei prossimi giorni –
-Matteo mi ha anche detto che sono “sotto tiro”, ma non mi ha specificato da parte di chi; anche mio fratello Roberto lo è, ma lui è ben protetto, io no, io posso soltanto fidarmi del mio fiuto per i pericoli –
Il colonnello annuì.
-Si, lei è “sotto tiro” e non da ieri. Dovrebbe sapere che suo fratello la mandò a Londra quasi tre anni fa soprattutto per questo. Dottor Demattei, probabilmente si sta sottovalutando un po’ troppo; secondo me, lei vale anche più di suo fratello e qualcun altro, oltre a me, se n’è accorto. Stia attento! Qualcuno ha capito di avere a che fare con un potenziale avversario molto pericoloso. Per un po’ di tempo potrà stare tranquillo ma… -
-Ma? – lo sollecitò Gianmarco
-…Solo per un po’ di tempo. La ricreazione è finita anche per lei –

Il FALCON 10 stava ritornando verso le brume della Lombardia. Gianmarco era seduto ai comandi, mentre spiegava a Morton quello che il colonnello Agostoni gli aveva fatto intendere:
-Ma, in realtà non ti ha detto niente! – commentò l’inglese quando Gianmarco terminò la sua esposizione –
-E ti aspetti che un vecchio caporione dei servizi segreti, uno per le cui mani sono passati trent’anni di porcate di tutti i generi, ti racconti fino all’ultima virgola quello che è avvenuto in realtà? –
-No, ma… -
-Però, ne converrai, non ha mai smentito quello che ho affermato. Non ha mai pronunciato la frase “Non è vero”, oppure “Lei si sta sbagliando”. Guarda che nel suo caso è importante! –
-Non ha confermato, ma neppure smentito, è questo che vuoi dire? –
-Esatto! Quindi noi ci comporteremo come se in realtà queste cose le avesse dette, confermate e sottoscritte -
-Ma dov’è Dozier, perdio! –
-Te lo ripeto, Dozier non è che un pretesto per stanare tutti i fiancheggiatori del terrorismo, ce ne sono ancora tanti in giro, non tutti sono stati localizzati. Personalmente sono convinto che la polizia sappia persino il luogo dove è nascosto –
-Addirittura! Quindi, stando alla tua teoria, dovremmo avere a che fare con una specie di kamikaze che, per il gusto di metterlo in quel posto ad alcuni terroristi rossi italiani, è disposto a rischiare di far la fine di Aldo Moro? Non la bevo!–
-Bevi pure quello che vuoi, ma la realtà è questa. Il generale non è in pericolo più di tanto se, come suppongo, il nascondiglio dov’è tenuto prigioniero è conosciuto dagli investigatori. Ora stammi bene a sentire: ieri, parlando con Matteo, sono venuto a sapere di un particolare molto importante: i servizi segreti o la polizia sono riusciti ad infiltrare due loro agenti tra i sequestratori di Dozier, questo già da più di un anno. Altri informatori si sono annidati da qualche tempo tra i gruppi dei fiancheggiatori. Persino all’interno dei terrorismo nero –
-Vuoi dire che una parte dei terroristi è foraggiata da chi dovrebbe dar loro la caccia? –
-Solo una parte, l’altra parte che, ad occhio e croce, dovrebbe corrispondere al novanta per cento, farebbe quel che ha fatto, indipendentemente dall’essere foraggiata o meno. In questo modo, quando arriva l’ordine di catturarli tutti, tutti i pesci cadono nella rete –
-Ma il nostro signor Matteo, queste cose come faceva a saperle? –
-Perché una bella fetta di quegli infiltrati, li ha reclutati lui. Solo lui e pochissimi altri in Italia possono permettersi il lusso di tenere il piede in due scarpe. Che stessero preparando un clamoroso sequestro di persona, Matteo lo sapeva già da parecchi mesi. Naturalmente ha avvisato gli organi competenti, appunto quel colonnello Agostoni che siamo andati a trovare oggi. Tutto era pronto per far scattare la trappola, sennonché è scoppiato il bubbone della P2 e tutto è finito a puttane…almeno per qualche mese. Poi, il 17 Dicembre, le Brigate Rosse hanno ripreso l’offensiva, ed eccoci di nuovo daccapo –
-Perché è finito tutto a puttane con la vicenda P2? –
-Perché il colonnello Agostoni ne faceva parte e ne facevano parte alcuni alti dirigenti dei servizi segreti. Tutte queste persone, si sono dovute dimettere dalla sera alla mattina, non solo, ma alcuni importanti documenti che avrebbero svelato il piano messo a punto da Agostoni e compagni, sono stati sequestrati dalla Magistratura. Per fortuna, gli addetti alla loro catalogazione, quando li hanno letti, li hanno anche distrutti. Se fossero capitati in mano a quei magistrati… qualcuno avrebbe potuto lasciarci la pelle –
-Qualche magistrato? –
-No, qualche agente infiltrato, qualche poliziotto e forse qualche giornalista, magari anche Matteo –
-Anche tra i magistrati ci sono fiancheggiatori del terrorismo?-
-Caro Morton, in Italia si dice che “Il mondo è bello perché è vario”. Ti stupisce tanto sapere che anche all’interno della Magistratura ci siano persone quantomeno poco raccomandabili? –
-No, oramai, non mi stupisco più di niente! Quando ritornerò a Londra, tornerò ancora a scrivere degli amori del Principe Andrea e delle corna della Royal Family – poi soggiunse sbadigliando: - Ed ora, che si fa? –
-Per questa sera e domani si festeggia; a proposito, buon Natale Andrew! –
-Buon Natale a te, Gianmarco –
L’aereo stava per arrivare sulla radiante dell’aeroporto di Linate, fra non molto sarebbero atterrati ed entrambi erano decisamente stanchi. La voglia di parlare stava lasciando il posto al desiderio d’infilarsi in un bel letto. Morton decise quindi di passare ad argomenti più rilassanti, almeno per Andrew Morton:
-Non vuoi dirmi altro sulla Principessa Diana? –
-Che ti debbo dire? Che ho avuto come rivale il Principe di Galles? Sai che onore! –
-Davvero non vi siete più rivolti la parola? –
-Che cos’altro dovevo fare? Quali possibilità avevo? Carlo invece poteva offrirle un sogno che s’avverava. Dopotutto, tu ed io facciamo lo stesso lavoro. Te la vedi una signora Diana Spencer in Demattei che aspetta trepidante il maritino giornalista, mentre lui sta dando la caccia ad alcuni balordi terroristi in Italia? –
-Qualcosa mi dice che non finirai i tuoi giorni come giornalista –
-Mi giudichi così scadente? –
-No, sei un ottimo reporter. L’avessi io il tuo fiuto, solo che ti vedo più come top manager nell’azienda di tuo fratello che come reporter… a proposito di Diana, la sai l’ultima? –
-No, e la cosa m’interessa relativamente –
-E’ incinta –
-Auguri e figli maschi, come si dice in Italia –
-Come? –
Aveva ancora parlato in italiano. Quei repentini cambiamenti di lingua, avevano scombussolato anche lui, poi giocava anche la stanchezza. Gli avvenimenti degli ultimi giorni erano stati stressanti. Un paio di giorni di riposo, qualche discesa sugli sci in Val d’Aosta o in Svizzera e sarebbero stati pronti a ripartire. In fondo era o non era il fratello di un miliardario?

-E’qui! -
-Come fai ad esserne così sicuro? – domandò Morton.
-E’ qui, non chiedermi come lo sappia, lo sento e basta. Il quartiere è blindato: guardati in giro, tanti sfaccendati in ogni angolo. Sono poliziotti in borghese, è quasi un mese che facciamo la spola tra Verona e Padova. Ormai gli eventi e le notizie dovresti essere in grado di fiutarli anche tu –
-Ho l’impressione vogliano che qualche giornalista sia testimone delle loro gesta – commentò Morton con ironia.
-Vedo che stai imparando in fretta. Fra qualche ora, o fra qualche minuto vedremo l’epilogo di tutta questa vicenda. Ieri sera, ho ricevuto una telefonata molto interessante. Corre voce che quelli che hanno arrestato ieri per l’attentato fallito al capo della Squadra Mobile, abbiano cantato –
-Ma se hai sempre sostenuto che la polizia conosce già il luogo preciso dove è nascosto Dozier, che bisogno c’era di far cantare i terroristi catturati? –
-Perché debbono continuare fino all’ultimo a recitare la parte di quelli che indagano. La commedia sta comunque per finire e, aspettando ancora, si rischia per davvero di far uccidere l’ostaggio. No, Andrew, questa è la volta buona, come si dice in Italia: “Ora o mai più!” –
-Traduci please! Io sono nato a Londra, non a Milano –
-Now, now! –
Due giorni prima, il capo della squadra mobile di Milano era stato ferito dalle BR. Si trattava di membri dello stesso commando che aveva rapito Dozier (ormai erano ridotti al lumicino). La vittima si trovava nella sua abitazione, quando suonarono alla porta. Si trattava, come poté vedere attraverso lo spioncino, di un portalettere. Costui gli mostrò un telegramma a lui indirizzato. Il poliziotto, non del tutto convinto, aprì la porta, ma a differenza di Dozier, con la pistola in pugno e pronto a far fuoco. Difatti, oltre al falso portalettere, dietro all’uscio s’era appostato un complice armato, che gli sparò alla testa. La pallottola fratturò la mandibola al poliziotto, ma miracolosamente non lo uccise. Istintivamente, questi, prima di cadere, premette a sua volta il grilletto, ferendo il falso postino. Il terrorista cadde insieme alla sua vittima, lasciandosi sfuggire di mano il telegramma per mezzo del quale s’era fatto aprire. Lo sparatore abbandonò il luogo del delitto, trascinando via anche il compagno ferito, ma dimenticò a terra il falso documento postale. Quello fu l’errore che li rovinò.
Immediatamente soccorso dalla moglie, il capo della squadra mobile, poco prima di essere portato in ospedale, ebbe la presenza di spirito di raccogliere il telegramma e consegnarlo ai suoi colleghi, sopraggiunti nel frattempo. Questi ultimi, non ci misero molto a scoprire il trucco con cui i brigatisti s’erano procurati quel modulo.
A quei tempi, i telegrammi erano scritti su striscioline di carta che erano poi ritagliate ed incollate su moduli di colore giallo, inconfondibili. Perciò, i terroristi spedirono un telegramma a se stessi, quando lo ricevettero, staccarono le striscioline originali, recanti però il vero indirizzo ed il testo, ne incollarono altre con il nome e l’indirizzo del capo della squadra mobile e, quando furono davanti alla porta di casa sua, glielo mostrarono attraverso lo spioncino. Non avevano però tenuto conto del numero di serie stampigliato sul modulo, forse perché speravano, dopo aver ucciso il poliziotto, di portarsi via anche quel compromettente pezzo di carta. Grazie a quel numero di serie, la polizia ci mise soltanto un paio d’ore a rintracciare l’indirizzo degli attentatori, scoprendo così anche l’ultimo importante covo delle Brigate Rosse a Milano. Gli arrestati, sottoposti a “pressanti interrogatori”, quasi subito sputarono nomi, cognomi e indirizzi degli ultimi membri delle BR nell'Italia settentrionale. Poche ore dopo, una telefonata dalla Centrale operativa dell’Antiterrorismo di Milano, avvertiva Gianmarco che a Padova, in una certa via, la mattina successiva, si sarebbe scoperto il covo dove i terroristi tenevano recluso il generale americano.
Gianmarco e Morton stavano camminando lungo il marciapiede di quella via alla periferia di Padova, sotto il pallido sole di mezzogiorno del 28 Gennaio. Avevano entrambi un aspetto piuttosto dimesso: barbe lunghe, abiti stazzonati, occhiaie da assonnati.
Negli ambienti della polizia e dell’Antiterrorismo, quei due tipi che sembravano avere il dono dell’ubiquità ogniqualvolta si scopriva un covo o si arrestava qualche presunto brigatista, erano ormai una presenza familiare. Una volta, scambiati per terroristi, stavano persino per essere arrestati, fino a quando non saltò fuori il loro tesserino ed il passaporto britannico di Morton.
Il quartiere di Padova, dove li aveva indirizzati l’ultima “dritta” dall’antiterrorismo, si andava riempiendo di poliziotti in borghese.
In un’auto in sosta all’angolo della strada, c’erano quattro tipi che stavano guardando in un’unica direzione: verso un autocarro della nettezza urbana, fermo a metà della via, per raccogliere e vuotare i cassonetti dell’immondizia.
L’autocarro si rimise in moto lentamente al centro della strada. Alcuni addetti si recavano alternativamente ai bordi dei marciapiedi, prelevavano i contenitori, li trascinavano sul retro del mezzo. Subito un martinetto idraulico li agganciava, li sollevava rovesciandone il contenuto all’interno.
Quante volte avevano visto compiere quell’operazione: tutto normale? Mica tanto. Quei netturbini sembravano un po’ impacciati nei loro movimenti, ci mettevano troppo tempo per agganciare i cassonetti all’elevatore; e poi… e poi tutto quel personale per vuotare le pattumiere! A dire il vero, sembravano anche un po’ lavativi. Pure loro guardavano da un’altra parte.
Gianmarco indicò al collega il gruppo di spazzini. Silenziosamente si avvicinarono all’autocarro e si fermarono ad osservare. Uno degli addetti li fissò minaccioso.
-Sparite, asso! O vi faccio arrestare, filate! Qui tra un attimo si potrebbe anche sparare, non voglio rogne con la stampa – bisbigliò il netturbino ai due giornalisti.
-Maggiore Canale – bisbigliò a sua volta Gianmarco all’indirizzo dello spazzino – Maggiore Canale dell’Antiterrorismo di Milano, ha cambiato lavoro? –
In quel momento un’automobile si fermò dietro l’autocarro. Tre uomini scesero dalla vettura. Velocissimi e silenziosi salirono i gradini che li separavano dal portone d’ingresso di una palazzina lì vicino. Senza esitare, infilarono una chiave nella serratura ed entrarono: tutto in pochissimi secondi.
Dall’autocarro, scesero altri quattro uomini armati di mitra e con il volto coperto da passamontagna. I quattro si fiondarono anch’essi all’interno del portone appena aperto.
Con uno stridio di pneumatici, l’automobile ferma in fondo alla via scattò anch’essa in direzione di quell’assembramento. Contemporaneamente, un rombo assordante sulle loro teste li avvertì che un elicottero sopraggiungeva per sorvegliare i tetti del quartiere.
Il maggiore, facente funzioni di spazzino, o lo spazzino facente funzioni di maggiore, scattò anch’esso alle calcagna dei suoi uomini.
A questo punto anche i due giornalisti, vollero fare la loro parte. Con beata incoscienza, seguirono il commando ed entrarono in quel maledetto portone. Non avevano ancora finito di salire i gradini, quando udirono delle urla provenire dall’interno della palazzina.
Gianmarco e Morton, percorsero un breve corridoio nell’atrio di quella casa. Sulla destra, la porta del primo appartamento nel piano rialzato era spalancata e dal suo interno una bolgia infernale: urla, imprecazioni, rumori di vetri fracassati, scalpiccio di passi.
In quello stesso momento, altri quattro uomini giunsero alle loro spalle, con due spintoni li buttarono da parte ed entrarono. Il fracasso cessò pochi secondi dopo.
Ora si sentivano soltanto gli ordini secchi degli uomini che avevano occupato l’abitazione.
-E’ permesso? Siamo giornalisti, non sparate! – esclamò Gianmarco entrando nell’appartamento.
Gianmarco e Morton fecero in tempo a percorrere lo spazio che li separava dalla stanza dove s’erano concentrati gli uomini armati penetrati nel covo. I due giornalisti scorsero all’interno della stanza soltanto una tenda canadese montata, dove un uomo dell’antiterrorismo stava armeggiando al suo interno. Non videro altro.
Il Maggiore Canale ed un altro poliziotto si precipitarono su di loro. Gianmarco si prese un ceffone ed una pedata nel sedere, Morton fu più fortunato: l’altro poliziotto si limitò a prenderlo sottobraccio ed a trascinarlo fuori dall’appartamento.
I due furono accompagnati all’esterno del condominio e lasciati in mezzo alla strada. Il Maggiore Canale puntò il dito contro i due:
-Se vi azzardate a fare soltanto un passo verso quel portone, sarete gli unici morti ammazzati in tutta questa vicenda, ed ora…circolare! – E si voltò per tornare nel covo.
-Maggiore! – gridò Gianmarco – Una sola domanda: c’è Dozier sotto quella tenda, vero? –
Il poliziotto si voltò di nuovo verso i due e sorridendo per la prima volta, confermò:
-Sì! Là dentro c’è il generale Dozier, vivo e vegeto, anche se un pochino ammaccato. Potete tornare a casa soddisfatti, il vostro scoop, per oggi, l’avete fatto –




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Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 3:21 pm

Capitolo VIII

L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil18

DON’T CRY FOR ME ARGENTINA





“Le vittorie bisogna sempre farsele perdonare”.
Montanelli questa frase di Palmerson (o di Disraeli o di Montanelli stesso) soleva ripetergliela in tutte le occasioni possibili, immaginabili, inventabili. Ma che doveva farsi perdonare? Il fatto d’aver piazzato uno scoop, mentre tutti gli altri si lambiccavano il cervello per indovinare in quale modo il Governo italiano si sarebbe calato le brache un’altra volta?
Nelle ultime settimane, di ritorno dall’Italia, s’era dovuto rendere conto insieme a Morton, che le invidie e le gelosie professionali esistevano anche nel giornalismo britannico.
I loro servizi sul rapimento e la liberazione del generale Dozier erano puntualmente comparsi sui rispettivi giornali. Altrettanto puntuali, sui quotidiani inglesi ed italiani, erano comparsi articoli pieni di livore e d’insinuazioni sul conto degli estensori. Se almeno avessero contestato la veridicità di ciò che avevano scritto, macché! Morton fu bollato come reporter di “tabloid” che aveva fatto carriera mettendosi alle calcagna di un imbrattacarte italiano, fratello di un massone arrivista che non si sapeva bene come avesse fatto i soldi. Dal tono spocchioso di simili commenti, si poteva desumere che gli autori di quegli articoli, avessero commesso l’errore di essersi fatti largo nel mondo dell’informazione, correndo anche qualche rischio, senza andare a cercare le notizie dove ci andavano tutti gli altri.
Gianmarco s’era inoltre accorto di essere sorvegliato dalla polizia. Poteva essere il segno di un aumento di considerazione da parte delle autorità britanniche nei suoi confronti, o forse, più semplicemente, queste ultime lo volevano sorvegliare perché di lui non si fidavano.
Appena ritornato a Londra aveva cambiato indirizzo, almeno quello della redazione: finalmente era riuscito ad affittare un ufficio decente dalle parti di Fleet Street, la via londinese dei grandi giornali. Lì, con Beppe Severgnini, che s’era trasferito a Londra in pianta stabile, avevano traslocato armi e bagagli, mentre, per l’abitazione, Gianmarco continuava a risiedere nell’appartamento di Coleherne Court, che aveva nel frattempo acquistato.
La primavera londinese si annunciava, tanto per cambiare, piuttosto capricciosa: una pioggerella insistente batteva contro i vetri dell’ufficio da dove lui stava osservando il panorama di Londra. In lontananza si potevano vedere i battelli solcare il Tamigi dalle parti di Victoria Embarkment. La città che un tempo non troppo lontano era stata la capitale del mondo, si stendeva sotto di lui.
Tornò alla scrivania, la segretaria Ottavia, una romana che aveva sposato un londinese, gli aveva appena portato la posta e gli ultimi dispacci d’agenzia. Prese a sfogliarli, trovò poco, tranne un comunicato di qualche riga, anch’esso appena sputato dalla telescrivente: nel Sud Atlantico, sull’isola della Nuova Georgia, un reparto di marines argentini aveva occupato, manu militari, una base, dove alcuni connazionali stavano demolendo e rottamando una stazione baleniera in disuso, per conto di una impresa argentina, la quale aveva vinto ed ottenuto quell’appalto dal governo britannico. La motivazione addotta era di “proteggere” i civili che stavano svolgendo quel lavoro.
-Proteggerli da che, dalle foche monache e dai trichechi? – Si domandò Gianmarco, già sentiva puzza di bruciato.
Per quanto ne sapeva, l’isola della Nuova Georgia del Sud apparteneva alla Corona Britannica: era un’isola quasi disabitata e d’importanza strategica ed economica pressoché nulla, ma era rivendicata assieme alle Falkland, che si trovavano un po’ più a Nord, dalla Repubblica Argentina. Le Falkland però, non erano disabitate, da centocinquant’anni erano popolate da coloni britannici e… centomila pecore, il cui allevamento costituiva l’unica ricchezza nonché fonte di sostentamento per quella gente.
Da centocinquant’anni argentini e britannici si accapigliavano presso tutte le cancellerie del mondo per il possesso di quelle isole e da centocinquant’anni gli inglesi menavano il can per l’aia, confidando di tirare avanti così. Le Falkland, dopotutto, non erano l’India o il Sudafrica. Probabilmente a Buenos Aires, qualcuno aveva pensato le stesse cose e dopo centocinquant’anni, forse, aveva deciso di agire. Nel peggiore dei modi.
Ad ogni buon conto, per quanto poteva saperne in quel momento, avrebbe anche potuto essere una bravata degli argentini. Gianmarco telefonò a Morton al “Sunday Times”. Il collega inglese cadde dalle nuvole, di affari esteri dopotutto, non se ne occupava ma gli promise di informarsi presso l’apposito ufficio del suo giornale, nonché al “Foreign Office”, il ministero degli esteri britannico.
Subito dopo arrivò Severgnini.
-Beppe, qui sta per scoppiare una guerricciola – esclamò Gianmarco sventolando il dispaccio sotto il naso del collega che stava per accomodarsi alla sua scrivania, davanti a lui.
-Che succede? Per una volta che mi precedi in ufficio scoppiano le guerre! Chi sono i fessi di turno? –
-Gli argentini, cercano rogne nella Nuova Georgia del Sud – rispose Gianmarco.
-E dov’è la Nuova Georgia del Sud? –
-Ma naturalmente nell’Atlantico del Sud! – Rispose Gianmarco, andando alla carta geografica appesa alla parete.
-Qui, in questa posizione, vedi? E un poco più a Nord ci sono le Falkland, sotto sovranità britannica anch’esse, ma contese dall’Argentina da più di un secolo. L’ultimo “capataz” di Buenos Aires quel Galtieri o Gualtieri, che è andato al potere due o tre mesi orsono, dicono che in proposito sia molto intransigente –
-Se questa è la sua prima mossa di politica estera, dimostrerà che oltre ad essere molto intransigente, è anche molto poco intelligente – osservò Severgnini.
-Già, con tutti i guai in cui sguazzano da anni, sono andati a cercarsi anche questo! Quasi quasi chiamo Montanelli a Milano –
In quel momento squillò il telefono. Ottavia, che svolgeva anche mansioni da centralinista, li avvertì che chiamava il signor Morton.
-Pronto, Andrew! –
-Guai in vista, Gianmarco! Il Foreign Office ci ha fatto capire di temere un colpo di mano anche alle Falkland nei prossimi giorni o nelle prossime ore. Se si fosse trattato soltanto della Nuova Georgia, avremmo potuto limitarci a far la voce grossa, ma alle Falkland no! A quanto risulta, la flotta è stata messa in preallarme. Ciò significa che i nostri servizi d’informazione hanno subodorato qualche cosa a Buenos Aires –
-Interessante. E se i vostri amici della Pampa si presentassero da quelle parti con intenzioni poco amichevoli? –
-Qualcuno di noi si farà un bel viaggio in mare da qui alle Falkland, con le stesse intenzioni. Solo che sarà un tantino più incazzato – rispose prontamente Morton.
-Sentimi bene Andrew, adesso telefono a Milano; il nostro direttore, Montanelli, ha degli amici in Argentina, sentirà lui
che aria tira da quelle parti. Stavo pensando… -
-No! – lo interruppe Morton – Quando ti metti a pensare, finisci sempre per cacciarti in qualche rogna. Ho già intuito le tue intenzioni, la mia risposta è no; io da qui non mi muovo per nessuna ragione, e se non mi muovo io, non ti muovi nemmeno tu. Non siamo corrispondenti di guerra. Inoltre, dovremmo farci dare un passaggio dalla Royal Navy. Tu sei un fottutissimo italiano, e gli argentini sono per metà italiani fottutissimi come te! –
-Calma Morton, non precipitiamo le cose, non è ancora scoppiata nessuna guerra, nessun argentino sta pascendo le vostre pecore alle Falkland, ma se succedesse… -
-Se succedesse, a fare il corrispondente ci manderanno un inviato un po’ più esperto di me. Quanto a te ed al tuo giornale, beh, cercatevi qualcun altro che vi raccomandi! – e riattaccò.
Severgnini, che aveva seguito tutta la conversazione su di un altro telefono collegato, pur non avendo ancora molta dimestichezza con la lingua, aveva capito anche lui le intenzioni del collega.
-Caro Giamma, guarda che questa volta non si tratterà di correr dietro a quattro bischeri di terroristi in disarmo. Qui, se scoppierà una guerra… -
-Il punto è, caro Severgnini, che la guerra è già scoppiata, non nascondiamoci dietro ad un dito. In secondo luogo, per gli inglesi la guerra è già vinta. Non credo si tratterà di un picnic, ma la signora Thatcher, non si lascerà sfuggire quest’occasione per rinverdire le sorti del suo governo, a meno di due anni dalle elezioni. Se vincerà a buon mercato questa guerricciola, avrà la possibilità di vincere anche le elezioni e rimanere Primo Ministro per altri cinque anni, che, con i tre già passati a far stringere selvaggiamente la cinghia agli inglesi, faranno un bel record di durata. Almeno in questo secolo –
-Di questo possiamo star certi. Invece, non sono per nulla d’accordo sui mezzi impiegati. Se la signora Thatcher vuol tornare a farsi benvolere dall’elettorato, che faccia una bella campagna elettorale come Dio comanda, invece di una guerra! –
-Purtroppo, la politica è fatta anche di questo. Secondo te, se si votasse domani, chi vincerebbe le elezioni? Con tre milioni di disoccupati in mezzo alle piazze, con l’industria che perde, da quando la Thatcher è arrivata al governo, duemila posti di lavoro il giorno, domeniche comprese –
Severgnini allargò le braccia, poi cercò di fare lo spiritoso, come suo solito:
-Magari, se invece della Thatcher, si presentasse al suo posto la tua amica, la… ehm… Principessa di Galles, qualche speranza di vittoria i conservatori l’avrebbero ancora –
-Uh! Siamo alle solite. Con Diana non parlo più da quasi tre anni. Ora che è in dolce attesa, figurati se penserà ancora a me. Piuttosto, bando alle battute cretine, diamoci da fare per vedere se possiamo combinare qualcosa nel caso, molto probabile, ci fosse una spedizione nel Sud Atlantico –
-Nel Sud Atlantico, semmai, ci andrai tu. Nemmeno legato ad una portaerei, riuscirebbero a farmi sbarcare laggiù – concluse Severgnini.


Nei giorni che seguirono, come previsto, la situazione peggiorò: il Foreign Office, nonostante gli argentini avessero in pratica occupato militarmente un’isola sotto sovranità britannica, stava beatamente minimizzando l’avvenimento. Forse aspettavano ulteriori mosse dei sudamericani, forse si consultavano segretamente con gli USA, piuttosto riluttanti, in quel momento, ad appoggiare qualsiasi iniziativa dell’una o dell’altra parte. O forse, aspettavano proprio l’occupazione delle Falkland, per passare più decisamente all'azione, di modo che l’Argentina risultasse, agli occhi di tutto il mondo, dalla parte del torto.
In quei giorni, il telefono della redazione, come del resto in tutte le redazioni del mondo, squillò in continuazione. La marina britannica, aveva da qualche tempo stanziato in quelle acque una nave rompighiaccio: “L’Endurance”. Fu questa l’unica fonte d'informazioni, in quel periodo critico, tra il Sud Atlantico e la madrepatria. Per la verità, ci sarebbero stati anche i satelliti-spia lanciati dagli americani, ma costoro si guardarono bene dall’informare la stampa dei risultati di quelle loro imprese spaziali. Probabilmente, comunicavano tutto al servizio segreto britannico, che, come tutti i servizi segreti che si rispettino, stava zitto.
La mattina del 2 aprile, la telefonata di Morton venne come una liberazione.
-Hallo, Giamma! –
-Dimmi tutto –
-All’alba di oggi, gli Argentini sono sbarcati alle Falkland. Tra qualche minuto, la notizia sarà divulgata anche attraverso le agenzie. Ho appena chiamato il Ministero della Marina; non hanno voluto fare commenti in proposito. In ogni modo, fra non molto, si va a fare a botte in mezzo all’Atlantico –
Gianmarco, notò nel tono di voce del collega, un’eccitazione che non prometteva nulla di buono. Un’eccitazione ed uno strano stato d’euforia che, di lì a poco, avrebbe contagiato tutta l’Inghilterra: dal minatore del Galles su, fino al numero 10 di Downing Street, finanche a Buckingham Palace. Nei due mesi successivi, la stessa eccitazione avrebbe scandito il tempo, in tutti i rapporti umani del Paese.
-Tu che farai? – domandò Gianmarco.
-Ehm…Ho chiesto alle autorità competenti se posso imbarcarmi come corrispondente di guerra –
-E loro, cosa ti hanno risposto? –
-Mi hanno messo in lista di attesa, assieme a tutti i giornalisti che ne hanno fatto richiesta. Capirai; sono una bella fila! A proposito, ho fatto anche il tuo nome, come corrispondente di un giornale straniero. Ho fatto bene? –
-La risposta la conosci benissimo. Altrimenti non l’avresti richiesto anche per me senza neppure consultarmi. Vuol dire che mi porterò un paio di maglioni di lana, deve fare freddo da quelle parti in questa stagione –
-Speriamo invece di portare a casa la pelle – esclamò Morton
-Ma tu, non eri quello che fino a pochi giorni fa, non voleva neanche sentir parlare di fare il corrispondente di guerra? Hai forse fatto un corso accelerato? – ironizzò Gianmarco.
-Sì, un corso accelerato di stupidità. Ma capirai, ho avuto un buon maestro, un maestro che viene dal paese degli spaghetti e dei mandolini. Indovina un po’ a chi sto alludendo? –
-Dovrai mangiarne di spaghetti per eguagliare quel maestro, bastardo di un inglese! – concluse l’italiano ridendo.
Un attimo prima che riattaccasse, Ottavia, eccitatissima, mise sulla sua scrivania alcuni dispacci. Effettivamente gli Argentini avevano occupato anche le Falkland.
Sulle isole si trovava stanziata, come forza simbolica di dissuasione, una guarnigione di una quarantina di Royal Marines. Costoro, a quanto pareva, pur essendo pochini, erano riusciti ad abbattere un elicottero ed a stendere tre o quattro soldati invasori, prima di arrendersi. Intervistato per telefono, il Governatore britannico delle Falkland, aveva dichiarato che: “Sarà alquanto problematico proteggere con queste forze gl’interessi britannici dall’attacco delle Forze Armate della Repubblica Argentina”. Questi inglesi! Non perdevano mai il loro Sense of humour, oppure, più probabilmente, il governatore delle Falkland era soltanto un emerito coyote.
Poco dopo, chiamò Montanelli in persona.
-Piccolo Demattei, che mi dici dell’aria che sta spirando dall’Atlantico? –
-Aria di guerra, signor direttore. Tra poco partiranno i bastimenti carichi di soldatini; io sono già sulla lista per saltarvi sopra – riferì orgogliosamente Gianmarco.
-Tu per me sei invece sulla lista per finire al neurodeliri! – gli gridò il direttore dall’altro capo del filo – Anche se i manicomi in Italia sono stati chiusi, ne riapriranno un altro apposta per te. Ma che ti sei messo in testa? Se tuo fratello…-
-Adesso che c’entra mio fratello? – domandò Gianmarco risentito – Non posso continuare a svolgere il compito di giornalista alla vaselina, del resto, anche lei ai suoi tempi... -
-Lascia stare i miei tempi. Non vorrei che tu t'illudessi di andare laggiù con la mentalità con cui si va ad una crociera ai Caraibi –
-Stia tranquillo direttore: morire affogato sopra una nave da guerra od essere ammazzato da una sventagliata di mitra dalle BR, non fa nessuna differenza. Se si pensa a Walter Tobagi –
-E’ questo il punto. Tu conosci i tuoi polli terroristi, hai abbastanza fiuto da evitare certi pericoli. Ma quella che si sta prefigurando è una guerra aeronavale. Una bomba, un missile o qualsiasi altra diavoleria, dove capitano capitano, basta essere sulla nave sbagliata… -
-Direttore! – troncò il discorso Gianmarco – Lei come si sarebbe comportato al mio posto? –
Seguì un silenzio imbarazzato, poi, dopo un sospiro di rassegnazione, scoppiò il botto:
-Allora vai a morire affogato, zuccone della malora! Almeno portati un salvagente ed impara a nuotare –
-Non dubiti direttore, c’è altro? –
-Si! Ora ti passo il caposervizio esteri per farti le raccomandazioni del caso. Se non ci risentiamo, in bocca al lupo –
Attese qualche secondo perché gli passassero la comunicazione, poi sentì la voce del caposervizio.
-Ci mancava soltanto un altro eroe di guerra! Sei mai stato sotto ad un bombardamento senza fartela addosso, piccolo Demattei? –
-No ma… Come faceva a sapere che mi sarei imbarcato con la spedizione? Montanelli non può averle spiegato tutto in due secondi! –
-L’abbiamo sempre saputo. Ma davvero credi di essere stato tu, con la tua faccia simpatica, a farti mettere sulla lista d’imbarco della Royal Navy? O magari il tuo amico, quel novellino di Andrew Morton che quest’inverno ti sei portato qui a Milano, per mostrargli quant’eri bravo? –
-Allora mi spieghi tutto lei –
-C’è poco da spiegare. Montanelli si è messo d’accordo con il direttore del “Sunday Times” per avere almeno un corrispondente del “Giornale” sulla flotta, questo ancora prima di telefonarti. Tutto qui, ora stammi bene a sentire.. -
-Dica tutto! – esclamò eccitato Gianmarco.
-Pianta tutto in asso e corri a comperare: tute mimetiche, scarponi, indumenti invernali, tende, radio ricetrasmittenti, cibi liofilizzati, vitamine e quant’altro serve per questo genere di imprese. Non crederai che queste cose te le possa offrire graziosamente la Royal Navy? –
-Se è solo per quello! –
-Non ho ancora finito. Dopodomani le prime navi della flotta partiranno da Portsmouth in pompa magna con bandiere e fanfare. Tra queste, la portaerei “Hermes”. Là sopra, oltre agli aerei, saranno imbarcati anche i giornalisti al seguito della campagna militare, sempre che ci sia veramente una campagna militare. Non prendertela comoda, da questo momento te la devi cavare da solo. In bocca al lupo ragazzo, spassatela per le prossime ventiquattr’ore, perché ho l’impressione che nei giorni a venire starai un pochino a stecchetto e… stai attento! –
-Grazie capo, grazie per tutto quello che avete fatto per me!–
Riattaccò di nuovo, si appoggiò alla poltrona, mise il ginocchio sul bordo della scrivania. Quelli di Milano ne sapevano davvero una più del diavolo, ma forse, il diavolo… l’avevano inventato loro.

La portaerei incedeva maestosa verso l’uscita del porto di Portsmouth, sulla Manica. L’equipaggio era schierato in coperta, sul ponte di volo. Alle spalle dei marinai sull’attenti, erano stati piazzati alcuni cacciabombardieri “Harrier” e gli elicotteri “Sea King”, che la nave aveva in dotazione.
Per adesso, i contendenti si limitavano a mostrare che facevano sul serio, le botte da orbi, semmai ci fossero state, sarebbero venute dopo essersi fatti qualche settimana di mal di mare.
La folla, assiepata lungo i moli, sventolava le “Union Jack” di carta all’indirizzo dei suoi soldati. Una generazione di uomini e donne, che non aveva mai visto una guerra, si stava preparando per andarla a combattere all’altro capo del mondo, per riportare sotto la sovranità del proprio paese, alcune isolette sperdute in mezzo all’oceano.
“Coriandoli d’Impero”, aveva scritto anni prima Rudyard Kipling, per rimarcarne l’irrilevanza, e quegli uomini e quelle donne partivano per andarli a raccattare. Agli inglesi non è mai stato facile portare via alcunché: si trattasse di terre, oppure del portafogli, dei bagagli, della propria libertà, oppure… del “diritto” di levare la libertà (o la vita) a qualcun altro che non parlasse la lingua di Shakespeare. Dopotutto era anche una questione di principio.
Sottocoperta, nelle viscere maleodoranti di quella vecchia nave, semisommersi da zaini, sacche e valige, Gianmarco ed Andrew cercavano di sistemare le loro cose alla bell’e meglio. Là dentro, avrebbero dovuto viverci per parecchi giorni, assieme ad altri giornalisti, fotografi ed operatori televisivi della BBC.
I giornalisti, come tutto il personale non militare della nave, erano stati buttati negli angoli più reconditi, come persone appena tollerate, ma delle quali, tutto sommato, non si poteva fare a meno. Tutti s’immaginavano quali e quanti ostacoli sarebbero stati frapposti tra loro e le redazioni: la trasmissione delle notizie gestita per motivi di segretezza dalla Royal Navy, la censura militare, la convivenza forzata fra persone di varie nazionalità e infine, non per ultimo, i pericoli cui sarebbero andati incontro.
La “Hermes”, che ad un’occhiata superficiale, sarebbe potuta apparire un’unità da guerra temibile ed efficiente, era in realtà, una vecchia bagnarola sull’orlo della demolizione. Probabilmente la campagna delle Falkland era la sua ultima fatica, prima della fiamma ossidrica. Più moderna ed efficiente era l’altra portaerei che li seguiva: il Truck Deck Cruiser “Invincible”, varata pochi anni prima, e che, proprio per questo, era “zona proibita” per la stampa.
-Fortuna vuole che gli argentini siano conciati molto peggio di noi, quanto ad armamento ed equipaggiamento – esclamò Gianmarco, osservando preoccupato le incrostazioni di ruggine che decoravano il soffitto dell’hangar.
-Qui, se scoppia un incendio, finiamo arrosto in un batter di ciglia. Scommetto che l’impianto per la soppressione degl’incendi è scassato da chissà quanto tempo – aggiunse Morton.
Avevano, infatti, notato parecchi cavi elettrici spezzati pendere fuori dei loro condotti.
-Capirai, sono dovuti partire in fretta e furia, senza nemmeno poter rabberciare le navi. Speriamo che provvedano almeno durante la navigazione. Qui, in questo momento stiamo soltanto recitando per il grosso pubblico. Figurati! Un ufficiale dei Royal Marines, imbarcato qui sopra, mi ha confidato che il suo reparto non ha fatto neanche in tempo a caricare le casse delle munizioni. Speriamo che le imbarchino in un secondo momento –
-Speriamo! Anche perché, tentare di liberare le Falkland a colpi di cerbottana, sarà un tantino complicato – osservò Gianmarco.
Intanto la “Hermes” aveva lasciato il porto tra le ultime ovazioni della folla. Fra non molto tempo avrebbe fatto rotta verso Ovest, dirigendosi nell’Atlantico.
In pochi minuti l’hangar della portaerei si riempì del personale che, poco prima, era stato schierato in coperta. Gli ascensori presero ad andare su e giù, trasportando là sotto gli aerei e gli elicotteri che avevano fatto bella mostra di sé, assieme all’equipaggio, al momento della partenza. Il posto cominciava ad essere piuttosto affollato; Gianmarco e Morton, decisero quindi di fare il percorso inverso: si recarono all’aperto, sul ponte di volo. Quei primi giorni di aprile erano ancora freddi. I due giornalisti incominciarono a passeggiare avanti e indietro lungo il ponte, intanto osservavano l’isola di Wight sfilare alla destra della “Hermes”.
-Chissà se la rivedrò? – osservò malinconicamente Morton, indicando la grande isola verde, posta quasi all’imboccatura di Portsmouth.
-Hai già di questi pensieri? Cosa ti passerà per la testa quando incominceranno a fischiare i proiettili? – gli domandò Gianmarco.
-Il fatto è che io non sono mai stato militare. Non riesco nemmeno a concepire l’idea che delle persone, dotate della facoltà di intendere e di volere, possano uccidere o farsi uccidere a comando, per ordine di qualcuno che magari neppure conoscono. Me ne rendo conto soltanto adesso –
-Vorresti tornare indietro, vero? Avresti voglia di tuffarti in mare, magari in quest’acqua gelida e ritornare a casa a nuoto. Ma non ne hai il coraggio: perché, anche per essere vili, ci vuole coraggio! Pensa un po’a questo paradosso. Questi uomini in divisa da marinaretto, qui con noi, hanno le tue stesse paure. Sanno quello che rischieranno, ma non pensano di morire. Pensano semmai che a lasciarci la pelle sarà qualcun altro, magari il loro più caro amico. Mai loro stessi, perbacco! –

-Sai che ha detto il nostro Ministro della Difesa, a proposito dei militari italiani? –
-Che ha detto? – Gianmarco era proprio incuriosito.
-Se ben ricordo, cito a memoria, durante la conferenza stampa di ieri, ha detto: “Siccome la popolazione argentina è composta per metà da spagnoli e per l’altra metà da italiani, se prevarrà la mentalità spagnola i soldati argentini si batteranno, se a prevalere sarà la mentalità italiana, si arrenderanno” –
-Ma come ha fatto un così raffinato diplomatico a diventare ministro della Difesa. Dovevano farlo Ministro degli Esteri. In questo caso la Gran Bretagna si sarebbe trovata in guerra con il mondo intero, altro che Argentina! –
Seguì tra i due un lungo silenzio. Entrambi guardavano la fascia bianca delle scogliere inglesi allontanarsi all’orizzonte. Tra qualche giorno sarebbero stati raggiunti da un altro convoglio proveniente da Gibilterra. Altre navi erano in preparazione in Inghilterra. Alla fine, intorno alle Falkland si sarebbe trovata schierata la più grande flotta britannica dalla seconda guerra mondiale in poi: un centinaio di navi, per riconquistare due isolette.
Fu Morton il primo a riattaccar discorso:
-Ieri mattina, a casa mia, mentre stavo preparando l’armamentario per questa missione, ho ricevuto una telefonata da una persona… molto autorevole. Si è complimentata con me per il servizio sul generale Dozier –
-Un po’ in ritardo! – Osservò Gianmarco.
-Non ho finito. Dunque, come ti dicevo, dopo essersi complimentata, mi ha chiesto se per caso mi sarei imbarcato per le Falkland e se sì, mi ha domandato se, a mio avviso, ci fossero stati dei pericoli anche per i giornalisti. A questo punto l’ho interrotta, non mi aveva ancora detto il suo nome, anzi, per un momento ho pensato di sbatterle giù il telefono, credevo si trattasse di una scocciatrice –
-Era una donna? –
-Si, era una donna: era la Principessa di Galles –
Morton fece una pausa, come per osservare la sua reazione.
-Come fai ad essere sicuro che non si trattasse di una millantatrice? –
-Perché mi ha chiesto tue notizie, sapeva che anche tu saresti stato della spedizione. Mi ha anche detto che sei stato un suo carissimo amico, che poi vi siete persi di vista. Si è raccomandata di fare attenzione e di non cacciarci nei guai. Siccome le sembravo ancora dubbioso sulla sua identità, mi ha pregato di telefonare a mia volta a Kensington Palace e di chiedere di lei –
-E lo hai fatto? –
-Si, ho riattaccato; subito dopo ho composto il numero di Kensington Palace che, naturalmente, ho trovato sull’elenco telefonico, capirai, non sono certo un “habitué” da quelle parti. Ho chiesto al centralino di passarmi la Principessa di Galles; pensavo mi avrebbero mandato all’inferno, invece mi diedero la comunicazione: era stata proprio lei a chiamarmi! –
-Chissà chi le ha detto che eravamo qui sopra. Dovrebbero essere perlomeno riservati in nominativi dei componenti la spedizione. Anche se siamo “soltanto” dei giornalisti rompiballe –
-Stiamo parlando dei Reali d’Inghilterra. Sembra che ti dimentichi che quella ragazzona noi la chiamiamo “altezza”, anzi, “sua altezza reale” – poi, soggiunse malinconicamente: - nell'attesa di chiamarla “Maestà” –
Gianmarco, fingeva una curiosità distaccata. In realtà, desiderava ardentemente che il collega gli parlasse ancora di Diana. Come stava e se pensava ancora a lui. Evidentemente era preoccupata e si era messa in contatto per interposta persona. Forse, appena ritornati da quella guerra da operetta, avrebbe potuto riprenderli i contatti. Si ricordò all’improvviso dell’avvertimento che gli aveva lanciato quattro mesi prima, il colonnello Agostoni: “Lei è sotto tiro”. No, non avrebbe coinvolto Diana nei suoi guai e nelle sue beghe passate, presenti e future. Per i prossimi giorni, comunque, sotto tiro lo sarebbe stato a tutti gli effetti, insieme alle altre migliaia di persone che avrebbero preso parte a quella spedizione, senza contare gli argentini.

-Ma è proprio stato necessario? – domandò Gianmarco ai presenti - Se non ci fossero di mezzo centinaia di morti, direi che sia trattato di una bravata inutile. Bisognava che gli argentini capissero che si faceva sul serio, che non siete venuti per fare una crociera un po’ originale, ma mandare a fondo una vecchia bagnarola provvista di un po’ di tubi da stufa che assomigliano a cannoni, per far vedere che anche voi avete le palle, beh! Mi sembra un’inutile crudeltà –
Gianmarco e Morton, assieme ad alcuni corrispondenti della BBC, stavano commentando le ultime notizie provenienti dal fronte. Ventiquattr’ore prima un incrociatore argentino: "L’Ammiraglio Belgrano”, era stato silurato ed affondato da un sottomarino inglese. Perché l’avessero fatto, restava un mistero. Gianmarco sosteneva con foga la teoria secondo la quale sarebbe bastato tenere d’occhio l’incrociatore fino a quando avesse incominciato veramente a sparare contro le navi inglesi.
-Ma cosa volevate che facessero, con quei ridicoli cannoni? Quel tipo di nave era già anacronistica ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, figuriamoci adesso, con gli aerei a reazione, i missili e tutti gli altri gingilli tecnologici che ci portiamo appresso! –
-Intanto, se uno di quei proiettili avesse colpito una delle nostre navi, sarebbe successa una carneficina – rispose un operatore della BBC – Poi erano stati avvertiti che se avessero superato la barriera delle duecento miglia dalle Falkland… -
-La barriera delle duecento miglia non l’avevano superata – lo interruppe Gianmarco - E non è detto che, se anche l’avessero superata, avrebbero sparato contro di noi. Erano qui per fare scena, così come avremmo dovuto fare noi; se gli argentini avessero voluto compiere veramente un atto di guerra, vi avrebbero mandato incontro la loro portaerei ed anche quei modernissimi cacciatorpediniere classe “Sheffield” che voi gli avete venduto qualche tempo fa –
-Cosa? Gli abbiamo venduto dei cacciatorpediniere? – domandò allarmato Morton.
-Proprio così – confermò Gianmarco – Quasi tutta la marina militare argentina è composta di navi costruite nei cantieri britannici, quando non sono addirittura unità ex Royal Navy. Questo non ve l’hanno spiegato all’Ammiragliato? Ci credo che non ve l’abbiano detto! –
Morton fischiò di meraviglia.
-Beh! Non potevamo sapere che le avrebbero usate contro di noi, dopotutto non è la prima volta che succede – osservò un altro giornalista.
-Ma era comunque prevedibile. Con il contenzioso delle Falkland che si trascina da più di cent’anni, voi andate a vender loro anche la corda per impiccarvi – concluse Gianmarco.
Cominciava ad essere seccato da quell’atteggiamento sciovinista dei colleghi inglesi. Era sempre più convinto che l’occupazione argentina delle Falkland, il governo britannico l’avesse messa in preventivo già da parecchio tempo e che la signora Thatcher li avesse lasciati fare indisturbati. Dopo che i sudamericani avevano messo piede sulle isole, aveva potuto fare la voce grossa e scatenare una guerra senza eccessivi pericoli per la madrepatria e con buone possibilità di vincerla. Come si sarebbe comportato il Governo di Sua Maestà se a sbarcare su quelle isole fosse stata l’Armata Rossa?
-Senti, mio caro rompiballe, ma da che parte stai? – Domandò uno dei corrispondenti della TV britannica.
-Io non sono parte in causa – rispose Gianmarco – Quello che voglio dire, è che la vera guerra comincia da ora. Fino a ieri potevamo sperare di cavarcela mandando navi e Royal Marines a digrignare i denti da queste parti. Forse i sudamericani erano disposti a sgomberare le Falkland dopo aver fatto un bell’atto dimostrativo. Ma già, voi siete inglesi! Dovevate a vostra volta dimostrare che sapevate far meglio di loro, così avete rotto gli indugi. Non vi siete solo accontentati di riprendervi la South Georgia con un’azione militare che ricorda tanto le guerre di cartapesta che si combattono a Hollywood. Volevate anche il sangue, quello degli altri naturalmente, ed eccovi accontentati! Una bella tinozza travestita da nave da guerra, un paio di siluri, duecento e passa morti, bandiere al vento e l’onore della Regina, (che Dio La salvi!) è ristabilito. Avete salvato il mondo un’altra volta –
Così dicendo, Gianmarco prese una lattina di birra, che i giornalisti avevano tra le provviste, strappò la linguetta di apertura e facendo un brindisi all’indirizzo dei colleghi esclamò:
-God save the Queen! – poi aggiunse in italiano – Che Dio ce la mandi buona! –
Proprio in quel momento, nell’hangar rimbombò il suono cupo delle sirene. I giornalisti presenti scattarono tutti in piedi, guardandosi in faccia l’un l’altro. Da un altoparlante echeggiò il fatidico comando:
-ACTION STATIONS!, ACTION STATIONS! – (Tutti ai posti di combattimento!)
Sulla nave si scatenò il finimondo. Questa volta toccava a loro, ma qual era il posto di combattimento dei giornalisti? Come da istruzioni, tutti i reporter si precipitarono sul ponte di volo, indossando i salvagente e gli elmetti che erano stati loro distribuiti al momento dell’imbarco.
Sul ponte, i motori degli “Harrier” incominciavano a sibilare, così pure le turbine degli elicotteri “Sea King”, affiancati agli aerei.
-Un attacco aereo? – mormorò un giornalista inglese
-Ma… dove sono gli aerei? – domando Morton ad alta voce.
Tutti erano con il naso all’aria, come se si potessero scorgere, tra le nubi basse di quell’autunno australe, eventuali aerei nemici in picchiata.
Intorno a loro un continuo andirivieni di marinai che trasportavano in coperta dei manicotti flessibili e li caricavano sugli elicotteri al decollo. Un gruppetto di altri giornalisti corse in direzione dell’“isola” della portaerei, per avere dal comando della nave informazioni più dettagliate. Poco dopo ritornarono, pallidi in volto e con gli occhi sbarrati.
-Ci hanno colpito una nave! –
-Oddio! una bomba? –
-No, a quanto pare un missile. Hanno colpito la “Sheffield”, è scoppiato un incendio a bordo e gli impianti di irrorazione antincendio si sono guastati. Gli elicotteri stanno partendo per spegnerli e per portare in salvo l’equipaggio –
-Questa è la risposta All'Ammiraglio Belgrano – sentenziò Morton.
-Questa è guerra! – pensò Gianmarco.
Gli elicotteri carichi di materiale antincendio incominciarono a decollare. In tutta fretta si dirigevano verso Sud Est. Anche la “Hermes” stava cambiando rotta: probabilmente il suo comandante era intenzionato a portarsi sul luogo dell’incidente.
Alcuni operatori della televisione si diressero verso i velivoli che non avevano ancora preso il volo; chiedevano l’elemosina di un passaggio per riprendere la scena della battaglia. Morton li guardava ansioso.
-Vuoi seguirli? - domandò Gianmarco al collega inglese.
-Perché, tu non vuoi venire? –
-Non c’è posto per tutti noi pennivendoli, inoltre, ho paura che i tuoi colleghi mi buttino giù dall’elicottero non appena questo sarà in alto mare. Temo di averli irritati con le mie critiche di poco fa. Siamo sulla stessa barca, è proprio il caso dirlo, eppure ritengono questa guerra un affare tutto inglese. Se ci arriva addosso un missile od anche soltanto una pallottola, credi che farà distinzione tra chi è suddito britannico e chi no? –
-Ma io non volevo… -
-Ma potrebbe succedere molto presto, non credere. Intanto vai a vedere che succede sulla “Sheffield”. Io cercherò di avere altre informazioni dal comando della nave – Guardò ancora una volta verso l’orizzonte, poi riprese:
-Questa guerra, o comunque vogliamo chiamarla, la vincerete, ci mancherebbe! Ma da questo momento, in tutto il Sudamerica, sarà bene che gli inglesi non si facciano più vedere per un bel po’ di tempo. Alla fine la signora Thatcher si sarà guadagnata la rielezione ed il generale Galtieri sarà presto mandato in pensione. In compenso, avrete procurato un bel po’ di grattacapi in più al presidente Reagan, oltre a quelli che ha già con l’Unione Sovietica. Ci vorrà la pazienza di Giobbe per rimettere ordine tra gli alleati del mondo occidentale, dopo quello che sta succedendo a queste latitudini –
Gli ultimi due elicotteri di soccorso, avevano mandato le turbine al massimo regime per il decollo. Morton corse a raggiungerli, salì su uno di questi e mentre il grosso calabrone si staccava dal ponte, gli fece un cenno di saluto. Gianmarco rispose salutando a sua volta. Vide gli elicotteri sparire nella foschia. Poi s’incamminò verso “l’isola”, cercava un ufficiale che gli dicesse qualcosa in più sulla “Sheffield”. Trovò invece un collega francese del “Le Monde”. Neppure i francesi, in quel momento, erano bene accetti sulle navi di Sua Maestà. Il missile che aveva colpito la “Sheffield” era un “Exocet”, fabbricato in Francia, lanciato da un aereo “Super Etendard”, pure quello fabbricato nella patria di Voltaire.
-Il missile è stato lanciato ad una trentina di chilometri dal bersaglio – disse il francese – E’ stato guidato sull’obiettivo dal radar dell’aereo, poi è planato per una decina di chilometri. Non c’è stato niente da fare, la “Sheffield” era sprovvista di un sistema di difesa antiaerea ed antimissile da breve distanza, così come quasi tutte le navi inglesi di questa spedizione. In tal modo, il missile ha potuto avvicinarsi alla nave indisturbato: a velocità supersonica ha sfondato la paratia della fiancata destra. Fortunatamente, a quanto pare, la carica bellica non è esplosa, in compenso si è incendiato il carburante residuo dell’ordigno, è quello che ha distrutto la nave. E’ stata una carneficina, parecchi morti, parte dell’equipaggio è intossicata dal fumo, poi gli ustionati, li stanno portando qui –
Il francese s’interruppe, guardava alle spalle di Gianmarco, verso l’orizzonte. Il giornalista italiano si girò nella direzione dove scrutava il collega. In lontananza, contro il cielo grigio chiaro ed il mare blu notte, si intravedeva la sagoma della “Sheffield”, avvolta dal fumo, la portaerei si stava avvicinando. Eccola la guerra, nella sua versione più cruda, il pugno allo stomaco che Gianmarco ed anche tutti gli altri partecipi a quell’avventura, temevano di ricevere (e di vedere).
L’immagine della nave, la sua agonia, la sofferenza degli uomini a bordo. Più che essere visti, in quel momento erano soltanto percepiti, ma forse era peggio. Si potevano immaginare gli attimi di terrore, l’angoscia prima dell’impatto dell’”Exocet”, poi l’esplosione, le fiamme, il panico, il dolore atroce delle ustioni, la sensazione da parte di tutti di non poter fare niente. La speranza, soltanto la speranza dei soccorsi. Al diavolo gli argentini, le Falkland, la Regina, la patria lontana e le altre amenità. La pelle! Qui bisogna salvare la pelle, magari anche quella del tuo compagno, ma soprattutto la tua pelle.
Dopo qualche minuto, due “Sea King” si posarono sul ponte della “Hermes”. Trasportavano i primi feriti che erano riusciti a prelevare dalla nave in fiamme. Gianmarco si avvicinò insieme ai barellieri. Erano uomini chiaramente sotto shock, respiravano a fatica, il viso annerito dal fumo, gli abiti si erano letteralmente liquefatti per il calore, i capelli e le sopracciglia bruciacchiati e, soprattutto piaghe per tutto il corpo.
Gianmarco aiutò i barellieri a trasferire i feriti dagli elicotteri al posto di soccorso, uno di loro era in grado di camminare: anch’esso aveva gli abiti a brandelli. Il giornalista lo trascinò verso “l’isola” della portaerei, all’interno della quale era stata attrezzata una vera e propria infermeria. Mentre lo accompagnava, l’uomo articolava alcune frasi sconnesse. Era una persona sui trentacinque anni, si guardava intorno roteando gli occhi e muovendo la testa a scatti. Davvero Gianmarco non riusciva a capire cosa stesse dicendo.
-Sta calmo, ora ti curiamo, è tutto finito, è tutto finito! –
Gianmarco sapeva che invece, per lui e per gli altri, tutto cominciava in quel momento: altre sofferenze, altri orrori, altri terrori avrebbero scandito il ritmo di quella guerra. Una guerra che non si sarebbe combattuta solamente premendo pulsanti o controllando lo schermo di un radar. Non sarebbe stata, come si era illuso, qualcosa di asettico, ma, una galleria di crudeltà e di generosità, di meschinità e di grandezze, di coraggio e viltà. Una vera schifezza, insomma, come tutte le guerre, anche quelle da operetta.
Quand’ebbe trasportato il marinaio al riparo nell’infermeria, un battito di pale di rotori lo avvertì che altri elicotteri stavano sopraggiungendo con il loro carico di sofferenza. Tornò all’esterno, vide appontare altri tre “Sea King”, mentre gli altri due arrivati per primi, decollavano di nuovo per ritornare alla “Sheffield”.
Da uno dei calabroni appena arrivati, saltarono giù anche Morton ed un altro giornalista. Gianmarco corse loro incontro.
-Allora? –
-Terribile! La nave è avvolta dal fumo, altri elicotteri cercano di spegnere l’incendio, pescando acqua dal mare con i manicotti e scaricandola sulle fiamme. Non sappiamo ancora con precisione quali siano le perdite, ma sono gravi –
Indicò con un cenno del capo i feriti e gli ustionati che in quel momento gli inservienti scaricavano dagli elicotteri. Poi gli occhi gli si riempirono di lacrime.
-I miei colleghi corrispondenti di guerra, me ne hanno sempre parlato, ma vederla davvero!… -
-E siamo soltanto all’inizio – mormorò Gianmarco – Vedrai quando ci sarà lo sbarco sulle isole –
-Dio mio! – esclamò Morton – Sembra passato un secolo dall’ultima volta che stavo seduto comodamente nel mio ufficio a Londra. Siamo solo all’inizio? Ma finirà mai questo schifo? –
Gianmarco allargò le braccia, gesto quest’ultimo che gli era divenuto abituale, in ogni circostanza. Poi, cercando le parole giuste:
-Finirà questo schifo, come lo chiami tu e come dovremmo chiamarlo tutti, ma, quando torneremo a casa, se torneremo, ci porteremo per sempre dentro il ricordo di quest’orrore e degli altri orrori che seguiranno. Lo porteremo appresso finché camperemo, e quando lo racconteremo agli altri, senza le censure di guerra, non ci vorranno credere –
Poi, sospirando soggiunse:
-Andiamo Morton, andiamo a fare il nostro dovere di cronisti, andiamo a trasmettere ai nostri giornali la quotidiana razione di cazzate per quelli che ci leggeranno. Speriamo che i signori della censura militare, per questa volta, abbiano la mano leggera –
-Proprio adesso i censori dovrebbero diventare di bocca buona? Ora che abbiamo perso una nave?! – Gli fece notare Morton.
I due, mestamente, si avviarono verso il centro comunicazioni.






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Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 5:56 pm

Capitolo IX

L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil19


VITTORIE!





- Ne sta arrivando un altro, buttatevi giù! –
Subito dopo, un sibilo, uno schianto, un’esplosione. Gli uomini in “mimetica” premettero la faccia contro il suolo gelato delle Falkland, mentre li ricopriva terra e ciottoli sollevati dallo scoppio del proiettile.
-Ma quando s’arrendono questi argentini, che cosa aspettano, il Settimo Cavalleria? – imprecò Morton guardandosi in giro.
Gianmarco non fece nessun commento, già da qualche giorno era diventato taciturno. Erano sbarcati anche loro due alle Falkland il 28 maggio, subito dopo la riconquista di Goose Green, l’aeroporto principale delle isole. Subito dopo, il corpo d’invasione inglese s’era diviso in due colonne: una che si muoveva verso Sud, mentre un’altra si sarebbe diretta verso Port Stanley, in modo che, completato il periplo dell’isola, gli argentini sarebbero stati schiacciati tra due fronti, con una manovra a tenaglia.
Gianmarco e Morton avevano scelto di seguire la colonna che avrebbe percorso la via più breve, quella che andava verso Port Stanley da Ovest ad Est, ritenendo entrambi essere il percorso meno faticoso: illusi! Era anche la via più accidentata e pericolosa. Il percorso Ovest-Est, era un continuo saliscendi, tra dossi, colline e montagne, che gli inglesi chiamarono “Jumping”. Inoltre, data la conformazione del terreno, furono costantemente esposti al cecchinaggio dei nemici, annidati sulle alture circostanti. Questi ultimi erano sì rassegnati alla sconfitta, ma anche decisi a mandare all’altro mondo il maggior numero possibile d'inglesi, prima di cedere il campo.
Per chi, come Gianmarco e Morton, non era abituato a simili sfacchinate, quello fu un calvario, alla fine del quale, sull’ultimo declivio (con Port Stanley sotto di loro), arrivarono completamente sfiniti ma più o meno vivi.
Gianmarco era quello che stava peggio. Non dormiva ormai da ventiquattr’ore, anche se mai si sarebbe potuto definire sonno, quella specie di dormiveglia sotto una tenda, steso sulla terra gelata, avvolto in un sacco a pelo, sempre ossessionato dal pericolo di colpi di mortaio nemici (o anche amici). Ormai aveva abbandonato ogni elementare regola di prudenza. Già un paio di volte era stato trascinato al riparo, mentre gli argentini mitragliavano dalle alture circostanti il reparto cui era aggregato; lui non s’era nemmeno accorto del pericolo. Quando era stato buttato a terra un’altra volta dai suoi stessi compagni, si era trovato talmente bene in quella posizione, che non ebbe più nessuna voglia di rialzarsi. Andassero al diavolo le Falkland, il giornale, i lettori, Morton, la guerra, I Royal Marines e gli argentini. Lui voleva dormire, là, su quella collina, con il nemico davanti.
Ora, soltanto un proiettile vagante oppure la resa del nemico, avrebbero potuto chiudere definitivamente quella loro dannata prima esperienza di corrispondenti di guerra.
Fu svegliato da alcuni vigorosi scossoni, Gianmarco, nemmeno capì quel che Morton gli stesse dicendo. Il collega gli gridava qualcosa nell’orecchio, ma non riusciva ad afferrarne il significato. Alla fine comprese:
-Si sono arresi! Abbiamo vinto, è finita! –
Intorno a loro i Royal Marines ballavano di gioia. Ancora assonnato, Gianmarco stentava a prendere conoscenza di quello che gli avveniva intorno.
Poco per volta, l’ottundimento, dovuto alla stanchezza svaniva.
-E’ finita, Gianmarco, gli Argentini si sono arresi un’ora fa, … mi hai capito? –
Gianmarco lo guardò inebetito, poi, con un filo di voce domandò:
-E’ finita la guerra? Non si spara più? Roba da non credere! –
-Lo credo che non ci credi, sei talmente assonnato che sembri rimbambito. adesso ci facciamo una bella passeggiata in discesa, laggiù, fino a Port Stanley e dopo… ritorneremo a casa –
-Un accidente! – intervenne il tenente che comandava il plotone – Da qui non ci muoviamo finché non ci sarà ordinato. Quello che vediamo davanti a noi potrebbe essere un campo minato, sarebbe da stupidi saltare in aria ora che è finito tutto –
Gianmarco e Morton si guardarono in faccia un po’ delusi, poi tornarono a scrutare il terreno davanti a loro. Era quasi mezzogiorno, quindi, vi era luce sufficiente per vedere dove mettevano i piedi. In lontananza scorsero delle figure umane che avanzavano con circospezione verso la loro posizione. Erano soldati argentini che, preceduti da una bandiera bianca, venivano ad arrendersi. Probabilmente, li avrebbero accompagnati loro verso l’abitato di Port Stanley. Il tenente, quando il reparto di ex nemici si fu avvicinato ad una distanza di un centinaio di metri, si alzò e mosse loro incontro, quindi si fermò a pochi passi, salutò militarmente e parlottò per alcuni minuti con l’ufficiale che li comandava.
Poco dopo il tenente si girò verso il suo reparto, che continuava a rimanere accovacciato tra le rocce e fece segno di seguirlo. Tutti raccolsero armi e bagagli e si affrettarono alle calcagna dell’ufficiale, che, a sua volta s’era messo dietro ai sudamericani. Così fece anche Gianmarco.
Come mosse i primi passi, si accorse che le sue ginocchia, dopo la sosta forzata, si erano anchilosate. Evidentemente, l’acido lattico gli si era accumulato nelle giunture, ora che muoveva di nuovo le gambe, gli causava dolori lancinanti.
Alzò gli occhi verso il cielo, quel cielo perennemente grigio delle Falkland, vide che gli elicotteri “Sea King” evoluivano sopra le abitazioni della cittadina. Altri raccoglievano i reparti inglesi che circondavano ormai da ogni lato il centro abitato. Notò che altre colonne di attaccanti s’erano rimesse in marcia, e tutte convergevano verso un unico punto: Port Stanley, dove erano diretti anche loro.
La marcia trionfale delle truppe inglesi, durò quasi un’ora. Quando i Royal Marines raggiunsero le prime case, erano infatti le tredici passate. Altri argentini vennero loro incontro, ci furono altri convenevoli. La pace tra combattenti, come del resto la guerra, richiede delle formalità un po’ ipocrite, ma, tutto sommato, necessarie. Nell’arrivare fino a lì, Gianmarco aveva visto i segni lasciati dal passaggio della guerra: trincee mal scavate, che non avrebbero offerto protezione nemmeno ad una talpa, armi, munizioni, elmetti e buffetterie abbandonati in mezzo ai campi. Poco prima dell’abitato, incontrarono addirittura un campo minato, quel che temevano più di tutto, ma l’ufficiale argentino che li accompagnava, disse loro di attraversarlo senza preoccuparsi, tanto le mine mancavano dell’innesco e del detonatore, dall’Argentina non avevano fatto in tempo a spedirli.
Port Stanley era il tipico villaggio inglese: le strade con una fila di casette unifamiliari per lato, ogni casa aveva il giardino o l’orticello sulla parte anteriore. Lungo i marciapiedi, in fila indiana, camminavano gli inglesi con il fucile imbracciato. Alle finestre, cominciavano ad essere esposte le prime bandierine dell’Union Jack che davano il benvenuto ai liberatori. Chissà dove le avevano scovate gli abitanti. Del resto, dopo quasi tre mesi di occupazione straniera ed un mese e mezzo di bombardamenti, avevano tutto il diritto di festeggiare. Il centro cittadino era, in ogni modo, ancora più triste e desolato delle brulle colline tutt’intorno, qualche colpo d’artiglieria era caduto anche tra le case. Gli abitanti o erano fuggiti chissà dove od erano ancora nascosti in cantina. Ovunque per le strade: buche, sporcizia, vetri rotti, calcinacci e ancora tante armi ed equipaggiamenti abbandonati.
Davanti ad una scuola elementare trovarono una fila di autoblindo di fabbricazione francese, che gl’invasori avevano appostato proprio in quel punto perché gl’inglesi non le colpissero. Gianmarco, passando lì davanti, ne osservò i cannoni che non avevano mai sparato contro alcun soldato britannico; in compenso, gli argentini per farsene scudo, avevano preso come ostaggio un intero edificio scolastico.
Per la prima volta, si accorse che intorno a loro si erano formati dei capannelli di soldati ex nemici. Quegli uomini, che secondo gli accordi di pace appena firmati, avrebbero dovuto consegnare le armi per essere poi imbarcati su navi inglesi e rimpatriati, giravano come “zombies”, da un capo all’altro della città. Erano i soldati di leva che avevano sostituito i marines sbarcati il 2 Aprile. Come si seppe più tardi, provenivano quasi tutti dal Nord del Paese, quindi, nati e cresciuti in un clima più caldo, quasi tropicale. Erano stati sbattuti su quello scoglio gelato e dimenticato da Dio, tanto per far numero, mandati lì con armi che non sapevano usare e con un addestramento che, a malapena, poteva dirsi sufficiente per una parata a Buenos Aires. Chissà quanti ne erano morti di quei poveracci, senza sapere neppure dove, come e perché combattessero.
Neppure l’esercito britannico, come aveva potuto costatare, era composto da fulmini in guerra. Quante inefficienze, quanta ciabattoneria e pressappochismo, quanti ordini contraddittori e soprattutto, quanti ordini sbagliati che avevano causato morti inutili. Questi ordini sbagliati, erano stati impartiti da comandi ignari della reale situazione sul campo.
Per esempio: la battaglia per la presa di Goose Green, fu condotta con una leggerezza criminale. Un plotone di paracadutisti, fu spedito all’assalto frontale di un nido di mitragliatrici, il quale, evidentemente, non era stato segnalato per tempo a chi aveva dato l’ordine di occupare quella posizione.
Le navi da guerra, come ebbe a dire di seguito qualche esperto, erano quasi tutte da rottamare: sottoarmate, lente, con apparati motori difettosi e poco protette dagli attacchi aerei a bassa quota. Quante di quelle navi erano state colpite da bombe d’aereo che poi, per fortuna, non erano esplose?
Buon per tutti, che i comandanti argentini si comportarono da imbecilli, sia a livello politico, che militare (tanto, erano la stessa cosa), altrimenti non sarebbero ritornati in molti da quella spedizione, mentre quelli che fossero ritornati, dopo non avrebbero avuto molto da festeggiare.
Questi ed altri rilievi, ovviamente, non li aveva scritti negli articoli che mandava quasi tutti i giorni al “Giornale”, perché i comunicati della stampa erano soggetti alla censura di guerra preventiva. Ma Gianmarco si riprometteva di metterli nero su bianco, una volta rientrato alla sua redazione di Londra.
Ora lui e Morton stavano camminando in compagnia di altri soldati per quella città fantasma; ci sarebbe voluto del bello e del buono per ripristinare tutto, anche se, Port Stanley non era certamente la Londra del dopoguerra, per non parlare di Berlino. Giacché, i danni dell’occupazione, l’Argentina non sarebbe stata comunque in grado di rifonderli, tutto, come al solito, sarebbe stato pagato dal contribuente Inglese.
-Dove si troverà adesso il centro di trasmissione più vicino? Debbo ancora scrivere l’articolo della vittoria – esclamò orgogliosamente Morton.
-Guarda che in Inghilterra e nel mondo, dei nostri articoli, in questo momento, non fregherà più di tanto. Hanno già i comunicati del comando e del governo. Ora, a Londra, staranno festeggiando a “Piccadilly Circus”, a Buenos Aires, già rizzeranno qualche forca per appenderci il generale Galtieri. Pensiamoci domattina agli articoli di complemento. Piuttosto, cerchiamo fra queste case un buon posto per dormire, anche perché io sono stufo di passare la notte sotto una tenda o steso in una buca –
Morton sembrava un po’ contrariato, come se il collega avesse pronunciato chissà quali eresie. Poi, evidentemente si accorse di essere stanco morto (e con le ossa rotte) pure lui. Poiché non erano militari, potevano anche sbattersene allegramente del loro comandante e del loro reparto. Da quel momento si autocongedavano e ritornavano dei civili.
-Ma dove andiamo a dormire, non hai visto che casino qui attorno? – Gli fece osservare Morton.
-Di case rimaste in piedi, ce ne sono ancora parecchie, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. Gli abitanti di queste isole, saranno anche un po’ selvatici, ma non certamente degli ingrati; ospitalità per una notte, ce la daranno certamente –
Dopo essersi guardati in giro per qualche minuto, i due giornalisti optarono per un pub sul lungomare della città. Bussarono alla porta dell’abitazione, venne ad aprire una donna sui cinquant’anni.
Si racconta che Stanley, famoso esploratore inglese dell’800, quando incontrò per la prima volta, dopo una ricerca durata anni, il suo collega Livingstone, che tutti credevano disperso in Africa, gli domandasse solamente: “Mister Livingstone, I suppose?” In quell’isola in capo al mondo, però, quell’aneddoto assunse, agli occhi di Gianmarco, il sapore della bufala ad uso e consumo dei genitori inglesi, quando vogliono tener buoni i propri figli.
Quando dunque la donna si accorse che Morton era inglese e che soprattutto non era un militare, per poco non lo buttò a terra nel cercare di abbracciarlo:
-Brutti lazzaroni! ce ne avete messo del tempo per venire a liberarci, che cosa aspettavate, che sbarcassero i marines americani? –
La donna era letteralmente impazzita di gioia, Gianmarco assistette alla scenetta senza aprir bocca. Temeva che a causa del suo accento italiano, lo scambiasse per un argentino in fuga.
In un baleno comparve tutta la famiglia: figli, figlie, nuore, suocere e zie. Fortunatamente la donna era vedova da anni, altrimenti si sarebbero trovati addosso anche il marito. Morton ci mise un po’ per liberarsi dall’abbraccio, e soprattutto per spiegarle che erano due poveri giornalisti e desideravano soltanto di pernottare in modo decente. Non era precisamente come chiedere la luna. Quella modesta famiglia, proprietaria del pub al piano terra, viveva in ristrettezze da più di due mesi e, come tutti gli abitanti di Port Stanley, se l’era vista brutta. Non che gli argentini li avessero trattati male, in fondo, erano quasi tutti poveri diavoli come loro. In quegli ultimi due mesi, infatti, avevano patito, in comune con gli invasori, gli stessi pericoli, la stessa fame, le medesime paure, le identiche bombe.
Così, la famiglia, per quella notte, si fece un po’ più stretta, al fine di dare ospitalità a due cammellieri in tuta mimetica, lerci e puzzolenti come capre, provenienti dall’altra parte del mondo, ma che anche parlavano (almeno uno di loro), la stessa lingua di quegli isolani.
La stanzetta dove furono alloggiati era fredda (di riscaldamento neanche a parlarne, viste le circostanze), ma conteneva due veri letti, ai lati dei letti due comodini. Alla parete, vicino alla finestra, una specchiera rimandò loro l’immagine del proprio aspetto, orripilante.
Gianmarco azzardò timidamente un:
-Potremmo lavarci? –
La donna gli rispose gelida, come quella stanza:
-Mani e viso: in cucina c’è un lavello, acqua fredda, naturalmente, per il resto, dovrete accontentarvi di un mastello. Il bagno l’hanno scassato gli argentini –
Andarono in cucina, si lavarono mani, viso e capelli, si rasarono con le lame “Gillette”, poi, ritornati nella stanza, si spogliarono, s’infilarono sotto alle coperte. Pochi minuti dopo erano già nel mondo dei sogni.
Erano le 21,30 (ora locale) del 14 Giugno 1982, ultimo giorno di guerra alle Falkland.

L’aeroporto di Goose Green era ancora disastrato: hangar sventrati, rottami di aerei “Pucarrà” sparsi per tutto il campo. Un paio di finti crateri da bombe, fatti ad arte dagli argentini stessi, facevano bella mostra di sé in mezzo all’asfalto del campo d’atterraggio. Fino a quando il campo non fu liberato, quei finti crateri avevano fatto credere alla ricognizione inglese d’aver messo fuori uso definitivamente la pista dopo i primi bombardamenti aerei. Con molta buona volontà, potevano esser considerati una metafora di quella guerra: incominciata dagli argentini con un’invasione da burla, continuata con “bluff” da entrambe le parti, proseguita più che altro, per una questione di principio per entrambe le parti, terminata in bellezza dagl’inglesi, con più di mille morti ammazzati, sempre da entrambe le parti.
Per Gianmarco però era davvero finita. Dopo un paio di giorni di lavoro ininterrotto da parte dei genieri, l’aeroporto poteva definirsi agibile e già da qualche ora i primi “Hercules” dell’aviazione avevano incominciato a scaricare i rifornimenti per quella che era ormai la guarnigione delle Falkland, ed a caricare i feriti più gravi, da riportare in Patria.
Gianmarco, pur non essendo tra i feriti, era riuscito a farsi rimpatriare tra i primi. Era un giornalista straniero, non sarebbe stato elegante trattenerlo in quel posto più del dovuto. Gli inglesi, avrebbero dovuto attendere parecchi giorni, magari ritornarsene in nave, come capitò a Morton, ma per quelli della stampa estera, che avrebbero cantato nei loro paesi delle “eroiche gesta” dei soldati di Sua Maestà, ci sarebbe stato un occhio di riguardo. Gianmarco aveva smesso la “mimetica” dei Royal Marines, dalla “Hermes” gli era stato recapitato il resto del bagaglio in elicottero, dopo quasi un mese da quando era sbarcato. Così, lindo e tirato a lustro (si fa per dire), era seduto sul suo zaino, aspettando il turno per salire a bordo del C-130, che avrebbe dovuto riportarlo sull’isola di Ascension, base militare americana, messa a disposizione della Royal Navy per le operazioni di riconquista delle Falkland.
Accanto a lui Morton, era venuto a salutarlo. Il collega inglese, come s’è detto, si sarebbe fatto tutto il viaggio di ritorno sulla portaerei “Hermes”. Se fosse stato fortunato, rivedeva le bianche scogliere di Dover e l’isola di Wight, tra un paio di mesi. Gianmarco, invece, appena sbarcato ad Ascension, avrebbe sicuramente trovato, subito dopo, un altro aereo di linea, pronto a riportarlo ai patri lidi.
-Non c’è che dire – commentò l’inglese – ce la siamo cavata egregiamente, siamo a giugno ed abbiamo svolto due servizi giornalistici coi fiocchi -
-Ho l’impressione, che tu ci stia prendendo gusto alla guerra. Se è solo per questo, dal sei di questo mese, se non te ne fossi accorto, il Libano è stato invaso dagli Israeliani, i quali, in quattro e quattr’otto hanno già circondato Beirut, altro che Falkland! Che ne diresti se… -
-Ancora! No e poi no, le Falkland mi sono bastate. Se vuoi andare a Beirut a prenderti qualche cannonata, questa volta ci vai da solo. Non sei ancora ritornato a casa e già pensi in quale guaio ti caccerai tra qualche giorno! Guarda quelli – e indicò alcuni feriti gravi, caricati in barella sull’aereo che avrebbe trasportato anche Gianmarco - Guardali! Alcuni di loro non cammineranno più per tutta la vita: credi forse che abbiano ancora voglia di vedere un’altra guerra? E questi, a differenza di noi due, la morte l’hanno vista in faccia. Giacché passerai con loro un po’ di tempo, prova ad intervistarne qualcuno, forse ti passerà la smania guerrafondaia –
Eh sì, toccato! Pensandoci bene, non aveva nessuna voglia di cacciarsi in un altro ginepraio. Gli tornò alla mente il sermone che il cappellano militare aveva pronunciato quella mattina ad alcuni soldati, per commemorare i caduti:
-Dovete sempre ricordarvi quello cui avete pensato quando temevate di morire: forse la vostra fidanzata, forse vostra moglie, forse… il vostro cane (risate), forse la vostra stessa vita. Ricordatevi di coloro che non sono tornati con noi –
Era passato poco tempo: un tempo di preoccupazioni e di pene, di orgoglio e di sofferenze. Notizie e segnali incerti, spesso in ritardo; alla fine, alcuni ricorderanno soltanto la “gloria” della guerra, altri non dimenticheranno mai il loro dolore e l’infelicità. Per alcuni importava molto l’aver combattuto per la libertà, per altri era stato un conflitto assurdo, risultato di un fraintendimento politico. In Gran Bretagna, l’appoggio all’azione del Governo era stata schiacciante. All’estero, molti non riuscirono, né riusciranno neanche a credere che fosse accaduto. Il tempo collocherà la crisi delle Falkland in una nuova prospettiva, ma in quel 1982, per quelli che ritornavano, era già tanto essere a casa.
No, per un bel po’ di tempo, non si sarebbe più cacciato in nessun’altro conflitto, appena ritornato a Milano… ma sì! Si sarebbe guardato i Mondiali di calcio alla televisione, forse faceva ancora in tempo a seguirli.
Il rombo delle quattro turboeliche del C-130, lo scosse dai suoi sogni. Un inserviente, dal portellone di coda dell’aereo, fece un cenno ai pochi passeggeri che potevano salirvi sopra con le loro gambe: era ora di partire. Gianmarco diede un ultimo sguardo alla pista devastata dell’aeroporto, alle macerie degli hangar, ai rottami degli aerei argentini, testimoni muti della tragedia che si era svolta pochi giorni prima.
-Addio Falkland… o Malvinas, o come diavolo vi chiameranno. Gianmarco Demattei, giornalista, vi saluta per sempre –
Poi si voltò verso Morton, lo abbracciò e lo baciò sulla guancia.
-Arrivederci, Andrew! –
Morton, un po’ stupito, da buon anglosassone, per quel bacio, si ricordò poi che Gianmarco era un latino e ci scherzò sopra.
-Guarda che non sono la Principessa di Galles –
Il giornalista italiano ignorò quell’osservazione – quindi, afferrata la sua sacca, corse verso l’aereo e sparì dentro il portellone.

Montanelli aveva davanti a sé un uomo in crisi. Gianmarco era parecchio dimagrito in quei due mesi.
-Non è possibile, santa Madonna! Che cosa avrei dovuto dire io, nel ’39, quando mi sono fatto la guerra di Finlandia, poi ho seguito l’invasione russa degli Stati Baltici, poi di nuovo la campagna di Polonia e la Norvegia, per non parlare dell’Ungheria. Il tutto in quattro o cinque mesi. Come se non bastasse, in quei giorni incontrai lo “zio Adolfo”, sì, ci siamo capiti, Hitler in persona, su di un ponte, al confine tra Germania e Polonia, circondato da uno stuolo di feldmarescialli. Qualcuno gli aveva detto che ero un giornalista italiano, lui mi piantò addosso i suoi occhi da folle, venne verso di me e mi tenne uno dei suoi sermoni che inneggiavano all’amicizia eterna tra il Nazismo ed il Fascismo. Io ero appoggiato al parapetto di quel ponte: per poco, dallo spavento, non cadevo sotto –
-Non deve raccontarle a me queste cose – rispose Gianmarco – Questa storia della guerra in Finlandia, la conosco a memoria. Purtroppo o per fortuna, appartengo ad una generazione che le guerre le ha vedute soltanto in TV, perciò, quando m’è capitato di vedere morti e feriti veri… plaff! –
-Generazione di pasta frolla! Quarant’anni fa di morti ne ho visti a cataste, di tutte le razze e di tutte le nazionalità, sempre che, per i morti, si possano fare simili distinzioni – tuonò il grande vecchio – Una passeggiata militare, ecco cosa sono state le Falkland. Possiamo dire che la signora Thatcher si è assicurata la rielezione a spese di quei poveracci dei soldati argentini –
Montanelli si mise a tamburellare nervosamente sulla scrivania, poi sospirò rassegnato ed emise la sentenza:
-Senti, piccolo Demattei, avevo pensato di spedirti in Libano per seguire quell’altra bella carneficina che gli israeliani, in questo momento, stanno facendo a spese del signor Arafat, ma vedo che sei proprio partito, quindi… che ne dici se ti mandassi a divertirti in Spagna, ai Mondiali. Penso proprio però che, come sarai arrivato laggiù, dovrai tornartene a Londra, perché i nostri li avranno già sbattuti fuori. La prossima partita sarà con l’Argentina di Maradona. Chissà se nel frattempo, quei ventidue mammozi con le gambe molli, non si decidano a segnare qualche gol. Fino ad oggi hanno fatto proprio ridere i polli. Ieri, per poco non le buscavano anche dal Camerun. Bah! –
-Io sono milanista, non mi piace questa Juventus truccata da Nazionale –
-Per quest’anno, il tuo Milan si farà meritatamente il campionato in Serie “B”. Vai dunque in Spagna e… voglio, pretendo, esigo, servizi scoppiettanti. Debbono sembrare la battaglia per la presa di Goose Green, o come diavolo si chiama quel maledetto posto alle Falkland, con cui ci hai rintronato in questi ultimi tempi. Vai, divertiti… e torna vincitore! –
Questi gli ordini. Gianmarco, era ritornato a casa da quattro giorni, ed era ancora più scosso di quando era partito. Aveva dormito per quasi due giorni, al terzo aveva bighellonato per Milano. Il quarto, era ritornato al giornale, aveva scritto un paio d'articoli conclusivi sulle Falkland, spiattellando tutto quello che aveva omesso quando era laggiù, in mezzo all’Atlantico. Poi, Montanelli lo aveva chiamato nel suo ufficio, evidentemente ne era rimasto impietosito, lo mandava ai mondiali invece che in Libano, come licenza-premio.
Si lasciò scappare un:
-La ringrazio, direttore! – poi si alzò, fece un leggero inchino a Montanelli ed uscì.
Mentre richiudeva la porta dell’ufficio, sentì il gran capo mormorare tra sé:
-Pure gli inchini! Mi ha preso per la Regina Elisabetta. Se tanto mi dà tanto, tra qualche mese mi farà anche il baciamano –

Arrivare a Barcellona per seguire il Mondiale, dopo aver scritto di una guerra, è la cosa più strana del mondo. Gianmarco, sentiva ancora nelle ossa il freddo dell’inverno australe, poi il caldo, prima quello di Milano, poi, l'afa ancor più soffocante di Barcellona. Tutto ciò, costituiva una sauna mica da ridere. L’appuntamento era all’Hotel Majestic, il quartier generale della stampa italiana. Era il 28 giugno 1982, l’indomani si sarebbe disputata la partita del secondo turno del Mundial di Spagna: Italia-Argentina.
Gianmarco, riciclatosi da corrispondente di guerra a cronista sportivo, sia pur in sottordine al capo degli inviati del “Giornale”, Giovanni Arpino, entrava in quella gran bolgia dell’albergo. Nessuno lo notò. Doveva essere successo qualcosa di grosso; d’un tratto scorse il “boss” del giornalismo sportivo, Gianni Brera, il quale, come suo solito, teneva banco tra i colleghi.
Gianmarco, facendosi largo tra la calca, gli s’avvicinò con le orecchie dritte, cercando di capire quel che stesse dicendo:
-Io me ne sbatto! Se non vogliono parlare, che non parlino. Guardate che mica fanno un piacere a noi se rilasciano interviste, quelli si danno la zappa sui piedi – finiva di arringare gli astanti il Gianni nazionale.
-Vabbé, ma tutte quelle allusioni… Su Cabrini e Rossi, andrebbero lavate col sangue – soggiunse un noto cronista romano.
-I nostri eroi in mutande bianche, sono lautamente pagati anche per questo, che non facciano tanto gli schizzinosi! – ribattè prontamente Brera
-Ma cosa sta succedendo? – si decise a domandare Gianmarco.
Tutti si girarono a fissarlo con compassione. Non essendo del giro, nessuno lo riconobbe, meno Brera. Infatti, fino all’anno precedente aveva lavorato per il “Giornale”:
-Tel chi el guerriero! Huei, ma da dove spunti? Cari colleghi, vi presento l’eroe delle Falkland, el dutur Gianmarco Demattei, fratello di quello della televisione, quel là ch’el rump i bal alla RAI. Cosa ci fai qui? –
-Montanelli mi ha inviato da queste parti per distrarmi, ma vedo che ci sono delle novità. Vogliate scusarmi, ma sono appena arrivato, dunque…? -
-La novità è che Cabrini e Rossi…sono culi! Almeno, stando a quel che hanno scritto alcuni colleghi – esclamò senza tante perifrasi uno dei giornalisti del capannello.
-Sì, e qualche bischero ha voluto anche scherzarci sopra, così i nostri prodi si sono offesi ed hanno decretato il silenzio stampa, capito? Niente più interviste né dichiarazioni, fino alla fine dei mondiali – aggiunse Brera.
-Beh, tanto domani si torna a casa. Un paio di pappine di Maradona e, culi o non culi, si ritorna al Bel Paese con le pive nel sacco – esclamò Gianmarco.
L’Argentina! Ma cosa aveva fatto di male agli argentini? Se li ritrovava sempre tra i piedi da un po’ di tempo.

-Vezzose tribunette! – commentò Giovanni Arpino, osservando dalla tribuna stampa l’architettura dello stadio circostante.
“L’Espanol” di Barcellona era uno stadio veramente angusto per una partita così importante, Gianmarco ne convenne. Aveva una paura folle, come non ne aveva provata nemmeno alle Falkland. Poco prima, gli avevano confidato che se alla nazionale fosse capitato di buscarle dal Camerun, per il ritorno in Italia, era già stato preparato “l’aeroporto della vergogna”, a Nizza, in territorio francese, ma vicinissimo al confine italiano e per questo, adatto ad un rientro in patria alla chetichella dei giocatori sconfitti.
Ormai le due squadre erano schierate in campo. Al fischio d’inizio dell’arbitro Rainea, l’Argentina s’era fiondata subito in avanti: un arrembaggio un po’ garibaldino, ma maledettamente efficace. Gli argentini pensavano di metter sotto gli azzurri, contando sulla loro timidezza. Come si sbagliavano! I calciatori italiani tenevano botta, Antognoni e Conti si proiettavano all’improvviso in avanti, mettendo puntualmente in difficoltà la difesa avversaria. Ad un certo punto, dal momento che gl’italiani non apparivano per nulla intimoriti, né da Maradona (che le stava prendendo di santa ragione da Gentile), né da Kempes (ormai l’ombra del grande attaccante di quattro anni prima), né dal titolo di Campione del Mondo uscente, gli argentini incominciarono ad innervosirsi ed a picchiare. Cabrini e Collovati non erano da meno, di Gentile su Maradona s’è già detto. Restava Ardiles, che pareva “l’uomo ovunque”.
Passavano i minuti, l’Argentina schiacciava gli azzurri. Questi ultimi giocavano con la tattica del “santo catenaccio”, espressione cara a Brera. Gianmarco, come suo solito durante le partite avvincenti, si tormentava le mani, avrebbe pure voluto alzarsi e sedere, ma in quello stadio si poteva solo stare in piedi.
Si giocava dunque ad una porta sola, quella italiana, ma la difesa era solida come una roccia, a differenza del centrocampo, che andava a corrente alternata, e dell’attacco, quasi del tutto inesistente. Paolo Rossi era un fantasma, Graziani non andava oltre la sua stoica generosità. Il fischio di chiusura del primo tempo fu una liberazione: zero a zero, per ora.
Gianmarco sentì un collega esclamare a mezza voce:
-Mi vergogno! –
Lui no, lui non si vergognava affatto. Nel calcio, come in guerra, il fine giustifica i mezzi, e lui, sia la guerra che il calcio, li aveva visti entrambi da vicino in pochissimi giorni.
Durante l’intervallo, in mezzo ai colleghi italiani e stranieri, Gianmarco parlò poco ed ascoltò molto. Come il solito, Gianni Boera dirigeva le danze:
-Menotti è un pirla! E’ un coyote, è andato a dire a mezzo mondo che noi siamo in ritardo di cinquant’anni. Questa è una castroneria che gli faremo pagare cara. Certo, i nostri sono poca cosa, ci manca Bettega, Paolo Rossi vagola per il campo come un ectoplasma, Antognoni non riesce a fare uno “stop”. In compenso, Gentile e Collovati, picchiano come dei fabbri! Vedrete che nel secondo tempo i nostri amici della Pampa, saranno cotti come manzi lessi –
-Brera, siamo realisti! – si intromise Arpino – Così non va, lo vedi anche tu che non abbiamo attacco. Il centrocampo fa ridere i polli, con Antognoni che non imbrocca una palla, Gentile e Tardelli in difesa, che fanno a gara a chi mena di più. Per fortuna l’arbitro Rainea ci è amico, altrimenti ci ritroveremmo con almeno un paio d'espulsioni e sotto di un paio di reti –
-Ma non è ancora successo, siamo ancora zero a zero dopo quarantacinque minuti. Nel secondo tempo, gli argentini avranno molto meno fiato. Sarà a quel punto che li infilzeremo in contropiede, se ritroveremo il Paolo Rossi di quattro anni fa – concluse Brera, quasi scaramantico.
L’autore di “Profumo di donna” non volle insistere nella polemica. Da buon gentiluomo piemontese, detestava i litigi da curva sud, ma era chiaro che dissentiva in tutto e per tutto dal collega-rivale di Milano. Arpino era per il cosiddetto bel gioco, fatto di manovre ariose ed arrembanti, tutte pressing e tiri in porta da ogni posizione, marcature a zona e squadre a trazione anteriore. Brera era l’opposto, assertore di una teoria psicosomatica. Sosteneva che i giocatori italiani erano discendenti di un popolo piuttosto rachitico, che aveva mangiato poco e male in gioventù, quindi ne risentiva pesantemente nelle prestazioni atletiche. Ne conseguiva che, nel gioco del calcio, occorreva fare di necessità virtù: le squadre dovevano essere difensiviste, risparmiare le forze, contenendo in tutti i modi l'offensiva della squadra avversaria, che soleva essere più prestante, per poi infilzarla in contropiede, quand’era ormai troppo sbilanciata in avanti.
A Gianmarco (e non soltanto a lui), le teorie di Brera, sembravano un tantino anacronistiche. Inoltre, ci sarebbe stato molto da dire sui giocatori italiani sottonutriti e stenterelli. Forse che i brasiliani, gli argentini, i peruviani, ed i polacchi, per non parlare di giocatori del Camerun, erano popoli aitanti ed atletici perché ipervitaminizzati?
I fatti, avrebbero comunque, di lì a poco, provveduto a dar ragione al vecchio Brera, con gran scorno di tutti i tromboni disfattisti, che si erano fatti sentire dalle parti della tribuna stampa italiana.
Nel secondo tempo infatti cambiò la musica. Come aveva previsto Brera, la squadra argentina aveva il fiato corto. Kempes, Maradona e compagni facevano fatica a rientrare quando gli azzurri ripartivano all’attacco. Conti, Graziani, Antognoni e Tardelli, arrivavano sempre più spesso in area di rigore. Tardelli, riuscì persino a segnare in fuori gioco; poi, di nuovo, un gran tiro sempre dello stesso Tardelli, deviato dal portiere argentino Filliol, rafforzava l’impressione che i sudamericani stessero pagando lo sforzo fatto nel primo tempo. Si aprivano troppi spazi ad un attacco italiano, che, purtroppo, fino a quel momento, non esisteva.
All’undicesimo minuto il momento topico: Bruno Conti scendeva lungo la fascia destra del campo, arrivato sulla tre quarti, passava ad Antognoni, il quale, avrebbe potuto tirare, ma preferì incunearsi ancora più profondamente nella difesa argentina. La porta avversaria era sempre più vicina, sempre più… a questo punto, un tocco mellifluo per Tardelli, che stava arrivando sulla sinistra: Tardelli, Tardelli… GOOL!
Gianmarco e con lui, tutta la tribuna stampa, urlarono e saltarono all’unisono. Era incredibile, stavano battendo i campioni del mondo.
Da quel momento si cominciava a guardare con nervosismo l’orologio. Quanto mancava? Mancavano soltanto undici minuti al secondo gol. Il bis venne da Cabrini, dopo un errore marchiano di Rossi ed una ricucitura di Conti che passava al terzino, il quale, nella sua unica incursione in avanti in tutta la partita, spediva in rete.
Era fatta. Quel terribile 1982, nella mente di Gianmarco svaniva nella gioia di una partita di calcio. Ci voleva poco per dimenticare quanto aveva vissuto: Dozier, le insinuazioni velenose, le Falkland, il terrorismo, la guerra in Libano, persino le tardive apprensioni di Diana. Tutto era dissolto nell’euforia.
Il gol della bandiera di Passarella, a sei minuti dalla fine, non avrebbe cambiato il risultato: due a uno per l’Italia.
Gianni Brera scriverà sulla “Repubblica”, rivolto a Menotti, l’allenatore dell’Argentina:
“…Ah! siamo arretrati di mezzo secolo? Prendi su questo mezzo secolo e porta a casa! I mezzi secoli pesano tonnellate. E poi, che maledetta noia sarebbe il calcio, se a vincere fossero sempre i migliori”
Non soltanto nel calcio, caro Brera, non soltanto nel calcio!
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mer Ott 27, 2010 6:15 pm

Capitolo X


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil20


FESTE E BATTESIMI



Una bella sbronza, questa volta era d’obbligo! Ci voleva assolutamente. Quella sera un gruppo d’italici giornalisti sportivi percorse le “ramblas” di Barcellona cantando a squarciagola tutto il ciclo delle “osterie”. Quelli della “torcida”, il tifo organizzato brasiliano, erano più numerosi degli italiani, in compenso, questi ultimi, più chiassosi. D’italiche vittorie, non solo quelle calcistiche, la storia degli ultimi quarant’anni era stata avara; quando si riusciva ad accalappiarne una, tutti si scatenavano. In questo caso, a guidarne la comitiva era il solito Brera, il quale, in compagnia dei fidi Mario Sconcerti e Silvano Moggi, saltabeccava da un bar all’altro, alla ricerca spasmodica del favoloso “vin tinto di Rioja”, un superalcolico truccato da vino.
Quando venne l’ora di cena, lo stesso gruppo di giornalisti, questa volta già debitamente avvinazzato, si sedette al desco. Visto e considerato che la Nazionale aveva vinto inaspettatamente e che i giocatori continuavano il loro silenzio stampa, c’era il tempo per fare un bel baccanale a base di Paella Valenciana e vin tinto (come se ce ne fosse stato ancora bisogno).
Quando Gianmarco si sedette al tavolo del ristorante, la testa gli doleva come se l’avessero presa a martellate ed era già ubriaco. Appoggiò i gomiti sul tavolo e si premette le tempie con le palme delle mani. Intorno a lui, gli altri colleghi, conversavano animosamente, ma lui percepiva soltanto un indistinto brusio.
Qualcuno, al suo fianco gli rivolse una domanda, ma non riuscì ad afferrarne il significato, staccò le mani dalle tempie, diede una scrollata alla testa, poi riaprì gli occhi e guardò in faccia chi gli aveva parlato:
-Ti ho chiesto se vuoi mangiare qualcosa, oppure per questa sera, preferisci vomitare soltanto il vino e il Whisky che ti sei bevuto? –
Era Giovanni Arpino che gli si era seduto accanto ed ora lo osservava preoccupato.
-Mi capisci? Oppure sei già fuori combattimento? Santo cielo, è stata soltanto una partita di calcio, non certo la riconquista delle Falkland, se vuoi, possiamo ritornare in albergo –
Gianmarco stentava a riemergere dallo stato di torpore etilico nel quale era sprofondato fino a un attimo prima, alla fine sentì la sua stessa voce rispondere:
-No, perdiana! Ho pure fame, che c’è di buono da mangiare? Prima però, voglio fare un ultimo brindisi alla salute di Menotti e di Maradona, e già che ci sono, anche un altro brindisi in onore del generale Galtieri… e di tutti quelli che sono morti alle Falkland – poi, all’improvviso, sentì che qualcosa, nel suo stomaco, si ribellava, si alzò di colpo e domandò: – Dov’è il bagno? –
Arpino, capì subito la situazione: lo prese sotto un’ascella e, quasi di peso, lo trasportò fuori del locale, verso il cortile interno. Lì si trovavano, in un angolo di quel cortile, alcuni sgabuzzini che fungevano da WC; Gianmarco si fiondò in uno di questi. Quando ne uscì, era fradicio di sudore, ma, finalmente, sobrio e…alleggerito. Come Arpino prevedeva aveva vomitato soltanto liquidi: tutti gli alcolici che s’era bevuto. Ora poteva di nuovo riempirsi lo stomaco, con qualcosa di più solido.
Naturalmente, dopo quella sbornia e soprattutto, dopo le conseguenze della medesima, a Gianmarco non era rimasto un grande appetito, tuttavia si degnò di assaggiare un po’ di quella paella, di bere qualche bicchiere d'acqua minerale (tra gli sfottò di Brera e soci) e, nonostante gli fosse rimasta una certa qual nausea, si sforzò di partecipare ai commenti sulla partita testé conclusa.
-Decisamente, quest’anno agli Argentini non ne va bene una! Chissà con il Brasile come si metterà, ma se tanto mi dà tanto… - osservò un cronista della “Gazzetta dello Sport”.
-A ben guardare, con il senno di poi, ci saremmo dovuti accorgere molto prima che le cose per l’Argentina si sarebbero messe maluccio; avete presente la partita d’esordio contro il Belgio? –
-Il fatto è che nessuno s’aspettava una resurrezione così clamorosa della nostra nazionale -
-Ma quale resurrezione! Siamo andati a segnare con due difensori. Paolo Rossi, non so se ve ne siate accorti, è l’ombra di se stesso, certamente non è più quello dei mondiali d’Argentina, dopo la storia del calcio-scommesse –
-Dopotutto, anche lui ha rischiato di finire in galera! –
-Basta, basta!– sentenziò Brera – Finiamola una volta per tutte con questa storia del calcio-scommesse, ci siamo fatti ridere dietro da mezzo mondo –
Subito dopo, il grande Gianni, imposto il silenzio a tutti gli astanti, cercò di fare una sintesi di quanto s’era detto fino a quel momento.
-Signori, a costo di ripetermi fino alla nausea: la Nazionale che ci siamo portati qui, in terra iberica, è una squadra di broccoletti, ma il CT che l’accompagna, sa il fatto suo… ha semplicemente impedito alle altre squadre di giocare, ottenendo un risultato fino ad ora abbastanza incoraggiante. Vi ricordo ancora una volta, che il materiale umano a sua disposizione è ben poca cosa – poi, prevenendo le osservazioni di quasi tutti: - Sì, lo so, la Polonia, il Perù ed il Camerun erano, o perlomeno, sono sembrate, squadre modeste, modesta quindi è stata la prestazione della nostra squadra, quando le ha incontrate. E’ bastato però, che i nostri giocassero contro qualcuno più titolato perché il gioco, anzi, il controgioco del nostro undici, ne risultasse, di conseguenza, esaltato –
Era la sua solita teoria “Vichiana”, dei corsi e ricorsi. In questo caso, del gioco che esalta e moltiplica il controgioco degli avversari e viceversa. Gianmarco era entrato in quella sala ubriaco e confuso, ora, era un po’ meno ubriaco e molto più confuso. Per rischiararsi del tutto le idee, prese la parola.
-Ma siamo sicuri, amici e colleghi, che il gruppo “Uno”, quelli di Vigo, fosse popolato da schiappe, così come si era creduto fino a qualche tempo fa? –
-Che vuoi dire? – domandò un collega.
-Guardiamo ai risultati: la Polonia, che ha incominciato il mondiale tremando contro di noi, ha poi stracciato il Belgio, che, a sua volta, aveva battuto l’Argentina. Il Perù, contro di noi ha pareggiato, ma, sempre dalla Polonia, si è buscato cinque pappine cinque. Dell’Argentina contro l’Italia, non è il caso di parlarne. Concludendo, direi che fino ad ora è come se i risultati fossero stati scritti dalle stelle –
-Tra un po’ scomoderai anche il Mago di Oz! – esclamò lo stesso collega di poco prima.
-Eh no, cari ragazzi! – intervenne di nuovo Brera, questa volta in vena lirica - Il calcio è un’arte, si gioca in mille e un modi diversi. Se fosse una scienza esatta, io a quest’ora mi sarei dedicato alle partite doppie e farei il direttore di banca, non certo il giornalista sportivo –
-Meno male! – commentò sottovoce Arpino – Sennò, chissà quanti crack bancari avrebbe provocato, altro che Sindona o Calvi –
Gianmarco ridacchiò, poi, guardando finalmente il piatto che aveva sotto il naso, cominciò a dedicarsi alla sua “paella”.

Le “ramblas” di Barcellona erano, al solito, preda della tifoseria brasiliana.
-Non la finiscono mai! – esclamò Gianmarco esasperato.
-Capirai! – commentò Arpino, mentre camminava al suo fianco, osservando distrattamente, ora le vetrine, ora le ragazzone brasiliane che si dimenavano a ritmo di samba – Ieri hanno liquidato l’Argentina con una facilità irridente. Dopodomani toccherà a noi. A proposito, sai che hanno detto della nostra squadra? –
-No, che hanno detto? –
-Venite, venite a vedere l’allenamento del Brasile contro l’Italia, si preparano per la finale di Madrid –
-Così per loro saremmo degli “sparring partner”? –
-Proprio così. Ma hai visto come giocano? Attaccano e vanno a rete con una facilità addirittura strafottente, che a noi, poveri proletari della “pelota”, come direbbe Brera, fa quasi schifo –
-Le partite del Brasile in questi mondiali, le ho viste quasi tutte in filmati registrati; capirai, alle Falkland avevo ben altro da pensare. In effetti, fanno paura, sono capacissimi di non farci toccare palla per interi settori del campo, fossi Bearzot… -
-Se tu o io fossimo Bearzot, cominceremmo con il prendere una bella dose di bromuro. Santo cielo! Quella di oggi non è stata una conferenza stampa, bensì una colluttazione, per poco Bearzot non saltava addosso a Lino Cascioli, l’inviato del “Messaggero” –
-Non ho avuto il piacere di seguire la conferenza stampa di Bearzot – rispose Gianmarco – Non conosco nessuno dei giocatori della Nazionale, purtroppo manco dall’Italia da qualche anno. Per quanto riguarda il calcio, so soltanto che il mio Milan, quest’anno è finito in serie “B” –
-E gli sta bene! – commentò acido Arpino (Juventino sfegatato) – So che a tuo fratello è stata offerta la presidenza della squadra. Ora come ora sarebbe un affare, un'ex squadra blasonata a prezzi di saldo –
-Me ne ha parlato, ma ha già rifiutato. Ha fatto questa considerazione: se diventa presidente del Milan in questo momento, quando la sua rete televisiva è ancora in fase sperimentale, i possibili inserzionisti tifosi dell’Inter o di altre squadre, gliela farebbero pagare cara. Tra qualche anno, quando si sarà affermato anche in campo televisivo, forse… -
-Peccato! Con Roberto Demattei, presidente del Milan… La Juve avrebbe sicuramente, per parecchi anni, un concorrente in meno per lo scudetto, oltre all’immenso piacere di vedere i milanisti, sempre per parecchi anni, disputare i loro campionati in serie “B”–
-Piemontese di m….! – commentò tra il serio ed il faceto Gianmarco.
Avevano raggiunto l’albergo, Arpino lo salutò, andava in camera a scrivere l'articolo di commento alla conferenza stampa di quel pomeriggio. Come cronista-turista, Gianmarco si diresse invece nella camera di Gianni Brera. Con quegli indecenti commenti sul Milan, Arpino gli aveva proprio rotto le scatole! Meglio andare a farsi consolare dal vecchio Gianni, lui avrebbe saputo trovare le parole giuste, anche se apparteneva alla concorrenza.
La camera del “capo-cosca” era la 427. Come tutte le belve, Gianni Brera non viveva in una camera, seppur d’albergo, ma in un antro. Bisognava infatti sapere che, quando lavorava, teneva chiuse le finestre, le serrande e l’aria condizionata. Seduto al tavolino di lavoro, al lume dell’abat-jour del comodino, il vecchio leone stava riflettendo sulla prossima partita della Nazionale. Nella stanza, naturalmente, un caldo infernale, con i quaranta gradi di quell’estate catalana! Gianni Brera era curvo a guardare fisso un grande foglio bianco, nella testa giocava la sua partita, con i calciatori già disposti e le marcature assegnate. Era in sua compagnia, a rispettosa distanza, il collega Mario Sconcerti, della “Repubblica” anch’esso. Gli aveva appena riferito dello scontro tra Bearzot ed i giornalisti: Brera, alzò le spalle e ritornò al lavoro.
Questa volta però non era facile. Bearzot aveva detto che adottava una marcatura mista, uomo – zona; infatti, la squadra brasiliana, giocava come nessuno al mondo ed aveva schemi infiniti, così pure il talento individuale dei suoi giocatori. Diceva Brera:
-E’ impensabile marcare solo a uomo: si rischierebbe di trovare un terzino a fare il centravanti – Pensò per un momento come continuare – Ragazzi! Siamo sinceri, tra noi e loro ci sono quattro pallini. Vale a dire che per me può anche finire cinque a uno –
I due allievi, annuirono all’affermazione del maestro.
-Ma il calcio è un mistero agonistico ed i brasiliani sono tonti. Come tutti i negri, hanno nei confronti dei bianchi un antichissimo “inferiority complex”. Questo li condannerà a voler strafare, anche se gli basterà un pareggio –
-Forse, come suggerisce Arpino, se si mettessero delle mine anticarro davanti alla porta di Zoff, qualche rete potremmo anche evitarcela – si intromise Gianmarco, con quella battutina particolarmente idiota; del resto, Brera aveva fatto delle affermazioni un po’ razziste.
Brera lo guardò:
-Reduce di guerra del cavolo! –
Gianmarco era ammutolito, si alzò e ritornò alla sua stanza, dopo aver dato la buonanotte ai colleghi.
Dalla strada saliva il rumore del samba, ormai non c’era più scampo, Gianmarco sperava di tutto cuore che i brasiliani fossero davvero tonti, come diceva Brera, di sicuro erano ossessionanti. Il samba era ormai diventato per Barcellona, come un’epidemia, aveva invaso tutto.

Stadio "Sarria", Lunedì 5 Luglio 1982. Un mese prima, Gianmarco sguazzava tra le zolle gelate delle Falkland, attento alle fucilate dei cecchini od ai colpi di mortaio. Adesso, percorreva l’ultimo chilometro che lo separava dallo stadio, a piedi, perché la polizia aveva posto degli sbarramenti anti-terrorismo. Come gli altri colleghi, sbuffava e sudava, trasportando fogli e macchine da scrivere.
All’interno dello stadio ribolliva l’incredibile tifo della “torcida”, molto meglio organizzato di quello della rappresentativa azzurra. Però gli italiani s’erano moltiplicati per incanto, erano davvero tanti; per la cronaca, circa ventimila. Certo, in quel momento, nel mondo, si stavano combattendo almeno tre guerre. Argentini e inglesi stavano ancora seppellendo i loro morti, su Beirut fioccavano le cannonate israeliane, iraniani ed irakeni continuavano a massacrarsi, i russi seguitavano a falciare gli afgani. Probabilmente, pensò Gianmarco, si faceva un po’ di storia anche in quell’angolo di Barcellona.
Diciassette e quindici, palla al centro. Alti belli e forti i brasiliani Zico, Falcao, Toninho Cerezo, Oscar, Luizinho, Junior ed infine Eder, che sembrava una statua di Fidia, tanto era perfetto, e soprattutto, dotato d’un tiro di potenza incredibile. Comandava tutti Socrates, così soprannominato, perché era il saggio della compagine, la figura carismatica.
L’arbitro stava per fischiare quando Socrates si voltò e con lo sguardo incoraggiò i compagni.
-Pronti? Pronti! –
Loro saranno stati anche pronti, ma gli azzurri furono senz’altro più furbi. Al quarto minuto, Paolo Rossi, su imbeccata di Tardelli, si smarcò e tirò da una posizione magnifica… sbucciò la palla con il sinistro.
-Nooo! – esclamarono tutti gli italiani.
-Però c’era! – fu il commento di Brera.
Accidenti! Il vecchio Gianni aveva avuto ragione ancora una volta, la difesa brasiliana si lasciava perforare con relativa facilità. Un minuto dopo accadeva l’incredibile: Cabrini, dallo stesso angolo in cui, un attimo prima Tardelli aveva crossato, calciava al centro, facendo svolgere al pallone una dolce, ma micidiale parabola. I brasiliani la seguivano, come ipnotizzati… Errore! Arrivava Rossi che incornava al volo il pallone e lo mandava in rete. Gol!
Il tifo brasiliano ammutoliva di colpo, quello italiano era incredulo. Il risultato, nello stadio scese per un istante un silenzio quasi innaturale, subito dopo il gol.
-Ora ci prenderanno le misure – esclamò qualcuno della tribuna stampa.
-Si, e ci faranno un mazzo così, ma come si permettono? –
-No ragazzi – esclamò Brera – Questa volta c’è Rossi –
Infatti, la reazione dei brasiliani fu rabbiosa, il tifo infuocato ed anche il caldo, facevano comunque la loro parte. Gianmarco si decise a guardare le marcature. Era davvero un misto uomo-zona, così come aveva previsto Brera: Gentile aveva preso in consegna Zico e lo azzannava da par suo. Oriali su Eder, Collovati su Serginho, tutti gli altri pendolavano, aspettando sulle loro fasce, quello che tra i brasiliani, riusciva a penetrare lungo l’out sinistro. Funzionava tutto bene, fino a quel momento, ma non poteva durare.
All’ottavo minuto, l’artiglieria brasiliana riprendeva a tambureggiare. Calcio di punizione di Eder, respinto dalla barriera, all’undicesimo, Zico e Serginho irrompevano in area. Serginho era solo davanti a Zoff, ma il tiro del centravanti risultò telefonato e Zoff non ebbe difficoltà a respingere, subito dopo, un cross di Leandro per Socrates: Zoff indietreggiava e bloccava a filo di traversa.
Il pareggio era nell’aria, al dodicesimo, Zico dribblava Gentile e passava a Socrates, quest'ultimo convergeva verso il centro dell’area di rigore, fintava il tiro sulla sinistra, metteva a sedere Zoff e lo infilava sulla destra. Gol, pareggio del Brasile.
-E’ stato bello, ma è durato poco – commentò Arpino.
Ma quegli azzurri non si smontavano: al venticinquesimo, combinavano un bel pasticcio in difesa Luisinho e Oscar: secondo errore. Si inseriva come una folgore Paolo Rossi, rubava la palla ai difensori brasiliani e fulminava Valdir Peres, che stava venendogli incontro.
Si ammosciavano le bandiere verdi e gialle dei brasiliani, tripudiavano i tricolori.
-Adesso possiamo spudoratamente godere… con parsimonia – esclamava Sconcerti.
Ci sarà anche stato da godere, ma i brasiliani avevano ripreso la samba e la stavano facendo ballare anche all’Italia: scambi in area rocamboleschi, tiri che sembravano cannonate. Al trentatreesimo, Collovati cadeva e si faceva male, sembrava grave, era sostituito dal diciottenne Bergomi. Sarebbe stato all’altezza? Certo che lo era, picchiava anche lui come gli altri. Al quarantesimo, su corner di Eder, Zoff respingeva di pugno, provvidenzialmente. Fine del primo tempo: come riemergere da una sauna.
Gianmarco si volse verso Brera, che scriveva e ridacchiava.
-Calma ragazzi – li esortò Arpino – Un gol loro e noi torniamo a casa –
-Sì ma venderemo cara la pelle –
-No, siamo sempre appesi ad un filo –
Al rientro delle squadre, si accorsero che i brasiliani non sembravano neppure in svantaggio. Al secondo minuto Falcao mandò la palla a sfiorare il palo sulla destra, al nono, punizione di Zico che con un destro liftato, spedì fuori. Al decimo, Zico liberò in profondità Cerezo, ma Zoff fece scudo con il proprio corpo. Al quindicesimo, fallo di Gentile, punizione dal limite, ma la bomba di Eder finì tra le braccia di Zoff.
Il Brasile non si arrese, sornioni come gatti con il topo, i “carioca” continuarono ad attaccare ballando. Al ventitreesimo, Italia di nuovo KO: da Junior a Falcao, Cerezo si allargò, portandosi via una fetta della difesa italiana. A questo punto, si aprì un corridoio libero, di non più di un metro di larghezza tra Falcao e Zoff, in quello stretto corridoio, con un tempismo agghiacciante, il brasiliano della Roma sparò una fucilata che lasciò stecchito il portiere azzurro. Due a due: l’Italia era di nuovo fuori dai mondiali.
-E’ inutile sperare, siamo a venti minuti dalla fine, questi, adesso ci fanno sparire la palla e… buonanotte! –
Arpino, con flemma torinese, stava già impartendo l’estrema unzione a tutta la Nazionale. Gianmarco era tentato di lasciare lo stadio, per preservarsi le coronarie. Al ventinovesimo, Cerezo metteva in mezzo, Zoff si lanciava, il pallone gli scivolava tra le mani, Paulo Isidoro stava per sopraggiungere ed insaccare, ma il vecchio Dino riusciva a recuperare la palla all’ultimo istante: roba da infarto.
Un minuto dopo, il momento topico: Tardelli crossava per Rossi e Graziani, in mezzo ad una selva di brasiliani. Ma chi era… ma di chi era quella maglia azzurra a mezzo metro dalla porta avversaria, chi era ad agganciare il pallone di piatto destro ed a buttarlo dentro? Era Paolo Rossi che segnava il tre a due per l’Italia. Al “Sarria” ed un po’ dovunque nel mondo, esplodeva un urlo corale, senza confini naturali.
-Orcocàn!- Esclamò Brera, a mo’ d’incoraggiamento - Mi sa che dovrò vestirmi davvero da frate e partecipare alla processione dei penitenti a San Zenone, il mio paese, per aver, dentro di me, dubitato dell’intercessione miracolosa della “Madonna del Tibidabo”, cui avevo raccomandato la nazionale: l’ho promesso ai miei lettori di “Repubblica” semmai gli azzurri avessero vinto –
Non era ancora finita. Antognoni ricevette la palla, lo videro fuggire verso il centro, tirare e segnare per la quarta volta… Ma come? No! Fuorigioco, gol annullato.
-Ma dove l’avrà visto il fuorigioco?…Non morire, non morire, piccolo Demattei, hai tutta una vita davanti. A casa tua ci sono una madre, un padre e due fratelli che ti aspettano trepidanti. A Londra una principessa bionda con gli occhi blu, che vorrebbe rivederti… forse! –
Gianmarco sedette di nuovo sulle gradinate. Intorno a lui i colleghi erano in piedi e gli ostruivano la visuale, ma lui non aveva più il coraggio di guardare. Voleva andare al telefono, chiamare Milano e dettare in diretta le ultime righe del pezzo. Ma la partita non voleva finire, l'arbitro recuperava minuti interminabili. Doveva vedersi pure questi.
Si rialzò e trovò il coraggio di guardarsi quegli ultimi sgoccioli di Italia-Brasile: ne valse la pena. Cerezo, colpo di testa, parata di Zoff. Buon Dio! E’ finita, l’avete sentito tutti il triplice fischio dell’arbitro: roba da non credere.
-Abbiamo vinto contro tutti i pronostici, contro gli uccelli del malaugurio. Raccontatelo ai vostri figli ed ai vostri nipoti, quando vorrete farli divertire ed alla fine dite loro che io c’ero, e sono stato felice, come poche altre volte nella vita. In questi mesi ho visto terrorismo, rapimenti, guerre, morte, distruzioni e dolori, altre volte li vedrò, purtroppo. Ma questo momento, questo “magic moment”, come avrebbe detto Perry Como, me lo voglio proprio gustare, perché sento che difficilmente si ripeterà un’altra volta. –
Gianmarco si fermò un momento per tirare il fiato.
-Demattei, dobbiamo scrivere anche questo? –
La voce del capocronista sportivo da Milano, lo riscosse dallo stato di esaltazione in cui si trovava. Come gli altri colleghi di tutto il mondo, s’era precipitato verso le cabine telefoniche, ne aveva trovata una miracolosamente libera ed ora, dettava il pezzo alla redazione del “Giornale”.
-Demattei, calma, la partita l’abbiamo vista anche noi per televisione. Ti assicuriamo che, in questo momento, per le vie di Milano e di tutta Italia, sta succedendo il finimondo: clacson, bandiere, canti e balli, se ora ti ci metti pure tu…-
-Ragazzi, scrivete tutto quello che vi ho dettato. Se poi, Montanelli penserà che ho esagerato, potrà sempre licenziarmi, ma prima stampate quello che ho detto! –
-Va bene, va bene… Un momento… -
Seguì una breve pausa all’altro capo del filo: probabilmente qualcuno gli aveva lasciato un messaggio per quando avesse chiamato. Non era proprio il momento.
-Ho qui, un recapito telefonico, prendi nota, è di Londra, non so chi sia, me l’ha passato la segretaria di Montanelli. Quando torni in albergo telefona al……., se ti aggrada. Pare si tratti di roba urgente. Ciao Demattei e richiamaci quando sarai un po’ più sobrio –
Il giornalista si annotò il numero. Chi poteva essere, Severgnini? Non era quello il numero, né dell’ufficio di Londra né della sua abitazione di Londra. Forse Andrew Morton? Ma era già ritornato? Davvero non s’immaginava chi potesse cercarlo in quel momento. Chiuse il taccuino e l’infilò in tasca. Avrebbe chiamato quella sera in albergo, dopo aver fatto bisboccia, naturalmente.

Quella sera fu decisamente più castigato; non bevve alcolici, un pasto leggero, una bella passeggiata lungo le “ramblas”, a godersi lo spettacolo dei tifosi italiani. Niente più samba, niente più magliette gialle, parecchi bivacchi di tifosi lombardi, romani, napoletani, siciliani.
Alla conferenza stampa di Bearzot, nell’albergo degli azzurri, il friulano di ferro si prese le sue belle soddisfazioni. Gli occhi mandavano lampi, sfotteva e stilettava tutti. Sentiva di essere ormai entrato nella leggenda. Ancora un piccolo sforzo ed avrebbe potuto emulare Vittorio Pozzo. Continuava invece il silenzio stampa dei giocatori. Gianmarco non ne conosceva nessuno e nessuno di loro conosceva lui. Passava tra di loro come se fosse stato trasparente, ma con Bearzot fu più fortunato. Vecchio amico di Montanelli, l’allenatore della Nazionale si avvicinò a lui e ad Arpino, chiedendo loro come andassero le vendite del “Giornale”.
-Potrebbero andare meglio, ma non siamo molto simpatici ai politici –
-Neppure io, a quanto mi hanno riferito – rispose Bearzot – la sua è una faccia nuova da queste parti, come si chiama? –
-Gianmarco Demattei e non sono un cronista sportivo. Fino al mese scorso ho scritto per il “Giornale” di tutt’altre partite, sa… le Falkland –
-Oddio! Non sarà mica parente di quello della televisione? –
-Sono il fratello. Corrispondente da Londra, Montanelli mi ha mandato qui per divertirmi e dare una mano agli altri cronisti del “Giornale” – poi, aggiunse con una punta di cattiveria – Sono venuto a Barcellona subito dopo la partita con il Camerun. Montanelli pensava che ci saremmo rimasti ancora poco… invece dovremo allungare la nota spese –
Bearzot rise, gli batté una mano sulla spalla e dopo averlo salutato ritornò tra i suoi "eroi". Era il suo momento, non voleva lasciarselo sfuggire.
Gianmarco guardò all’orologio, erano quasi le dieci. Si rivolse ad Arpino.
-Qui sono quasi un pesce fuor d’acqua, torno in albergo per telefonare l’articolo sulla conferenza stampa –
-D’accordo, io vedo se riesco a strappare a Bearzot un'altra dichiarazione di guerra o qualche invettiva un po’ pepata. Buona notte e sogni d’oro – gli rispose Arpino congedandolo
Gianmarco, mentre cercava un taxi che l’avesse condotto al “Majestic”, dov’erano alloggiati quasi tutti i giornalisti italiani, notò che le colline intorno a Barcellona stavano bruciando, era da un secolo che sulla “Costa Brava” non si toccavano i quaranta gradi, scoppiavano incendi dappertutto. La strada che portava al centro di Barcellona era invasa dal fumo, l’aria era irrespirabile, avrebbero tutti dormito male, quella notte.
Ritornato nella sua camera, Gianmarco, dopo aver rivisto gli appunti della conferenza stampa, si accorse di non avere nulla da aggiungere a quanto aveva dettato al giornale subito dopo la partita. Del resto, tra meno di quindici minuti, il “Giornale” sarebbe andato in macchina, quindi… rimandò tutto al giorno dopo. Si ricordò del numero telefonico dettatogli dal capocronista, stette qualche secondo a guardare quel numero scritto sul suo taccuino, poi, preso dalla curiosità, si risolse a chiamarlo.
Diede il numero al centralino dell’albergo. Aspettando che gli passassero la comunicazione, si distese vestito, anche lui, quella notte, avrebbe fatto fatica a addormentarsi per via del caldo e del fumo. Squillò il telefono, il centralino gli passava Londra.
-Pronto? –
-Hallo, Ghiamma, how are you? –
Una voce di donna, dall’altro capo del filo, una voce che ricordava vagamente, ma che, in quel momento, non riusciva a riconoscere.
-Mi perdoni signora, ma… non riesco a… -
-E’ passato qualche anno, ce n’è voluto di tempo per riuscire a rintracciarti. Tre mesi fa avevo chiamato il signor Morton per avere tue notizie, prima che partiste per le Falkland – la voce della donna si fece più insinuante – Spero che il signor Morton te ne abbia parlato –
Gianmarco stentò a comprendere, poi la verità cominciò a farsi strada nella sua mente, possibile? Un fantasma dal passato, un fantasma biondo, con gli occhi azzurri, alto un metro e ottantatré e… con una corona in testa.
-Non riconosci la mia voce, Ghiamma? – continuò la donna al telefono - Sono Diana –
-Mi scusi altezza! Ehm… cioè principessa, ma … come diceva lei, è passato tanto tempo –
-Altezza, come dite voi in Italia, lo dici a tua sorella. Una volta mi chiamavi Diana.
-Perché mi hai cercato? – domandò il giornalista, passando ad un tono più confidenziale.
-Tu i giornali li scrivi, ma, evidentemente, non li leggi. A proposito! Che mi sai dire del “Festival della mucca” e della “Madonna dei collant”? Hai titolato così, se non vado errato, i tuoi ultimi servizi su di me –
-Sei ancora offesa per questo? –
-Per niente, volevo soltanto chiederti se eri informato del fatto che sono diventata mamma dal 21 Giugno –
-Principessa, il 21 Giugno ero ancora alle Falkland, avvolto in un sacco a pelo, intento a schivare i proiettili di mortaio degli argentini, oppure a cercare un passaggio sul primo aereo in partenza per l’Europa. Non avevo né il tempo, né il modo di occuparmi di nascite regali, foss’anche la nascita di mio figlio, se mai ne avessi avuto uno! –
-So anche questo – rispose la principessa – Negli ultimi tempi ti sei dato parecchio da fare, ho fatto fatica a seguirti. A proposito di Falkland, hai avuto paura? –
-Dal momento che questa telefonata sarà sicuramente intercettata dal servizio segreto di Sua Maestà, non ti dico cos’abbia provato, ma ti posso assicurare che quello della paura è stato il problema minore. Anch'io ne ho avuta, come tutti, non solo paura, principessa, non solo paura, anche di peggio! –
Avrebbe voluto parlare di ribrezzo, di pietà, di disprezzo. Avrebbe voluto dirle delle mille e mille sofferenze dei soldati e dei civili, della faciloneria dei comandi britannici, della superficialità con cui il governo di Sua Maestà aveva gestito le operazioni militari e, per contro, dell’accuratezza con cui, lo stesso governo aveva celato le notizie che, in qualche modo, avessero rivelato le troppe magagne di quell’operazione. Infine, del trattamento riservato agli argentini, i quali, in quanto aggressori e sconfitti, non avevano diritto ad alcuna difesa d’ufficio.
-Non vuoi dirmi altro? –
-Non posso, principessa – rispose freddo Gianmarco.
-Capisco… -
-No, non puoi capire Diana, non puoi capire perché niente hai visto. Mi hai cercato per chiedermi delle Falkland? Altri giornalisti inglesi sapranno farlo molto meglio di me –
-Non ti ho chiamato per le Falkland, vedo che la cosa ti ha segnato profondamente. Volevo chiederti se il 4 Agosto vorrai presenziare alla festa per il battesimo di William, soltanto questo –
Gianmarco rimase un po’ interdetto. Certo che avrebbe voluto presenziare ma:
-A quale titolo? –
-Come giornalista. Per una volta scriverai di battesimi e non di guerre e di morti ammazzati; poi, volevo ritrovare qualche vecchio amico. Ti aspetto a Londra per il quattro d'agosto. Ciao Ghiamma, avrai presto mie notizie.
Diana non aspettò la risposta, riattaccò subito. Evidentemente si stava ormai abituando al ruolo di futura regina:
-Ogni desiderio è un ordine! –
Gianmarco agitò tra le mani la cornetta del telefono ormai muta. Certo che voleva rivederla, non riusciva ancora ad immaginarsela nel suo nuovo ruolo. Voleva rivederla? Desiderava rivederla! Come sarebbe stata dal vero la Principessa di Galles? Simile alla ragazzona che aveva conosciuto anni prima o qualcun’altra?
Queste domande ed altre ancora, si agitavano nella testa del giornalista, ma Gianmarco ormai sapeva che mai avrebbe ottenuto una qualunque risposta, se non avesse rivisto Diana.
Ormai non gl’importava più nulla del caldo e dell’odore di fumo per gli incendi sulle alture, Gianmarco s’infilò sotto le lenzuola. Spense la luce, chiuse gli occhi e pensò che sarebbe stata la cosa più bella del mondo, rivedere Diana.

La partita di semifinale con la Polonia fu disputata l’8 Luglio al “Nou Camp” di Barcellona. Fu un incontro senza storie, l’Italia era nettamente più forte. Su cross di Antognoni, Paolo Rossi ebbe uno dei suoi soliti guizzi e mise la palla in rete. Per tutto il primo tempo, gli azzurri furono più occupati a scansare i calcioni che erano loro elargiti con solerte generosità dai polacchi, che a difendersi dalle loro offensive. Ad un quarto d’ora dalla fine, l’epilogo: Bruno Conti, sulla sinistra, fece decollare un “assist” per la testa di Rossi. L’ex fantasma dell’attacco azzurro, s’inginocchiò a cogliere quel dono dal cielo ed a mezzo metro dalla porta avversaria insaccò. Due a zero. A quel punto, mentre stava saltando di gioia, Gianmarco vide Gianni Brera alzarsi con fare solenne dalla sua poltroncina e, per dirla con parole sue:
“… Con gesto patriottico fino al soddisfatto dileggio, ho urlato:
-Teh, scarponi de l’ostia, ciappè su e porté a cà –
Intanto il mio palmo mancino batteva sulla doccia del gomito destro”.

Il resto fu “melina”, anche se di gran lusso: sette passaggi di prima ed invito finale per un affondo a Rossi. Lo stadio ne fu definitivamente conquistato. Gli spagnoli, fino a quel momento neutrali, si sgolavano per noi.
-Ed ora, vado a prendermi una ciucca di quelle memorabili!– proclamò il solito Gianni Brera alla fine dalla partita.
Al solo pensiero dell’alcol, Gianmarco ebbe uno spasmo allo stomaco.
-Torno in albergo a dettare l’articolo – gridò ai colleghi già pronti a seguire Brera nelle sue libagioni.
Costoro gli risposero con un coro unanime di “vaff…”, ma Gianmarco fu irremovibile, voleva anche restare un po’ solo con sé stesso, voleva pensare a Diana.
In albergo, a causa dell’euforia dei colleghi stranieri, perse tempo per cercare una linea telefonica libera; peggio che alle Falkland; laggiù, perlomeno avevano a disposizione il centro di trasmissione della Royal Navy. Era appena riuscito ad agguantare un telefono, quando un inserviente venne a cercarlo.
-Senor Demattei, telefono –
Gianmarco abbandonò la postazione faticosamente conquistata e seguì l’inserviente fino ad un altro apparecchio: era Roberto.
-Ciao Giamma, bella partita eh? –
-Direi di sì, tutto sta a vedere chi dovremo affrontare per la finalissima, se Francia o Germania. Vedremo stasera. Tu che ne dici? –
-Non è proprio per la partita che ti ho chiamato; semmai, dopo, ti passerò il capo cronista sportivo. Sono qui alla redazione del “Giornale” – la sua voce si fece greve all’improvviso – Senti, tre giorni fa, subito dopo Italia-Brasile, tu hai ricevuto una telefonata… da una certa persona, che conosciamo entrambi – s’interruppe aspettando la sua reazione.
Gianmarco rimase senza fiato. Naturalmente, non s’illudeva che la telefonata a Diana potesse rimanere segreta, ma che addirittura suo fratello ne fosse venuto a conoscenza, era proprio il colmo!
-Mi ha soltanto invitato, come giornalista… -
-Al battesimo del figlio – concluse Roberto, evidentemente compiaciuto per la sua onniscienza – Secondo te, perché l’avrebbe fatto? –
-Non m’interessa sapere perché mi ha invitato. Il battesimo del futuro Re d’Inghilterra, non è precisamente un avvenimento che passi inosservato. Come giornalista, te lo ripeto, non intendo assolutamente perdere quest’occasione per… -
-…Per farci finire tutti in un mare di guai! – poi Roberto soggiunse – Stai attento, Giamma, di quella telefonata sono venuto a sapere soltanto questa mattina. Vedi, spero ti renda conto che anch’io sono in una situazione molto delicata: le televisioni che fanno concorrenza alla RAI, la storia della P2, non fare sciocchezze con quella donna, non scherzare con il fuoco –
-Ma io… -
-Lasciami finire, vai pure a quel battesimo, ma tieni le mani a posto e la lingua a freno. A quanto dicono, quella ragazza è senza cervello; dalla sera alla mattina si è trovata al centro dell’attenzione di tutti i ”media”, è diventata famosa, ammirata, desiderata e riverita. Si tratta quindi di una persona molto pericolosa. Te lo ripeto, stanne attento –
-Non mi hai detto niente per Dozier e le BR, non mi hai detto niente per la guerra alle Falkland ed ora… Roberto, non ti sembra di esagerare con la prudenza? Ma cosa vuoi che faccia il quattro di agosto, chi sono io per fare concorrenza … tu sai bene a chi! –
Sentì il fratello sospirare:
-Ricordati, ti chiami Demattei e non sei proprio da buttare via. Tra qualche anno, chiamarsi col nostro nome sarà un motivo d’orgoglio. Adesso però siamo ancora, come dire… sulla pista di rullaggio, mi sono spiegato? Se ci fregano ora…-
I fratelli tacquero entrambi per qualche secondo. Ognuno aspettava fosse l’altro a riprendere il discorso, alla fine, Gianmarco si decise:
-Sarò prudente e farò il giornalista, non certo il cicisbeo, ma un’intervista in esclusiva a… quella persona, perdìo! (stava per dire: perdiana), la devo proprio fare, ed ora, per favore, passami il capo cronisti sportivi. A proposito, per chi tiferai questa sera, nell’altra semifinale? –
Per i tedeschi – rispose serio Roberto – Se ce li troviamo contro in finale, vinciamo noi sicuramente, quelli sono ancora più fessi dei brasiliani. Ciao, Gianmarco, divertiti e lascia stare le teste coronate –

Stadio “Bernabeu”, Madrid, 11 Luglio 1982, tutti in piedi, suonano gli inni nazionali. Quando fu il momento dell’inno di Mameli, il disco s’incantò a metà. Come presagio, un cattivo presagio. Buona parte degli italiani presenti fecero le corna. Com’era stato previsto, Bearzot aveva scelto un bel catenaccio all’italiana, con il diciottenne Bergomi che marcava nientemeno che “Kalle” Rummenigge, anche se, quest’ultimo, in quei mondiali, non aveva brillato eccessivamente a causa di una noiosa pubalgia. Il celeberrimo asso nibelungo, non toccherà praticamente palla per tutta la partita, in attacco, sotto porta, non riuscirà neppure a girarsi in direzione di Zoff.
All’ottavo minuto fu messo fuori combattimento Graziani, in un contrasto con Briegel, volò letteralmente via. Fu sostituito da “Spillo” Altobelli. Il gioco divenne duro, furono azzoppati anche Bergomi e Gentile, quest’ultimo marcava Littbarski: l’uomo più insidioso dell’attacco tedesco, aveva un dribbling ubriacante.
A mano a mano che passavano i minuti, ci si accorgeva che gli azzurri stavano lentamente cedendo al centrocampo, si sentiva la mancanza di Antognoni, infortunato contro la Polonia, ma la Germania non era particolarmente pericolosa. Un pallonetto di Fischer, una conclusione nettamente fuori di Rummenigge, un altro tuffo di testa di Fischer. Gli italiani risposero con una tremenda fucilata di Bergomi al nono minuto, “fece la barba” alla traversa di Schumacher.
-Vedo bene soltanto Bruno Conti – mormorò perplesso Arpino – Dalle sue sgroppate sulla destra, potremmo avere qualche buona sorpresa. Per quanto riguarda il resto, i nostri mi sembrano un po’ imbastiti –
-I crucchi sono piuttosto stanchi, pesano loro ancora i supplementari contro la Francia –
Gianmarco ripensò alla rocambolesca semifinale di tre giorni prima, quando i transalpini vincevano tre a uno, alla fine del primo tempo supplementare. A quel punto i francesi furono presi da un’improvvisa paura di vincere, entrò Rummenigge per i tedeschi, con due gol uno in fila all’altro, riportò la partita in parità, costringendo la Francia ai rigori, la “prova di Dio”, come la chiamò il Presidente Mitterandt. Ai rigori i tedeschi sbagliarono un tiro con Stielike, i francesi ne sbagliarono due. In finale ci andò la Germania.
-Da mangiarsi i coglioni! – mormorò Gianmarco tra sé
-Che hai detto? – domandò Arpino, che in quella bolgia l’aveva appena sentito bofonchiare.
Gianmarco non rispose, con un tuffo al cuore, osservava Briegel che, con una sforbiciata, atterrava Bruno Conti in piena area di rigore. Era il 22°, l’arbitro brasiliano Coelho, decretava la massima punizione. Fu Cabrini l’incaricato del tiro. Un tifoso imbecille, fece esplodere un petardo davanti al dischetto del rigore, poco prima che il terzino azzurro scoccasse il tiro. Il risultato fu che Cabrini sbucciò la palla, ne venne fuori un tiraccio loffio ed il pallone finì sul fondo, alla sinistra di Schumacher.
-Che te vegna un cancher, Cabrini della Madonna! – Nel silenzio che accompagnò l’esecuzione del tiro, proveniente dal bel mezzo della tribuna stampa, echeggiò la “saracca” di Gianni Brera.
-Peggio di così, non poteva tirare; non doveva essere gol e non lo è stato – fu il lapidario commento di Mario Sconcerti.
-Vuol dire che vinceremo noi, senza bisogno dei rigori – esclamò serafico Gianmarco.
Tutti notarono Cabrini, chiotto chiotto, allontanarsi dall’area di rigore e ritornarsene in difesa. L’avranno accompagnato gli accidenti di milioni di italiani. Dovevano fischiagli parecchio le orecchie, probabilmente anche a sua moglie ed alla sua mamma. Gli azzurri, da quel momento, apparvero sotto shock, avrebbero potuto approfittarne i tedeschi, ma evidentemente, pure loro soffrivano di parecchie magagne. La partita si trascinò stancamente fino alla fine del primo tempo.
-Meno male! – esclamò Arpino – Adesso però, Bearzot dovrà cicchettarli per bene, hai notato che, subito dopo il rigore fallito, per un po’ sono andati quasi allo sbando? –
Gianmarco annuì, ma nel suo gioco mentale di cabale e superstizioni, si sentì improvvisamente e totalmente sicuro che avrebbero vinto. Insieme ad Arpino, scese accanto alla poltroncina di Brera, per confrontare con lui le opinioni.
-Sono convinto che la retrovia terrà, i tedeschi assumeranno, come loro solito, un forcing più fiducioso ed esalteranno puntualmente la dialettica del nostro controgioco - pontificava Brera, all’indirizzo dello scettico Arpino.
Si vedeva che la finale del mondiale, lo rendeva particolarmente forbito. Gianmarco gettò un’occhiata furtiva al foglio, infilato nel rullo della macchina da scrivere, che Brera, come tutti i giornalisti, teneva sulle ginocchia. C’era scritto:
“… La finale mondiale è una prova dura, acre, ammorbante, velenosa, per giorcar bene la quale bisogna appartenere ai fenomeni in terra. Io non ho mai visto brillarvi nemmeno Pelè. Il peso della responsabilità è tale che aggiunge i suoi gravami morali alle ruggini bio-chimiche della stanchezza. Stralunati automi obbediscono a schemi che hanno dentro come memorie tecniche e agonistiche. Non inventano più nulla, possono solo impedire che s’inventi.”
Perbacco! Era proprio in piena forma, il vecchio Gianni. Rassicurato, il giovane cronista trotterellò gaio e giulivo al suo posto in tribuna.
-Se vinciamo – pensò Gianmarco – stasera, per prima cosa, telefonerò a Diana e… che le dico? Le dico che la nazionale italiana è Campione del Mondo? Sai quanto le frega! –
Si diede mentalmente una calmata,
-A proposito, che cosa le regalerò per il battesimo? Chiederò consiglio a mia cognata Flavia; Roberto è meglio lasciarlo stare –
Con queste strane idee che gli baluginavano nel cervello, Gianmarco e qualche centinaio di milioni di spettatori, si accinsero quindi a seguire il secondo tempo della finale.
L’inizio della ripresa fu più tranquillo. Nonostante le attese, i tedeschi accennavano al forcing, ma erano in evidente difficoltà con i rientri. Lentamente, ma inesorabilmente, l’Italia stava prendendo le redini del gioco. Conti era una trottola inarrestabile, Briegel, faceva sempre più fatica a controllarlo; sarà proprio da lui che nasceranno tutte le azioni più pericolose della partita.
Al dodicesimo Conti passò a Oriali, quest’ultimo lasciò spiovere un lento cross in area di rigore. Altobelli si gettò a testa bassa per deviare la palla in rete, inutilmente, ma Altobelli, muovendosi, si portò dietro mezza difesa della Germania. A questo punto, scattarono quattro giocatori in direzione della palla: Foerster, Rossi, Cabrini ed il portiere Schumacher. La palla toccò terra e rimbalzò. Con uno scatto che ebbe del prodigioso, Rossi piantò in asso Cabrini e Foerster, li sopravanzò, colpì di testa la sfera un attimo prima che l’agguantasse Schumacher, dopodiché rovinò addosso a Foerster, che nel frattempo aveva cercato di agguantarlo. La palla, come al rallentatore, rotolò dentro la porta.
Prima di urlare, Gianmarco si stropicciò gli occhi:
-E’ dentro, è dentro….GOOOOOL! –
La folla, proprio come Gianmarco, tardò qualche istante a comprendere quello ch’era accaduto, poi, gradualmente, come in un crescendo Wagneriano, l’urlo divenne sempre più fragoroso. Il ghiaccio era rotto, ora s’incominciava a giocare davvero.
Paolo Rossi corse ai bordi del campo, agitando entrambi i pugni in aria, per raccogliere l’omaggio della folla. Gianmarco, per una strana e subitanea curiosità, gettò un’occhiata verso la tribuna VIP: Sandro Pertini era scattato in piedi e agitava anche lui i pugni verso il cielo, come un Paolo Rossi di ottantasei anni. Gianni Agnelli, reduce da una delle sue solite fratture sciistiche, agitava invece la stampella cui si appoggiava, rischiando così di darla in testa a Re Juan Carlos, che applaudiva compostamente, insieme alla Regina Sofia. L’unico alquanto ingrugnito (e ci mancava!), era il cancelliere tedesco Helmut Shmidt, il quale, di lì a qualche mese, dovrà subire un ribaltone da parte dei suoi alleati di governo. Tra le accuse che i suoi avversari gli lanceranno, ci sarà anche quella (assurda) di aver mandato ai mondiali una nazionale impreparata: quando ci si mette anche la politica!
-Uno a zero, ed è ancora il caso d’aver paura. Prima non avevi niente da perdere, ora devi temere per quel punto – fu il commento di Arpino.
Il tecnico tedesco, sostituì Dremler con Hrubesch, poi la Germania partì all’attacco a testa bassa, ma erano gli ultimi fuochi. Al ventitreesimo il secondo gol, di tipo “brasiliano”, cinque passaggi di prima ai limiti dell’area di rigore, alla fine la palla arrivò a Tardelli. L’azzurro allargò di un metro, poi lasciò partire una cannonata in controbalzo. Schumacher vide la palla soltanto quando toccò la rete.
La reazione di Tardelli dopo quel gol, è diventata ormai un filmato cult: uno stralunato essere umano, con gli occhi spiritati e la bocca spalancata, corre urlando verso i bordi del campo, agitando le braccia, come se stesse toccando i fili dell’alta tensione. Bearzot entra in campo per abbracciare il marcatore, e per poco, i poliziotti non lo arrestano.
Due minuti dopo, Rummenigge fu sostituito. Era un segno di resa?
Adesso quella Germania faceva quasi tenerezza. A nove minuti dalla fine, il solito Bruno Conti scese lungo la fascia destra, crossò verso il centro, aggancio di Altobelli, controllo, tocco e… terzo gol.
-Basta! Abbiate pietà – gridò Gianmarco – Ed ora che faccio? Telefono al giornale, telefono a casa, telefono a Londra? –domandò ad Arpino.
Con le lacrime agli occhi, il giornalista-scrittore si voltò verso di lui e:
-Telefona a chi ti pare, anzi, prendi il telefono e ficcatelo nel c…e non scocciarmi più! –
Ma sì! Al diavolo il giornale, bisogna godersela questa calda, indimenticabile serata madrilena, e che importava se a sette minuti dalla fine, Breitner, con una cannonata da fuori, segnò il gol della bandiera per i tedeschi.
Ma sì! Perdiamo un po’ di tempo. A due minuti dalla fine uscì Altobelli ed entrò il “barone” Causio. Fategli disputare almeno qualche minuto della finale dei Mondiali 1982, potrà raccontarlo ai suoi nipoti, che quella sera c’era anche lui su quel campo.
Ma sì! Cantiamo tutti in coro quella stupidissima canzoncina, che non vuol proprio dir niente, alè-oh-oh. Da allora, diventerà il grido di guerra ed il segno distintivo di tutti i tifosi italiani all’estero.
Ma sì! Eleggiamo Sandro Pertini, capo-tifoso della comitiva italiana: sappiamo tutti benissimo che il vecchio presidente, di calcio e di giocatori, non ne capisce niente, ma va bene lo stesso.
Per quella sera, solo per quella sera di Madrid, tutte le piazze d’Italia che si stavano riempiendo di folla, furono percorse da un sano brivido di follia, per un momento, che non si ripeterà più. Se si fosse potuto fermare il tempo a quel momento, se si fosse potuto viverlo più a lungo!
Al quarantacinquesimo, l’arbitro Coelho, afferrò il pallone, lo levò al cielo e fischiò tre volte. L’Italia era campione del mondo.


Negli spogliatoi azzurri, com’era prevedibile, non si poteva entrare, tutti blindati; poi, vigeva ancora il silenzio stampa. Di fare un’intervista a caldo quindi, neanche a parlarne: ci avrebbero pensato Arpino e Cantelli, più in confidenza con i giocatori di quanto non lo fosse stato lui. Gianmarco risalì i gradini che portavano in superficie. Quella sera aveva voglia di restare in pace, anche se, con la Fuorigrotta d’esportazione che in quel momento improvvisavano i tifosi italiani, sarebbe stato alquanto problematico. Madrid non era abbastanza grande per contenere tutto il loro entusiasmo.
Fermò un taxi e si fece ricondurre al suo albergo. Nella hall regnava un insolito silenzio, erano andati tutti a vedere la partita, ora festeggiavano. Camerieri e portieri, si complimentarono con lui per la vittoria, quasi che avesse giocato al posto di Paolo Rossi o di Tardelli. Spiegò loro di essere molto stanco e, per la prima volta da quando frequentava gli alberghi, chiese che gli portassero la cena in camera.
Nella sua stanza, chiamò Milano per dettare gli appunti sulla partita allo stenografo del “Giornale”. Fu un’impresa improba, perché lo stenografo era talmente eccitato, forse anche un tantino sbronzo, che dovette ripetere le frasi diverse volte, per essere sicuro che a Milano pubblicassero l’articolo come l’aveva scritto. Alla fine domandò:
-Che aria tira lì a Milano? –
-E come vuoi che tiri? C’è tutta Milano in piazza a fare casino, senti! –
Dal ricevitore arrivarono i rumori dei clacson delle auto che, evidentemente, stavano stipate tra Piazza Cordusio e Via Dante, attigue alla redazione del “Giornale”. Pensare che il centralino della redazione era insonorizzato.
-Allora, che ne dici Demattei? –
-Perfetto! Stasera la polizia avrà il suo daffare per mettere tutti a nanna. Domani, la nettezza urbana dovrà fare gli straordinari. Hai notizie dagli altri giornali? –
-La “Gazzetta dello Sport”, ha telefonato Gianpaolo Ormezzano, tirerà tre…tre milioni di copie –
-Cosa? Tre milioni, ma dove troveranno tanta carta? –
-Evidentemente s’erano già preparati –
-Beati loro! Tanti ne stampano ed altrettanti ne venderanno. OK, buonanotte e… non bere troppo questa sera –
Gianmarco riattaccò, poco dopo bussarono alla sua porta, era la cena. S’era raccomandato molta sobrietà, affidandosi, per il resto, ai cuochi dell’albergo, ma, evidentemente non gli avevano dato retta. “Calamares rellenos en su tinto”, “Lechòn del pais”, “Caracoles extremenos”, vini bianchi, rossi e dessert.
-Come farò a mangiarmi tutta questa roba? – domandò al cameriere che lo guardava soddisfatto.
-Con la forchetta e il coltello in mano, senor – rispose il cameriere. Dopo quella risposta lapalissiana lo lasciò alle prese con tutto quel ben di Dio.
Prima di attaccare con la cena, si ricordò un’altra cosa. Compose un altro numero di telefono, attese qualche istante, qualcuno sollevò la cornetta.
-Hallo? –
-Good evening, my Princess, how are you, Madam? –
Attese qualche istante, perché la persona, all’altro capo del filo riconoscesse la sua voce. Infatti, poco dopo Gianmarco sentì una risatina, poi, la stessa voce che canticchiava:
-Alè-oh-oh, alè-oh-oh –
Decisamente, quella che si stava concludendo, era una bellissima giornata; non solamente per lui, a giudicare dall’umore della principessa.


Ultima modifica di Gimand il Mar Nov 02, 2010 7:48 pm - modificato 1 volta.
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Nov 02, 2010 7:44 pm

Capitolo XI



L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil10


THE LONG AND WINDING ROAD





L’aria che tirava dalle parti dell’Hotel Majestic di Madrid era quella d’una smobilitazione festosa, ma non per tutti. Gazzettieri e giornalisti stavano facendo le valige per tornarsene in Italia, con tutto il seguito di polemiche, asti e veleni profusi dalle colonne dei loro giornali. Ultime telefonate, ultimi articoli da limare e ritoccare, ultimi rancori da sbollire, ultime torte in faccia da scambiarsi tra una testata e l’altra ed infine, ultimi “chicchirichì” di galletti e gallinacci della carta stampata. Una parte dei giornalisti italiani stava cercando di rivedere la propria posizione circa le previsioni fatte alla vigilia dei mondiali. Agl’inizi di giugno erano tutti sicuri che la Nazionale sarebbe stata buttata fuori al primo turno; il 12 luglio, il giorno dopo la conquista della coppa del mondo, tutti scrivevano: “L’avevamo detto!”.
La Nazionale era già partita alla volta di Roma, se l’era portata via al gran completo Sandro Pertini, con l’aereo presidenziale. A Madrid, buoni ultimi, restavano parecchi tifosi-turisti italiani a godersi quell’improvvisata vacanza, oltre alla retroguardia dei giornalisti.
Anche Gianmarco preparava i bagagli, come gli altri colleghi rimasti. Arpino e gli altri del “Giornale” s’erano già involati la mattina presto. Il suo soggiorno spagnolo era stato invece più breve e improvvisato. Era arrivato a campionati già iniziati, come un marziano in mezzo agli aborigeni d’Australia, sapeva di calcio poco più di un qualunque tifoso, eppure Montanelli l’aveva sbattuto in Spagna a descrivere le prodezze di quella che di lì a poco sarebbe diventata la “Banda Bearzot”.
Il vecchio toscanaccio, memore delle sue esperienze giovanili, era sempre stato convinto che il giornalista di razza, quello “con le palle”, salti fuori al momento giusto, in qualsiasi circostanza, magari mettendolo in mezzo ad una strada col taccuino in mano. La notizia sarebbe venuta a lui o, molto più probabilmente, lui sarebbe riuscito a scovare la notizia.
Era una teoria accettabile, ma, come in seguito Gianmarco avrebbe potuto costatare anche a sue spese, non sempre universalmente funzionale.
Il mondo dell’informazione era in quel periodo in piena evoluzione, anzi, in piena rivoluzione: televisioni private (suo fratello ne sapeva qualche cosa), satelliti, computer sempre più piccoli e sempre più economici, da lì a qualche anno sarebbero comparsi i telefonini cellulari, i note book, Internet, i CD che, in pochi dischetti, contenevano intere enciclopedie.
-Alla fine ed al principio di tutto ciò, vi è sempre un uomo – soleva ripetere Montanelli, quando gli proponevano qualche novità che a lui non garbava.
Era vero anche questo, ma un uomo, coadiuvato da questi mezzi, sarebbe diventato certamente molto diverso dal cronista armato di taccuino, fiuto e tanta buona volontà; questa era una figura cara e familiare al vecchio Indro, ma da allora incominciava a trasformarsi in modo radicale, assieme al concetto stesso d’informazione. Nulla sarebbe più stato come prima. Il progresso tecnico, di per sé è sempre stato neutro, tutto dipendeva e dipende da chi e come si usino le nuove tecnologie.
Facevano ridere coloro i quali, già allora, pretendevano di regolare ed imbrigliare le comunicazioni, come se fosse stato possibile rinchiudere, diceva un vecchio proverbio russo, il vento in un barile. La comunicazione abbatteva qualsiasi barriera, scavava tunnel virtuali sotto e sopra la terra, aggirava e superava qualsiasi ostacolo, si faceva beffe di leggi e regolamenti (tanto cari a coloro i quali, sotto sotto, volevano imbavagliarla). L’uomo è divenuto tale quando ha imparato a parlare, ad esprimersi; lo ha fatto, ovviamente, per comunicare con i suoi simili, poi ha inventato la scrittura, da allora sono nate le civiltà.
La televisione: ultimissima evoluzione tra i mezzi di comunicazione, il più indiscreto, forse anche il più volgare, ma i suoi critici non capivano che con le immagini diffuse non si poteva mentire o, quantomeno, non si poteva farlo più di tanto. Non si potevano più scambiare lucciole per lanterne, non si potevano più fissare confini o barriere. “Non vedo, non credo”, l’affermazione dell’apostolo Tommaso, nella dimensione fisica e materiale, è sempre stata ineccepibile. Il mondo della comunicazione, così come si prefigurava, poteva portare a credere in ciò che si vedeva, ma non era più possibile vedere ciò che si voleva far credere, com'era invece avvenuto nel passato più recente, soprattutto grazie anche alla collaborazione d’interessati pennivendoli, i quali, armati appunto “di taccuini e buona volontà”, erano capacissimi di raccontare cose mai viste né accadute (e di farle passar per vere).
Gli anni ottanta, quel decennio magico delle immagini, si sarebbe incaricato di rendere palese questa realtà. Suo fratello, lo aveva intuito già una decina d’anni prima, lui Gianmarco, incominciava a capirlo soltanto in quel momento, altri, la maggioranza degli addetti alla comunicazione, non c’erano nemmeno ancora arrivati.
Gianmarco si riscosse dai suoi pensieri: s’era disteso vestito sul letto, in fondo alla camera erano pronte le sue valige. Guardò l’orologio, era tempo d’incamminarsi verso l’aeroporto.
-Quanto sono andato lontano! – pensò – Sono partito dalla mia esperienza, maturata come cronista sportivo qui ai mondiali di calcio in Spagna, per giungere infine a disquisire sul concetto umano di comunicazione. Se fossi un conferenziere, a quest’ora gli ascoltatori sarebbero tutti addormentati -


-Caro Gianmarco, l’abbiamo capito, la cronaca sportiva, non è precisamente la tua specialità –
Era il commento di Montanelli agli articoli sui mondiali scritti da Gianmarco Demattei.
-Perché? –
-Perché, nei tuoi articoli, per tutta la durata dei mondiali, non hai fatto altro che citare detti, pensieri e concetti di Giovannino Brera: gran giornalista sportivo, il più grande d’Italia, il più grande del mondo, ma, con un grave difetto… -
-Quale? –
-Appartiene alla concorrenza, o no? Forse che scrive ancora sul “Giornale” –
-No, scrive su “Repubblica” – rispose Gianmarco con un mesto sospiro.
-Appunto! Quindi, delle due l’una: o chiedi anche tu di essere assunto nella redazione sportiva di “Repubblica”, oppure Brera ritorna a lavorare per noi… al posto tuo –
Montanelli si sporse dalla scrivania, sembrava il Duce mentre arringava la folla da Palazzo Venezia.
-Non ci sono alternative? – domandò Gianmarco, in preda al panico.
Montanelli, lo guardò compassionevole:
-Gianmarco, sveglia! Stavo solo scherzando. Come corrispondente da Londra sei stato e sei insostituibile, i tuoi servizi dalle Falkland poi… mi hanno fatto ritornare giovane di quarant’anni –
Gianmarco, per un momento, temette che Indro ricominciasse ad attaccare con la storia delle sue imprese giornalistiche degli anni trenta e quaranta, in quel caso si sarebbe dovuto preparare ad una lunga tiritera, che comunque, lui conosceva già a memoria. Per fortuna, il direttore seppe immediatamente porre un argine all’ondata di ricordi che stava per travolgere entrambi.
-Ti rimando a Londra. Severgnini se l’è cavata bene in quasi quattro mesi d'assenza del titolare, ma ora, poveretto, è sull’orlo di una crisi di nervi. Capirai, è arrivato lassù senza conoscere l’inglese – poi, con voce più insinuante – Sbaglio o tu, da qui ad agosto, hai degli impegni, diciamo così… mondano-principeschi? –
Gianmarco si limitò ad annuire.
-Vai con Dio! E stai attento, ragazzo –
Il giornalista si alzò lentamente dalla poltrona, poi, con tono altrettanto insinuante:
-Signor direttore, mi leva una curiosità? –
-Dimmi pure –
-E’ vero o no che lei, ai suoi tempi… con la Principessa di Piemonte, Maria José… -
-Fuori dei coglioni! – urlò Montanelli.

“C’è qualcosa di nuovo, oggi nel sole…”.
I primi versi della poesia di Giovanni Pascoli, si attagliavano perfettamente all’atmosfera della Londra di quell’estate. Gianmarco aveva lasciato l’Inghilterra agli inizi di aprile, ora vi ritornava a metà luglio, con la guerra delle Falkland ormai conclusa e passata agli archivi della storia. A Londra, di Giovanni Pascoli e del suo “morto giovinetto”, non sapevano nulla, né, pensava, nulla importava, ma per lui, giornalista italiano, che in quei giorni passeggiava per le vie del centro, era come se una gigantesca scarica d’adrenalina avesse percorso la capitale inglese da cima a fondo.
Le guerre, saranno anche brutte e cattive, ma combatterle e vincerle è senz’altro la cosa più bella del mondo, specie se a combatterle ed a vincerle, e magari anche a morirne, sono gli altri. Solo a partire da quei giorni, l’Inghilterra thatcheriana, cominciò veramente a risentirsi viva.
Anche l’Italia del dopo-mondiali ricominciava a vivere. Però, quella dell’Italia anni ottanta era, lo si vide un decennio più tardi, una resurrezione immaginifica, fatta di apparenze e, appunto, di immagini, che nella mentalità italiana, sono l’essenza stessa della vita.
Nell’Inghilterra di quei giorni, pur prostrata da una recessione terrificante, o forse, proprio per questo, la gente incominciò ad afferrare il senso di quei sacrifici. Fu quella, pur modesta, vittoria militare a farle intravedere la luce alla fine del tunnel. Fino ad allora, la signora Primo Ministro era soprannominata TINA, dalle iniziali delle parole “There Is No Alternative” (Non c’è alternativa), parole da lei spesso pronunciate per giustificare la chiusura di fabbriche, il licenziamento di migliaia di minatori, la decurtazione di salari e pensioni, lo sgombero delle case occupate dagli sfrattati. Dopo le Falkland, e Gianmarco lo stava percependo, il paese incominciò a muoversi con un ritmo più sicuro e con degli obbiettivi più chiari.
Gianmarco, arrivando a piedi a Fleet Street, si ritrovò di colpo nel proprio elemento; tra non molto sarebbe arrivato alla redazione londinese del “Giornale”. Dopo lungo peregrinare era finalmente tornato alla sua cuccia.
Suonò il campanello, al citofono riconobbe la voce di Ottavia, la segretaria:
-Sono io, Ottavia, aprimi! –
Sul pianerottolo s’aprì la porta dell’ufficio, apparve Ottavia sorridente. Gianmarco le schioccò un bacio sulla guancia.
-Dov’è Severgnini? – le domandò.
-E’ andato al bar più vicino a prendersi un tè – rispose la donna – E’ molto strano: da quando lei è partito per le Falkland continuiamo a ricevere delle telefonate da una donna che non vuole mai farmi il suo nome, e che chiede sempre di lei, dottor Demattei. Severgnini, che evidentemente la conosce, è sempre più preoccupato, è diventata la sua ossessione… da una settimana, ha preso l’abitudine di non farsi trovare più in ufficio, nelle ore in cui quella donna abitualmente ci telefona. Ma che sta succedendo? –
-Calma Ottavia! Credo di aver indovinato chi è quella donna. Ha per caso una voce giovanile ed un tono di chi è abituata a farsi ubbidire? –
-Beh… sì, assomiglia alla voce, ora che ci penso… - Ottavia ebbe un sussulto, lo guardò negli occhi e spalancò la bocca – No!… Oh no! Mi dica di no, dottor Demattei! Non sarà per caso…? –
Quel nome, però, non osava pronunciarlo. La segretaria incominciò a piagnucolare, Gianmarco non l’aveva mai vista in quello stato.
-Ma lei è matto! Qui ci arrestano tutti, a me, ritireranno il permesso di soggiorno, mio marito chiederà il divorzio, il signor Severgnini dovrà tornarsene in Italia, ma a fare lo spazzino… -
-Calma Ottavia! – ripeté, questa volta alzò la voce.
-Non osavo neppure pensarlo – continuava l’altra imperterrita – Ma già, dovevo immaginarmelo: Severgnini non si fa più trovare in ufficio e quella… quella m’insulta per telefono. Proprio lei, la ragazza buona e semplice, come la definisce la stampa inglese. Quella timidina con lo sguardo da furba. Prima di venire qua a lavorare, correvano strane voci sul suo conto… sì, insomma, che lei aveva… diciamo così, delle amicizie pericolose… ma io non ci ho mai creduto, invece… oddio! Ci mettiamo a far le corna nientemeno che alla Royal Family – e scoppiò a piangere.
Gianmarco sospirò, aprì la propria ventiquattr’ore e ne estrasse un pacchettino che mise nelle mani di Ottavia. Era il regalino che s’era portato per lei dalla Spagna. La prese per mano, la condusse nel suo ufficio, la fece accomodare sulla poltrona degli ospiti. La donna continuava a frignare. Gianmarco si sedette alla scrivania, alzò la cornetta del telefono e compose un numero: “quel” numero.
-Speriamo di trovarla – disse rivolto alla segretaria.
-Hallo? – era lei.
-Principessa Diana, sono arrivato or ora a Londra, come sta?–
-Ghiamma! Sei tornato finalmente, sono contenta. Per quanto riguarda il battesimo… -
-Principessa, al battesimo non mancherò. Però mi deve spiegare il perché si diverte a spaventare la mia segretaria, dopotutto è una brava ragazza e un’ottima lavoratrice –
-Davvero? A me è sembrata un po’ scema. Figurati che s’ostina a chiedere sempre chi sono, tutte le volte che telefono, ed io, naturalmente… -
-Ha capito soltanto adesso chi sei, io non le ho detto niente – il giornalista s’era deciso a passare ad un tono più confidenziale – C’è arrivata da sola, non è quindi così scema come credevi, solo che non osava nemmeno pensare che la Principessa di Galles… rompesse le scatole ai poveracci che lavorano, facendo loro perdere anche un sacco di tempo. Questa è la redazione di un giornale straniero, non l’ufficio persone scomparse! –
Aveva pronunciato queste ultime parole con voce più sostenuta. Diana tacque per qualche secondo, poi cambiò atteggiamento:
-La tua segretaria, è lì che sta sentendo? –
-Infatti, ed è alquanto spaventata, vuoi tranquillizzarla tu? –
-OK, passamela – ordinò Diana.
Gianmarco allungò la cornetta verso Ottavia:
-La Principessa Diana vuol parlare con te –
La segretaria si alzò, prese tremante la cornetta e l’accostò all’orecchio. Gianmarco si alzò e fece l’atto di uscire dall’ufficio, stava per varcarne la soglia, quando sentì un tonfo alle sue spalle, si girò: Ottavia era riversa sul tappeto. Svenuta.
Afferrò la cornetta:
-Diana, la signora Ottavia ha avuto un malore, mi raccomando, non telefonarle più; se mi muore sul lavoro dovrò prendermene la colpa. A risentirci –
Gianmarco riattaccò senza tanti complimenti, prese Ottavia sotto le ascelle e la rimise di peso sulla poltrona. In quel momento rientrò in ufficio Beppe Severgnini. Il poveretto, vedendo la scena, domandò allarmato:
-Cosa le è capitato? –
L’interpellato si voltò verso il collega e, tranquillamente, gli rispose:
-Ha visto la Madonna –

La cera non era delle migliori. Quando Diana scese dalla Rolls-Royce con in braccio il regale fantolino, l’unica cosa di lei che lo impressionarono furono: il suo pallore e la spilla da battesimo che portava sul cuore.
Il pallore non fu una sorpresa, già da qualche tempo, correvano voci d’una grave forma di “shock post-parto” di cui soffriva. Il sorriso stereotipato che dispensò agli astanti, non trasse in inganno nessuno. I fotografi ammessi alla cerimonia, cercarono di ritrarre Diana nell’atteggiamento più sereno possibile. Buon per loro (e per Diana) che ci riuscirono.
Il secondo particolare notato da Gianmarco, e poté notarlo soltanto lui, fu la spilla, una spilla in oro giallo, modellata a forma di tralci di vite annodati tra loro, con piccolissimi rubini, smeraldi, diamanti e zaffiri. Un gancetto ed una catenella la tenevano allacciata ad un lembo dell’abitìno da battesimo del bambino, di modo che, la madre e il figlio apparissero fisicamente ancora uniti da quel simbolico cordone ombelicale. Gianmarco, quella strana spilla l’aveva regalata a Diana, pochi giorni prima della cerimonia. A Milano, subito dopo il suo ritorno dalla Spagna, l’aveva commissionata ad un orafo suo amico, per un battesimo non meglio specificato. Lui, prima di allora, le spille da battesimo, non sapeva neppure cosa fossero. L’aveva consigliato Flavia, sua cognata.
La spilla, fu poi recapitata a Diana ai primi di Agosto: un astuccio, accompagnato da un biglietto di circostanza, tra le migliaia di regali che la Principessa di Galles ricevette per quell’occasione.
Ed ora, eccola lì, la sua spilla, appuntata su petto di Diana. Perché la principessa esibiva proprio il suo regalo? Non avrebbe mancato di chiederlo all’interessata.
Diana s’incamminò, tra i flash dei fotografi, verso la piccola chiesa anglicana, annessa al parco di Kensington Palace, dove sarebbe avvenuta la cerimonia, alla quale avrebbero assistito soltanto pochissime persone: la Regina, il Duca di Edimburgo, il Principe di Galles e gli altri membri della Royal Family.
La principessa gli passò accanto, ma, sebbene l’avesse visto, fece finta di non conoscerlo. Gianmarco stette al gioco: aveva portato con sé la macchina fotografica professionale, scattò anche lui un paio di flash, tanto per fare qualcosa. Diana e il suo seguito sparirono all’interno della cappella.
Il giornalista decise d’averne abbastanza, si staccò dal gruppo dei fotografi, si diresse verso l’auto che aveva noleggiato per quell’occasione e partì alla volta del vicino Kensignton Palace, l’antico palazzo, detto anche il condominio regale, dove, di lì a qualche ora, sarebbe incominciato il ricevimento per festeggiare il battesimo del futuro re d’Inghilterra.
Davanti alla residenza reale dovette superare lo sbarramento di sorveglianza. Alcuni poliziotti fermarono la sua auto. Gianmarco scese dalla macchina, consegnò agli addetti della sicurezza il cartoncino d'invito, i propri documenti ed il tesserino da giornalista. Il poliziotto addetto al controllo, lette tutte le scartoffie, lo squadrò, nemmeno si trattasse di un pezzente che voleva infiltrarsi tra gli invitati. Non era inglese, non era nobile, non aveva autisti, per di più giornalista, era proprio il caso di essere sospettosi. L’uomo prese il “walkie-talkie”, si allontanò dalla macchina e parlò brevemente all’apparecchio. Ottenne evidentemente la risposte che s’aspettava, perché gli fece segno di passare, dopo avergli riconsegnato i documenti.
Gianmarco pensò che a quel ricevimento, era più facile essere invitato che esser congedato dopo la festa. Chissà se sarebbe poi riuscito a venir fuori da quel palazzo?
Nel cortile, un posteggiatore indicò dove parcheggiare. Gianmarco nel richiudere lo sportello dell’auto si guardò le scarpe, erano infangate. Le aveva sporcate su quel viottolo nel parco. Fortunatamente, aveva previsto anche quell’inconveniente. Nel bagagliaio, aveva infatti portato con sé un paio di pantaloni da “smoking” ed un paio di scarpe di vernice di ricambio. Non aveva bisogno di pantaloni nuovi (sarebbe comunque stato problematico cambiarseli, debracandosi in pubblico, nel cortile di una residenza reale), ma d’un altro paio di scarpe, evidentemente sì. Così, sul sedile dell’auto, tenendo aperto lo sportello anteriore e posando i piedi sul selciato, si chinò per compiere l’operazione. Non si avvide di un uomo che si avvicinava silenziosamente. Soltanto quando i piedi della persona entrarono nel suo campo visivo, Gianmarco si accorse di lui ed alzò la testa di scatto, battendo una bella zuccata contro il tettuccio della macchina.
-Che cafoni, questi plebei! Si portano dietro persino le scarpe di ricambio –
-Morton! Sei ancora vivo? –
Il collega inglese lo stava osservando divertito in quella goffa operazione. I due amici si scambiarono calorosi saluti in mezzo al cortile, richiamando l’attenzione degli altri invitati.
-Credevo fossi ancora in mezzo all’Atlantico a battere i denti dal freddo –
-Credevo fossi ancora in Spagna a tirar calci alle lattine di birra – ribatté Morton – Finché, un’ora fa, ti ho visto mentre correvi dietro alla Principessa di Galles, con in mano una macchina fotografica che, per quanto ne so io, non hai mai imparato ad usare come si deve –
-Quando sei ritornato? –
-L’altra settimana, a bordo di un “Nimrod” della RAF. Sulla nave ci sono rimasto fino all’isola di Ascension, poi ho deciso che ero stufo del mal di mare e di tutto il resto, così ho chiesto un passaggio all’aviazione, in tempo per ricevere l’invito dalla Principessa di Galles; me l’aveva fatto recapitare al giornale. E tu? –
-Mi sto cambiando le scarpe, come vedi –
-Come ti dicevo, si vede proprio che sei un plebeo. Non sapevi che esistono anche gli stivali, per camminare lungo i sentieri bagnati dei parchi inglesi? –
-Ehm… no. In Italia, quando si è invitati ad una festa, ci si arriva vestiti per la festa e non con lo smoking e gli stivali di gomma –
Anche Morton, infatti, indossava un’inappuntabile “smoking”, Gianmarco glielo fece notare, passando una mano sotto il bavero della giacca, in segno d’apprezzamento.
-Non farci caso, Gianmarco. Io sono un rappresentante della “working class”; per me, ciò che va dai pantaloni di fustagno in su, è tutto guadagnato –
-Al sottoscritto – rispose Gianmarco – da un po’ di tempo in qua, ciò che va dalla Jaguar in giù, è tutto perso –
-A proposito, ho sentito che a tuo fratello, vanno molto bene gli affari –
-Non ha proprio di che lamentarsi – confermò Gianmarco – tutte le volte che vado a visitare la sede centrale della sua società, la RDC, vedo sempre facce nuove, uffici sempre più grandi, impiegate e segretarie sempre più carine e… sempre più postulanti davanti al suo ufficio –
-Meno male che ci sei anche tu. Quando ho ricevuto il cartoncino d’invito per questo party ero preoccupato, avevo paura di trovarmi solo e sperduto in mezzo a tante celebrità. Mi avrebbero guardato con la puzza sotto il naso –
-Anch’io ho avuto lo stesso problema, senza bisogno di esser nato povero – rispose Gianmarco - Per fortuna ho trovato il mio amico e collega Morton, vuol dire che ci spalleggeremo l’uno con l’altro, nel caso questi ci ignorassero –
-Ma tu… hai la festeggiata che potrebbe tenerti compagnia –
-Ma sei matto? Oggi non mi ha neppure degnato di uno sguardo, adesso poi… davanti a tutti gli invitati ed alla Royal Family, il giorno del battesimo di William –
-Secondo te, perché ci avrebbe invitati? Tieni presente che, te ne do notizia soltanto ora, nella redazione del mio giornale, si parla di certe telefonate in Spagna… -
-Dalla Spagna – precisò Gianmarco – Sono stato io a telefonarle –
-E chi ti aveva dato il suo numero personale? Quello non lo trovi certamente sull’elenco telefonico –
-La prima volta, è stata una sorpresa anche per me, neppure pensavo rispondesse proprio lei. Per ciò che riguarda la seconda telefonata, sì, lo ammetto ero un po’ euforico, ma ero appena reduce dalla finalissima dei mondiali. Ma tu, di queste telefonate, come fai ad esserne a conoscenza? –
Morton si limitò a rispondergli con un sorrisetto di superiorità.
-Andiamo bene! – commentò l’italiano – Che il servizio segreto ascolti le conversazioni di tutti i potenti di questo mondo è disdicevole ma comprensibile, per ragioni di sicurezza, ma che faccia anche il pettegolo con i giornali è proprio il colmo –
-Parla la voce dell’invidia, da voi, i servizi segreti non passano informazioni ai “media”? –
-Certo che le passano. Tu stesso hai avuto modo di costatarlo, ma lo hanno fatto per scopi un tantino più seri dei vostri: ma a chi possono interessare le telefonate di una principessa con un giornalista, mentre stanno parlando, nientemeno che delle finali dei mondiali di calcio? –
-Evidentemente, qualcuno in alto, non si fida troppo della futura regina d’Inghilterra e nemmeno del futuro re. Si parla, sempre nella redazione del mio giornale, di certe telefonatine, dal contenuto molto piccante, del Principe Carlo a certe signore…–
-Saranno mai divulgate? –
-Chissà! Le prime intercettazioni telefoniche del SIS ai danni di membri della Royal Family, se non vado errato, risalgono ai tempi di Edoardo VIII e di Wallis Simpson, a quanto pare, scoprirono che il re d’Inghilterra e la signora Wallis …. –
-Erano degli sfegatati nazisti. Questa la sanno anche i bambini… fuori dalla Gran Bretagna, i bambini inglesi, forse credono ancora alla favola del sacrificio per amore –
-Ecco! – lo interruppe Morton – Vedi come certe notizie, sapientemente divulgate per vie informali possono… -
-Possono essere delle autentiche maialate. Nella mia pur breve esperienza giornalistica, addentrato…, diciamo così, nelle segrete cose, ho capito che in certi casi la cosiddetta ragion di stato, crea più guai dei problemi che vorrebbe risolvere –
S’interruppe per osservare gli ultimi invitati entrare nel palazzo, dovevano affrettarsi pure loro:
-Sbrighiamoci, altrimenti se restiamo qui, in mezzo al cortile a fare gli spaventapasseri, ci butteranno fuori o ci scambieranno per terroristi dell’IRA –

La cerimonia di presentazione degli invitati ad una festa organizzata dalla Royal Family, è uno strano miscuglio di ufficialità, militarismo, amenità. Si dispongono tutti in fila sull’attenti, uomini e donne; un estraneo, che entrasse in quel momento nella sala, potrebbe scambiarli per militari ad una rivista od un “presentat-arm”, se indossassero un’uniforme; in alternativa, pensare che questi signori si siano messi in fila per presentare le loro condoglianze ai padroni di casa.
I nostri “eroi” delle Falkland, che due mesi prima scarpinavano tra le pietraie di quegli scogli, lerci come mulattieri, in quel momento, sull’attenti, allineati e coperti, aspettavano il loro turno di presentazione alle Loro Altezze Reali, il Principe e la Principessa di Galles.
Quando la coppia arrivò alla volta dei due giornalisti, si sentì il cerimoniere leggere il nome dell’italiano incespicando sulle vocali. Sbirciandola con la coda dell’occhio, Gianmarco notò che il viso della Principessa s’era all’improvviso illuminato. Sentendo poi il nome dell’amico pronunciato in modo tanto sgangherato, tratteneva a stento una risata. Anche il Principe di Galles era, od appariva, piuttosto divertito. Ad ogni buon conto, Gianmarco eseguì un discreto baciamano a Diana ed una cordiale stretta di mano al Principe Carlo. Molto peggio di lui, se la cavò Morton, il quale, per poco non baciò la mano a Carlo e la strinse a Diana: scherzi dell’emozione. Gianmarco e Morton però, s’erano dimenticati che in Inghilterra, nelle cerimonie regali, non si usava mai il baciamano alle signore, men che meno alle altezze reali. Loro erano stati gli unici: scherzo dell’emozione pure quello.
Dopo un breve ringraziamento ai convenuti da parte del principe, si aprirono immediatamente le danze. Gianmarco e Morton si ritrovarono così piantati ai bordi della sala, essendo sprovvisti di dame accompagnatrici.
Morton si voltò verso il collega italiano:
-Ed ora che facciamo, ci mettiamo a ballare tra di noi? –
-Se ci hanno invitati, non l’avranno certamente fatto per lasciarci qui a giocare a “le belle statuine” –
-Le belle statuine? Di cosa si tratta? –
-The beautiful statuettes – tradusse letteralmente - un gioco da bambini italiano. Oltre che di un modo di dire: quando alcune persone sono messe in un posto dove non hanno niente da fare, immobili appunto, come delle statue –
In quel momento, una donna s’accostò a Gianmarco, gli sorrise, come se s’aspettasse di essere riconosciuta. In effetti, quel viso non era nuovo al giornalista italiano, ma non riusciva a farsi venire in mente dove l’avesse incontrata. La donna gli venne in soccorso:
-Coleherne Court… Sopra la sua testa…”You have making a defening noise” –
Era ora che rammentasse: ma sì, una delle coinquiline di Diana.
-Sophie…Kimball, la compagna di bisboccia di Diana! –
Per tutta risposta, dalla donna ebbe un altro sorriso.
-Sono tre anni che non ci vediamo più, come sta Mister Demattei? –
-Sempre in pista. Anche oggi, non creda, sono qui in veste di giornalista –
La donna, questa volta, ebbe un gesto d’incredulità:
-Davvero? Come giornalista? Credevo che la principessa avesse invitato soltanto i suoi amici e quelli di suo marito, non mi pare che lei sia amico del Principe di Galles –
-Se è solo per questo, qui vicino a me, si trova il signor Andrew Morton, del “Sunday Times” e… -
-Conosco bene pure lui. Da quando Diana ha sposato Carlo, cerca di avvicinarla per scrivere la sua biografia; è addirittura asfissiante! Non mi stupirei se qualche sera lo ritrovasse sotto il suo letto con in mano un registratore –
Gianmarco si voltò verso il collega:
-Hai capito che razza di sanguisuga mi sono sempre trascinato per le costole? Così tu tampini la principessa per strapparle un’intervista in esclusiva. Bell’amico! –
-Faccio anch’io quello che posso – rispose Morton, vistosi ormai pescato con le mani nel sacco.
Gianmarco gettò un’occhiata nella sala. La principessa stava aprendo le danze con il marito come cavaliere; gradualmente, altre coppie li raggiunsero al centro della pista. Diana era un’ottima ballerina: sapeva che la principessa, da ragazzina aveva studiato danza classica, ma era stata scartata, perché troppo alta.
Un colpetto dietro la spalla destra, era ancora Sophie.
-Non dovrei essere io a domandarglielo, ma le chiedo ugualmente se vuole fare un giro di valzer con me –
-Veramente, come ballerino sono, come diciamo in Italia, un manico di scopa, forse il mio amico Morton potrebbe… -
La ragazza ammiccò spalancando gli occhi; voleva parlare con lui, quale migliore occasione per farlo mentre stavano danzando.
-Purché non faccia caso ai suoi piedi – l’avvertì, prendendola per una mano ed accompagnandola al centro della sala.
Morton, che aveva capito tutto, si rassegnò ad aspettarli ai bordi della sala, compostamente, con le mani dietro la schiena.
Come aveva premesso alla sua partner, Gianmarco, come ballerino, era decisamente scalcagnato, lasciò condurre Sophie e si dispose ad ascoltarla.
-Volevo parlarle, signor Demattei, per conto della nostra comune amica –
-Bisogna ricorrere a questi sotterfugi, per avere un’intervista? – domandò lui, mentre schiacciava un alluce alla sua dama.
La donna fece una piccola smorfia di dolore.
-Certo che… non immaginavo d’immolarmi in questo modo, mio Dio, ma lei balla come un rinoceronte! –
-L’avevo avvertita –
-Duch vuole parlarle. Non si tratta di un’intervista, ha bisogno d’aiuto –
-Duch? Allude a… -
Sophie lo interruppe prima che pronunciasse il nome di Diana.
-Duch, è il nomignolo che le abbiamo appioppato, fin da bambina, significa “duchess”, non lo sapeva? –
-Perché proprio duchessa? –
-Perché, se ben ricordo, le avevamo pronosticato un duca come marito, invece è stato un principe –
-Capisco, se dobbiamo chiamarla Duch, così sia! –
Appunto, è più prudente. Al prossimo giro di ballo, lei si avvicini a Duch, la invita a ballare e lei le dirà quel che ha da dirle…ahi! –
Le aveva pestato un’altra volta il piede.
-Per fortuna il prossimo pezzo sarà “The long and winding road” dei Beatles, è un lento, altrimenti finirà per azzoppare anche Duch –
Come Dio volle anche il valzer terminò, le coppie si avviarono ai bordi della sala. Gianmarco e Sophie si ricongiunsero a Morton.
-Mister Morton, lei è un discreto ballerino? – domandò Sophie.
-Me la cavo –
-Il signor Demattei è decisamente un killer, per poco non mi mandava dall’ortopedico, il prossimo giro lo faccio con lei –
Sophie fece un bel sorriso al giornalista inglese, gli fece cenno, roteando l’indice, che si sarebbero rivisti dopo, prese sottobraccio Gianmarco e lo guidò verso la coppia principesca. Mentre si avvicinavano notò che, per la prima volta, Diana lo guardava negli occhi. Era proprio patita ed anche parecchio dimagrita.
-Altezze! – proclamò Sophie.
Anche il principe si voltò verso di loro.
-Permettete che vi presenti un vecchio amico della principessa e mio: Mister Demattei, giornalista italiano del “Giornale” di Milano, quello dello “scoop” sulla liberazione del generale Dozier, insieme col signor Andrew Morton –
Il principe, fece un leggero inchino e gli porse di nuovo la mano.
-Santo cielo! – pensò Gianmarco – Ecco perché lo chiamano “Dumbo”, accidenti, che orecchie! Sapevo fossero grandi, ma viste da vicino fanno impressione –
La bocca posta tra le due orecchie prese a parlare. Gianmarco, distratto e perduto tra gli occhi di Diana e le orecchie di Carlo, riuscì ad afferrare soltanto il nome di “Mr. Montanelli”. S’immaginò che gli avesse chiesto come stava.
-Bene, molto bene, l’ultima volta che l’ho visto mi ha levato la pelle –
-Come mai? – domandò il principe
-Mi ha accusato, con ragione, di aver scopiazzato, nei miei articoli sui mondiali di calcio, un altro collega italiano –
-Le scopiazzature reciproche, sono un antico vezzo pure della stampa britannica, non creda –
-Ma occorre saperle fare “cum grano salis” – rispose Gianmarco – Ed io, in quell’occasione, sono stato tutt’altro che “clever” (abile), My prince –
Poi soggiunse:
-Alla fine, ho capito di non essere un buon cronista sportivo, per questo Mr. Montanelli mi ha rispedito qui a Londra, per tornare a scrivere dei Reali di’Inghilterra e della signora Thatcher –
-A proposito, mi complimento per la vostra bella vittoria ai mondiali –
-Non ne ho nessun merito, sono io che debbo, nel mio piccolo, complimentarmi con lei e col Governo per la vittoria alle Falkland, ben più importante dei mondiali di calcio –
-Già, la ringrazio, ma mi domando se ne è valsa la pena, visto il sangue che si è sparso per riconquistarle –
-All’inizio ne dubitavo anch’io, e non ero il solo, mi creda. Ora mi sto rendendo conto della giustezza di questa campagna, non tanto, per la modestia in sé delle operazioni militari, ma per gli effetti collaterali che questa vittoria ha avuto ed avrà in Gran Bretagna e nel mondo intero –
Notò negli occhi del principe un lampo d’incredulità.
-Mi creda, Altezza, le dico che questo anno 1982, è quel che si chiama, una svolta epocale. Come giornalista, quindi come cacciatore di notizie e percettore degli umori dell’opinione pubblica, sento che in questo periodo si stanno verificando tali e tanti cambiamenti che, nel giro di poco tempo, ci porteranno verso mutamenti radicali, dei quali nemmeno io so prevedere la portata, ma saranno grandi. La guerra delle Falkland, in questo contesto, vi ha contribuito in maniera decisiva, almeno, nel Sudamerica e nella stessa Gran Bretagna; è stata…come una palla di neve che genera una slavina… –
Tacque per un attimo, lo guardò di nuovo negli occhi, continuava a leggervi scetticismo:
-…E non dovremo aspettare molto per accorgercene – concluse.
L’orchestra nel fondo della sala attaccò con la musica, il cantante intonò le prime strofe: “The long and winding road/That leads to your door….”:(2)era il suo momento, Diana si rivolse al marito.
-Charles, possiamo scambiare due chiacchiere, tra vecchi amici? –
Il principe sorrise, fece un ampio gesto con la mano, come per dire: “Fate quello che vi pare”
Diana lo prese sottobraccio e lo accompagnò al centro del salone, gli mise le braccia intorno al collo, lui la allacciò a sua volta attorno alla vita.
-Ora che tu e mio marito avete finito di sistemare i destini del mondo, parliamo un po’ di noi: di me sai quasi tutto, basta leggere i rotocalchi … -
Quindi gli domandò:
-E tu? Che hai fatto in questi anni, oltre ai dispetti fotografici alla tua povera amica Diana? –
-Niente d’importante, quello che tu hai conosciuto tre anni fa, lo sono ancora oggi, con la differenza che allora ero dipendente di mio fratello Roberto, oggi sono alle dipendenze di mio fratello Paolo –
-Come mai? –
-Da quando mio fratello Roberto è diventato titolare di una televisione commerciale ad emittenza nazionale, ha dovuto cedere le azioni del “Giornale”, dove io lavoro, all’altro fratello –
-Ho sentito parlare anche qui di Roberto Demattei, mi sembra una persona con gli attributi al posto giusto –
-Se ricordi, te l’avevo preannunciato già tre anni fa, Roberto è ormai lanciatissimo, si é fatto pure parecchi nemici. Indice d'importanza –
-A chi lo dici, è quello che sta capitando anche a me – sussurrò Diana.
Per la prima volta in quella serata, il viso della ragazza assunse un’espressione spaventata, quasi smise di ballare; fu in un baleno, subito dopo si riprese.
-Her highness, you seems to me that you are scared (Sua altezza mi sembra spaventata) –
Un altro lampo negli occhi della donna.
-Per questo ti ho fatto venire fin qui, ho bisogno di parlare con qualcuno che possa spiegare agli altri come stanno veramente le cose –
-Proprio io? Ci sono le tue amiche, le tue sorelle, tuo padre, la stampa –
-Buoni quelli della stampa! Non sanno fare altro che leccare i piedi alla Royal Family, altrimenti sono sempre in trepidante attesa di una mia gaffe per ridermi dietro. No, Ghiamma, ho bisogno che qualcuno di fuori mi dia una mano, gente di cui possa fidarmi, che sia estranea al sistema e contemporaneamente, come te, “had the finger in the pie” (abbia le mani in pasta) con l’informazione –
“…don’t leave me waiting here/lead me to your door/yeah yeah yeah”(3)
Le ultime parole della melodia dei Beatles indicarono che il ballo stava per finire. Diana fece un passo indietro, poi, guardandolo con aria implorante:
-Ti prego, aiutami! –
Quindi, repentinamente, cambiò espressione: il suo viso divenne raggiante e si diresse verso il marito. Gianmarco la seguì.
Si guardò in giro: notò che Sophie aveva arpionato Morton per l’ultimo ballo e che questi, perlomeno, non le aveva pestato i piedi. La principessa intanto stava bisbigliando qualcosa all’orecchio del marito, poi, si girò verso Gianmarco e gli fece intendere di seguirla. Imbarazzato per quel comportamento, il giornalista si fece guidare in un angolo appartato della sala. Si sentiva puntati sulla schiena, come tanti spilli, gli occhi di tutti i presenti. Evidentemente Diana se ne infischiava, lei poteva farlo… o forse no? La principessa si sedette su di un divanetto e fece segno a Gianmarco di fare altrettanto vicino a lei.
-Ho detto a Charles che volevi farmi un’intervista in esclusiva, quindi, per domani, sul tuo giornale devi inventarti qualche stronzata sul mio conto. Se non ne fossi al corrente, consultati gli ultimi numeri del “Sun” o del “Dayly Telegraph”, non hai che l’imbarazzo della scelta –
-Purché ai lettori italiani interessino quelle che tu hai chiamato stronzate. Forse, non ti rendi conto che io scrivo su di un quotidiano di un altro paese, in un’altra lingua, con altre istituzioni e d'altre abitudini; io sono un corrispondente, cioè un osservatore neutrale, per di più di un paese alquanto marginale nell’Europa e nel mondo. Non sono del “New York Times” e neppure di “Le Monde” –
-Ti è piaciuta la spilla che indossavo questo pomeriggio al battesimo di William? –
-Devo averla già veduta da qualche parte – scherzò Gianmarco.
-Innanzitutto, te ne ringrazio. Volevo tu capissi che avevo bisogno di parlarti. Per questo, tra le migliaia di regali che ho ricevuto, ho scelto di portare quel tuo gioiello, che, n'ero sicura, avresti notato –
-Ne sono lusingato –
-Siamo vecchi amici, caro Ghiamma, c’è poco da esser lusingati. Ho bisogno d’aiuto e te l’ho chiesto. Scusa se debbo ricorrere a questi mezzucci. Che sai dirmi di quel tuo amico che è con te in questo momento, quell’Andrew Morton? –
-Potresti rivolgerti a lui per quella missione che vorresti affidare a me, è una brava persona, capace, ambizioso e… inglese – poi, con voce più bassa proseguì: - Questo non è un romanzo di Dumas, cara principessa, io non sono D’Artagnan, cui affidi una missione delicata. Tu puoi pensare di me quello che vuoi, ma se solo m’azzardassi a prendere le tue parti in un eventuale scontro con l’establishment, se ho ben capito le tue intenzioni, sarei spazzato via come un fuscello. Sai che mio fratello, tre giorni dopo la nostra conversazione telefonica dalla Spagna, era già al corrente di ciò che ci siamo detti? Così pure, tutte le redazioni dei giornali del Regno Unito –
Diana lo guardò costernata:
-Anche tuo fratello? Mio Dio! – I suoi occhi si riempirono di lacrime.
-E’ così, principessa! Abbiamo a che fare con qualcosa molto, troppo più grande di noi. Non sarà così per sempre, se questo potrà consolarti. Questo pomeriggio, quando ti ho vista di persona dopo tanto tempo, mi sei sembrata piuttosto patita –
Diana strinse i pugni attorno a due lembi di stoffa del suo abito lungo, poi, guardando il pavimento sibilò:
-Un anno di matrimonio, un inferno. Sì hai capito bene, un inferno, altro che matrimonio del secolo. Anche se vivo in una reggia, con bei vestiti e gioielli, servita e riverita e tutti mi chiamano "Princess" o “Madam”. Non ho fatto altro che mangiare e vomitare. Tutti, anche i maggiordomi, si sentono autorizzati a farmi rimproveri, mi trattano peggio di una cameriera. Quelle almeno possono licenziarsi, io no. Mio marito poi… il Principe di Galles – fece una smorfia – Sembra fatto di gesso, è succube di sua madre, la Regina. Non ha un briciolo d'orgoglio, si ricorda di me soltanto per farmi qualche “cicchetto” e per… beh! Ci siamo capiti, dopotutto abbiamo già fatto un figlio –
Gianmarco era costernato, stava ascoltando Diana con un finto sorriso sulle labbra, per darsi almeno il contegno di un giornalista che sta ascoltando le ultime amenità di Buckingham Palace.
-Diana, sembra che tu non ti renda conto che stai parlandomi della tua vita privata. Sarai regina un giorno, io sono un estraneo –
-Io non sarò mai regina! Mi faranno morire prima di diventarlo – poi soggiunse – Oppure mi cacceranno, dopo avermi fatto passare per pazza –
-Dopotutto, io non sto parlando con la povera moglie di un povero minatore del Galles ma… -
-Neppure io sto parlando con il figlio di un bracciante siciliano, ma con il fratello di un nobile, ricco a palate –
-Né io, né mio fratello, né nostro padre siamo stati nobili: i Demattei sono plebei, arricchiti, questo sì, con il loro lavoro, con le loro capacità, con le loro amicizie politiche e non, ma… credimi, non troveresti un patrizio nei nostri ascendenti, nemmeno a cercarlo, come diciamo in Lombardia, col lanternino –
Lei lo guardò stupita.
-Credevo tu scherzassi quando tre anni fa… ma, quella splendida villa vicino a Milano? –
-E’ infatti una villa nobiliare, ma l’abbiamo acquistata qualche anno fa, allo stesso modo in cui si può acquistare una Rolls-Royce. Non è la nostra stately home, come per gli Spencer è Althorp –
-A proposito, tre anni fa, in quella villa ci siamo lasciati in malo modo. Ti prego di scusarmi, allora avevo pensato… credevo che tu volessi scaricarmi, per questo motivo ti ho mandato a quel paese e dopo ti ho reso la vita un inferno nel tuo appartamento sotto al mio –
Gianmarco ebbe un groppo alla gola, quando riuscì a parlare emise un suono flebile:
-Appena scendemmo dall’aereo, ricordi? Abbiamo incontrato mio fratello e… -
Diana annuì e continuò a sua volta:
-…E lui ti ha riferito che io… non ero roba per te, ero già prenotata da qualcun altro, al quale non conveniva pestare i piedi –
Istintivamente gli toccò la punta delle dita con le sue.
-Ti offro l’occasione per vendicarti! Hai sofferto, vero? –
-Più che sofferente, mi sono sentito umiliato – mentì Gianmarco: in quei giorni aveva voglia di spaccare tutto.
-Mi aiuterai ad uscire da questo pasticcio? –
Gianmarco era alle strette, se avesse dato retta a suo fratello…
Al diavolo! L’avrebbe aiutata, ma doveva calmarla.
-Ti aiuterò, lo farò a costo di finire a gambe all’aria io, mio fratello e tutta la famiglia Demattei, i miei amici e gli amici dei miei amici, ma… -
-Ma? – lo sollecitò Diana.
-Ci vorranno anni, devi essere paziente, non mi devi più telefonare, se non per qualche impegno formale. Tu, nel frattempo, devi diventare qualcuno, devi trovare un ruolo –
-Lo sono già –
-No! – Rispose con determinazione – Per ora, ed in questo hanno ragione i cortigiani che odi tanto, per ora sei soltanto un’affascinante ragazza con una corona in testa. Quando tutti questi vecchi babbioni incipriati non potranno più fare a meno di Diana Spencer, anzi, di Sua Altezza Reale la Principessa Diana, allora e soltanto allora potrai scaricarli. Per ora ti hanno appioppato un bel titolo perché hai sposato l’erede al trono. Perché credi abbiano scelto proprio te? Te lo dico io: non solo perché appartenevi ed appartieni ad una delle più prestigiose famiglie patrizie del Regno Unito, ma soprattutto perché avevano bisogno di mettersi accanto una figura fresca e giovane, che rinverdisse la loro popolarità presso la gente comune. Per questo hanno costruito, con l’aiuto dei media, la tua leggenda di ragazza semplice. Quando però ti sarai affermata nel tuo ruolo, saranno loro, a questo punto, a venire da te in ginocchio, li avrai in pugno! – poi soggiunse – Fino a quel momento dovrai però ingoiare parecchi rospi. Mi dispiace, ma non vedo altra soluzione –
Infine, guardando ammirato il diadema di perle e diamanti che Diana portava in capo, commentò:
-In ogni modo, i rospi che stai ingoiando in questo momento, possono essere di un genere molto ma molto prezioso –
Lei capì l’allusione, si toccò il diadema:
-Se alludi a questa, beh! Se mi cacciano, la dovrò mollare, assieme a quasi tutti i gioielli. Appartengono ai Windsor, ma prima, come dici tu, farò sputar loro sangue! –
-Calma principessa! Ti sei scelta un consigliere italiano. Gli italiani sono servi fedeli, quando sono servi, ma non amano le battaglie e gli scontri frontali, non amano neppure far sputare sangue a chicchessia. Preferiamo l’arsenico alla spada. Il nostro eroe di riferimento si chiama Machiavelli, non Wellington o Nelson, tienilo presente. Machiavelli non ammazzò nessuno, visse e morì povero. Persino i suoi scritti furono quasi ignorati dai suoi contemporanei. Noi, se avrai pazienza, combatteremo usando il cervello, solo, ci vorrà parecchio più tempo. Come dicevo poco fa a tuo marito, il mondo sta cambiando in modo sempre più accelerato, tra non molto stenteremo a riconoscerlo… noi, figurati loro! –
Diana chiuse gli occhi e fece l’atto di spremersi le meningi:
-Questo signor Machiavelli l’ho già sentito nominare. Non so cos’abbia scritto – confessò - Però qui in Inghilterra, quando parlano di lui, lo indicano come una persona che ha insegnato cose riprovevoli, cose da italiani…Chi era, un mafioso? –
-Pressappoco, solo che, come ti ho detto, questo signore preferiva usare il cervello e non le armi. Insegnò come si governa uno stato a quasi tutti i principi di questo mondo, specialmente ai re d’Inghilterra ed ai loro primi ministri. Anche se costoro non lo hanno mai ammesso, perché in fondo, mafiosi lo sono sempre stati anche gli inglesi –
Diana, a questo punto, passò dal sorriso ad una sonora risata, facendo voltare verso di loro quasi tutti gl’invitati.
-Vedo con piacere che ti ho rimesso in carreggiata, hai quasi cambiato aspetto, sembri ritornata in salute –
-Davvero? – domandò Diana.
-Ci saranno alti e bassi in questa… chiamiamola guerra. Soprattutto noi Demattei, tuoi principali alleati, dovremo rafforzarci, e parecchio. Solo ora sto capendo la strategia d'espansione che mio fratello ha impresso alla sua azienda. Ti posso garantire che, tra qualche anno, faremo tremare tutti quelli che ora ci guardano con sufficienza, se non con disprezzo. In questo momento con te ho preso un impegno e gli impegni li sanno onorare anche i plebei, non soltanto i principi. –
-Non so se potrò aspettare tutto questo tempo – rispose Diana - del resto, non ho scelta –
Poi, aggiunse con un sorriso complice:
-E credo d’avere scelto bene. Gli italiani, quando ci si mettono, diventano tutti dei veri figli di sultana! Se ho ben capito quel che hai detto di Machiavelli –
Non erano proprio quelle le parole che s’aspettava pronunciasse una principessa, per di più in abito da sera e con un diadema miliardario tra i biondi capelli, ma quella sera aveva ritrovato un’alleata preziosa e forse non soltanto un’alleata. Quell’incontro segnò l’avvio di un percorso lungo e tortuoso: the long and winding road, come il titolo della canzone sulle cui note avevano danzato. Inoltre, cosa molto più importante, aveva preso un impegno che lo avrebbe, di lì in avanti, vincolato a Diana ancor più d'un matrimonio (o di un paio di manette).

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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 7:10 pm

Capitolo XII


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil10


I DENTI DELLO SQUALO






Quel biglietto d’invito lo girò e rigirò tra le dita un’infinità di volte. Un’intervista con la signora Thatcher, non era cosa che potesse capitare tutti i giorni ad un giornalista straniero, ma ciò che lo sorprese ancor di più fu la nota vergata a mano, probabilmente dallo stesso Primo Ministro, diceva testualmente:
“La preghiamo vivamente non divulgare la notizia di quest’intervista. Neppure il direttore del Suo giornale dovrà esserne messo a conoscenza, almeno fino a quando noi non L’autorizzeremo”.
Invece c’era di che preoccuparsi, l’orario poi, alle nove di sera, salvo che il Primo Ministro non avesse avuto l’intenzione di avanzargli delle proposte indecenti…
L’incontro era previsto per il 10 Agosto, fra due giorni e Gianmarco si stava domandando del perché di tutto quel mistero. Non aveva altra soluzione che farselo spiegare dalla stessa signora Thatcher, ma come andare a Downing Street, senza essere notati?
Fino allora, il corrispondente del “Giornale” in Gran Bretagna, era riuscito ad incontrare soltanto deputati e qualche sottosegretario del Governo. Dal 4 Agosto in poi era un susseguirsi di colpacci da far schiattare d’invidia i colleghi dei giornali più blasonati.
- Non sarà che dopo me la faranno pagare cara? – si chiese a bassa voce.
- Che stai dicendo, il rosario? – domandò Severgnini, sentendolo bofonchiare.
- Niente, niente –
- Come niente! Da mezz’ora stai seduto alla scrivania e ti agiti come se t’avessero acceso il fuoco sotto al sedere, è un “niente” piuttosto preoccupato –
Gianmarco doveva inventarsi qualcosa, e subito.
- Mi stavo domandando, se fra due giorni potrò presenziare ad un simposio presieduto dalla signora Thatcher, sul tema della restituzione di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese -
Aveva voluto strafare. Come balla, inventata lì per lì, questa era decisamente azzardata (e prematura), ma aveva detto la prima cosa che gli era venuta alla mente, perché, in quel momento, sotto mano aveva anche un dispaccio d’agenzia che parlava proprio della Cina.
- Hong Kong alla Cina? Ma quando, ma dove? Le agenzie non lo dicono – osservò stupito Severgnini.
Peggio la toppa del buco.
- Ed ora che gli racconto? – pensò - Si tratta d’un simposio, non di una conferenza stampa, è riservato a… ehm! Poche persone qualificate –
- E tu saresti una delle poche persone qualificate? Qualificate da chi, dalla Principessa di Galles, che non conta niente? Io penso invece che tu stia per avere un appuntamento galante proprio con lei, vero? Quel cartoncino che stringi tra le dita… –
- Ma vaff…! -
- A proposito – proseguì il collega - non te l’ho detto prima, ma quella cosa della tua intervista alla Principessa Diana in esclusiva, è una… anzi non è da te. Tu, di simili melensaggini non ne hai mai scritte, se si fa eccezione della storia del “Festival della mucca” e la “Madonna dei collant”. Sembra roba presa pari pari da “Novella 2000” –
Era vero, perbacco! L’aveva copiata proprio da lì, con l’aggiunta di qualche pettegolezzo di prima mano preso dal “Sun”, ma questo, Severgnini non poteva saperlo. Per fortuna, il buon Beppe non insistette ulteriormente. Ogni giornalista ha i suoi segreti, insistere nel cavarglieli, avrebbe significato farselo nemico e Gianmarco, non solo era il suo capo, ma anche il fratello del padrone.
Involontariamente, Severgnini gli aveva però suggerito una risposta alla questione che lo stava preoccupando; e se la signora Thatcher avesse saputo dei suoi accordi con Diana? Dopotutto, le vicende passate presenti e future della loro “relazione” doveva pur conoscerle a menadito, poiché a suo tempo, ne era stato informato anche suo fratello a Milano. Quell’esibizione danzante a Kensington Palace poi, doveva aver fatto squillare parecchi campanelli d’allarme. Per molto meno, in passato, c’era chi ci aveva rimesso la testa.
Gianmarco si passò istintivamente una mano sul collo. Decisamente, non erano più quelli i tempi per simili vendette di mariti regali cornificati.
- Comunque, – pensò – ho l’impressione che, anche per questa volta, invece di porre io delle domande, sarà l’intervistata ad interrogare me, e le sue, saranno pure domande molto imbarazzanti. –
Fu buon profeta.

Il Primo Ministro, com’era risaputo, lavorava fino a tardi, ma lavorava sul serio, non come Mussolini (e parecchi altri dopo di lui), che si limitava a tenere la luce accesa fino alle ore piccole, nel suo ufficio di Palazzo Venezia, perché fosse anche chiamato “l’insonne” dalla stampa di regime. Certamente, la signora Thatcher sottraeva parecchie ore di sonno alle sue nottate, del resto, allora cinquantasettenne e madre di tre figli, non doveva più avere molte fregole da soddisfare. Il giornalista, poteva quindi tranquillizzarsi, da quel punto di vista, per sue eventuali cattive intenzioni.
L’entrata al n° 10 di Downing Street è quella riservata a personalità eminenti ed ai membri del governo di Sua Maestà. Il giornalista Demattei invece, persona certo poco nota al grosso pubblico, fu fatto passare dall’ingresso dei fornitori, in una viuzza adiacente. Gianmarco fu guidato al piano superiore da un maggiordomo, fino all’ufficio del Primo Ministro. La signora Thatcher era assisa alla scrivania, una lampada illuminava il suo piano di lavoro e parte della stanza: quella era la posa canonica in cui venivano immortalati, dai giornali inglesi, tutti i primi ministri britannici, da Winston Churchill in poi. Sulla scrivania, alla destra della donna, un bicchiere di whisky e ghiaccio, pieno a metà. La signora Primo Ministro sollevò appena lo sguardo dagl’incartamenti che stava consultando, lo salutò con un gelido:
- Good evening, Mr. Demattei, sit down, please – (buona sera signor Demattei, si accomodi)
Gli indicò una delle poltroncine davanti a sé, diede ancora un’occhiata agli incartamenti, poi, quando il giornalista fu accomodato, si decise a piantargli gli occhi addosso. Congiunse le mani sopra il ripiano e si sporse verso di lui.
- Da quanto tempo è corrispondente per il suo giornale nel Regno Unito? –
- Tre anni ed otto mesi, Ma’am –
Il Primo Ministro lo guardò con un sorriso beffardo dipinto sul volto:
- L’appellativo “Madam”, spetta soltanto alle donne d’alto lignaggio, io sono soltanto la figlia di un droghiere, non li legge i giornali, Mr. Demattei? –
- Io sono figlio di un impiegato di banca, ma se qualcuno si azzardasse a prendersi delle confidenze non autorizzate con me, lo scorticherei vivo, signora Primo Ministro. Il titolo “Madam” oppure Ma’am nella forma contratta, per quanto di derivazione francese, è comunque usato correntemente in Inghilterra, non lo adoprerei con una bidella, non vedo cosa ci sia di male usarlo con lei –
La donna, che di lì a qualche anno, nei rapporti con il prossimo, si sarebbe fregiata nientemeno che del “plurale maiestatis”, come la Regina Elisabetta, in quel momento incassò la frecciatina e passò ad altro.
- Come certamente avrà immaginato, non l’ho convocata per un’intervista, vorrei invece porle io delle domande di carattere… diciamo così, un poco personale – S'interruppe con una pausa studiata. Faceva sempre così, quando voleva innervosire gli interlocutori.
Gianmarco non era innervosito, era terrorizzato, ma da buon attore, qual era sempre stato, non lo diede a vedere.
Dopo la pausa ad effetto, la signora Thatcher sparò la prima scarica di fucileria:
- Quali sono i suoi rapporti con i membri della Royal Family? –
- Ottimi, Ma’am, con alcuni membri. Con la Regina, il Principe Filippo, la Regina Madre, la Principessa Margareth, la Principessa Anna, il Principe Andrea, il Principe Edward, non intrattengo alcun rapporto, neppure li conosco, né loro, suppongo, conoscono me. Gli unici due che non ho citato, ho avuto occasione di conoscerli molto bene… in senso letterale, ovviamente, non in senso biblico, lei mi capisce –
Recita un vecchio motto: “I cani mordono soltanto quando hanno paura”. La signora Tatcher se l’era proprio voluta. Infatti impallidì, non aveva l’abitudine di trattare con persone che le tenessero testa, non conosceva abbastanza, del resto, la spavalderia degli italiani: quando gli italiani erano spavaldi, erano anche più temibili dei guasconi, di buona memoria.
- Visto e considerato che lei ha capito benissimo lo scopo di questo colloquio, metterò subito le carte in tavola e le domanderò quindi quali sono, e quali sono stati, i suoi rapporti con la Principessa Diana –
Seconda scarica di fucileria, questa volta con morti e feriti.
- I miei rapporti personali con la Principessa Diana, sono improntati alla massima correttezza, anche considerando il rango della persona in questione. Come dovrebbe ben sapere dai rapporti che i servizi segreti le avranno certamente inviato, nulla di più che decente e corretto è intercorso tra me e la signora suddetta, anche quando la stessa, non aveva ancora acquisito il titolo di Principessa di Galles –
- Vedo che lei è degno fratello di Mr. Roberto Demattei, ma ora, vorrei sottoporle, giacché lei asserisce, essere i sui rapporti con la principessa, improntati alla massima correttezza, vorrei sottoporle, come dicevo, un brano di conversazione tra lei e Sua Altezza la Principessa Diana –
Così dicendo, la signora Primo Ministro, trasse dal cassetto della scrivania alcuni fogli dattiloscritti, inforcò gli occhiali, cercò la pagina prescelta ed incominciò a leggere a voce alta:
- “… per ora sei soltanto un’affascinante ragazza con una corona in testa: quando tutti questi vecchi babbioni incipriati, non potranno più fare a meno di Diana Spencer, anzi, di sua Altezza Reale la Principessa Diana, allora e soltanto allora potrai scaricarli… “ –
La signora Thatcher sollevò lo sguardo, si tolse gli occhiali, poi, guardandolo bene in faccia domandò:
- Riconosce queste parole Mr. Demattei, debbo continuare a leggere?
Questa volta non erano soltanto fucilate, ora entrava in campo anche l’artiglieria pesante, e lo stava bombardando. Avrebbe dovuto immaginarsi che siccome la Royal Family era sottoposta a misure di sicurezza eccezionali, in quella sala da ballo dovevano essere stati installati dei microfoni direzionali molto sensibili, che avevano captato tutta la loro conversazione. Notò che la signora Thatcher lo guardava ora con un’aria tra lo strafottente e il divertito, ma Gianmarco ebbe ancora la padronanza di sé per non lasciar trasparire nulla delle sue emozioni. Con finta noncuranza, infilò la mano destra nella tasca della giacca e n'estrasse una busta gialla di medie dimensioni. Con studiata lentezza la posò sulla scrivania del Primo Ministro, quindi tornò ad accomodarsi sulla poltroncina.
- Lei, signora Primo Ministro, quelle parole come le interpreterebbe? Anche tenendo conto del loro contesto, che certamente conoscerà –
Ma la signora Thatcher, ritenendo ormai di avere il coltello dalla parte del manico, era risolutamente decisa a sfruttare il vantaggio:
- Si rende conto, Mr. Demattei, che con le parole da lei pronunciate in quell’occasione, ci sarebbe tanto da accusarla di complotto e da farla espellere dal Regno Unito? –
- Perché non l’avete fatto, perché s’è scomodato il Primo Ministro in persona, per un compito che avrebbe potuto tranquillamente svolgere un ispettore di Scotland Yard? –
- Non ho finito, Mr. Demattei - nel pronunciare queste parole, la signora Thatcher alzò sensibilmente la voce.
- Neppure io ho finito. Apra quella busta, anch’io ho qualcosa da farle leggere, Ma’am! –
Ora Gianmarco rispondeva agli attacchi schierando i suoi carri armati sul campo di battaglia.
Sapeva fosse tosta la donna che gli stava davanti, ma ancora non immaginava quanto: ebbe modo di costatarlo. Mrs. Thatcher, puntò il dito sulla busta gialla:
- In quella busta, se le informazioni che ho ricevuto sono esatte, si trovano alcune fotocopie di lettere da me firmate ad alcuni membri della “Loggia P2”, precisamente ai signori Calvi e Gelli, per ringraziarli dei contributi versati illegalmente dal Banco Ambrosiano al partito conservatore, durante la campagna elettorale del 1979. Inoltre, se ben ricordo, si dovrebbero trovare, sempre in fotocopia, gli estratti conto di una banca svizzera, che attestano l’avvenuto prelievo di questi finanziamenti, da parte del segretario amministrativo del partito conservatore. Ho indovinato Mr. Demattei? –
Gianmarco annuì sorridendo, in realtà era furioso, gli avevano sciupato quasi tutta la sorpresina. Ora, piovevano missili terra-terra sulle sue truppe:
- Complimenti, Ma’am! Vedo che il sistema informativo satellitare “Echelon”, che voi condividete con americani, canadesi, australiani e neozelandesi, funziona molto bene. Siete infatti riusciti ad intercettare anche i fax diretti alla mia abitazione di Coleherne Court, che del resto avete, già da tempo, provveduto a riempire di microspie. Peccato però che non sia così efficiente, per esempio, quando si tratta d’intercettare la preparazione di attentati terroristici. Detto questo, nella sua descrizione, si è scordata di elencare un altro documento, la cui fotocopia si trova in quella busta. Non poteva conoscerne l’esistenza, perché non mi è stata inviato per fax, bensì recapitato a mano, nel mio ufficio di Fleet Street –
S’interruppe per vedere se sul viso della donna apparisse qualche segno di turbamento. Fatica sprecata, era proprio tosta, continuava ad ascoltarlo impassibile. Decise di andare avanti:
- Conosce la direttiva 86935, il documento riservato, uscito da quest'ufficio, per il Ministro della Difesa, in cui si segnala l’arrivo in Gran Bretagna del, da lei citato, signor Calvi, sotto falso nome ed in cui raccomandate ai servizi segreti, che fanno capo alla Difesa, di “Neutralizzare preventivamente ogni eventuale possibilità che Mr. Calvi venga a contatto con organi di stampa, oppure ad ambienti vicini alla stampa medesima”? –
S’interruppe di nuovo, la signora era leggermente arrossita: alla buon'ora! Il Cruise-missile a testata nucleare che le aveva lanciato contro, aveva colpito nel segno.
- Il signor Calvi – continuò lui - come certamente lei saprà, è stato rinvenuto impiccato il mese scorso, proprio qui a Londra, sotto il ponte dei Frati Neri. Bella gratitudine! – concluse.
La signora Thatcher non aveva a disposizione, in quel momento, bandiere bianche da sventolare, a differenza degli argentini alle Falkland, ma gli fece chiaramente capire di averne abbastanza di quei ricatti incrociati, mascherati da preamboli.
- Mr. Demattei, veniamo al sodo, fino ad ora mi ha dimostrato di essere una persona che sa prevenire i pericoli, complimenti! Ma non l’ho convocata per ricattarla, volevo soltanto vedere… di che pasta fosse fatto –
Si fermò per riordinare le idee. La signora, doveva aver capito che il giovanotto che le stava davanti, Machiavelli lo conosceva meglio di lei, non si limitava soltanto a citarlo per far colpo su quell’ignorantella di Diana.
- Come lei stesso ha intuito, non ho mai avuto l’intenzione di espellerla dal Regno Unito. E’ un ottimo giornalista, amico della Gran Bretagna e soprattutto amico…dell’attuale governo della Gran Bretagna –
- Come lo era anche Calvi? – domandò ironico l’ospite.
- Mr. Calvi era un perdente fallito, per di più in fuga, e noi inglesi, non amiamo né i perdenti, né i falliti e men che meno quelli che fuggono, specialmente se costoro, in passato, ci hanno reso dei favori. A proposito, come ha ottenuto quel documento? –
- Me l’ha regalato un inglese un po’ atipico, Ma’am. Pensi che costui ritiene che agli amici ed a quelli che ti hanno reso dei favori, si debba riservare un minimo di gratitudine, e non una morte ignominiosa, sotto ad un ponte, facendola passare per un suicidio –
- Si vede che lei non ha molta dimestichezza con la politica, Mr. Demattei! –
- Si vede che lei non ha molta dimestichezza con gli esseri umani, Mrs. Thatcher! –
- E’ probabile, caro signore, a ciascuno il suo. Come Primo Ministro, ho ereditato dai miei illustri predecessori, un paese in sfacelo, un paese che assomigliava un po’ troppo all’Italia da dove lei proviene. Forse le ricette “italianiste” funzioneranno egregiamente… in Italia, qui in Inghilterra no. Mr. Demattei, mi creda, il Dottor Calvi era ormai diventato per tutti, una mina vagante. Se fosse finito nelle mani sbagliate, avrebbe fatto sicuramente la stessa fine, inoltre, avrebbe causato, forse, qualche danno a questo governo, ma molti di più e più devastanti, sarebbero stati i danni inferti al governo italiano, alle sue Istituzioni, alla NATO e, a quanto mi risulta, anche al Vaticano – e con un cenno, gli fece capire che quella parentesi era definitivamente chiusa.
Gianmarco si trattenne dal risponderle (per la verità, in quel momento avrebbe voluto strangolarla), la donna non gli aveva ancora spiegato cosa volesse da lui.
- Mr. Demattei, sbaglia a giudicarmi una persona arida, dopotutto sono anche una moglie ed una madre. Ho bisogno anche del suo aiuto e dell’aiuto di suo fratello, come e più di quella sciocchina della Principessa di Galles, la quale, pensa solo a se stessa. Io, se permette, forse anche perché sono meno avvenente e soprattutto perché sono eletta dal popolo, debbo invece badare a parecchi affari di Stato –
- Vuole che m’intenerisca, signora Primo Ministro? –
- No, voglio che mi ascolti. Dalle relazioni dei servizi d’informazione sul suo conto, si deduce che la sua famiglia esercita ed eserciterà in futuro, un’influenza decisiva sulle sorti politiche del suo Paese ed anche fuori. Mi sto forse sbagliando? –
- Signora Thatcher, più che una statista, mi sembra adesso una chiromante, io sono soltanto un modesto giornalista, mio fratello è… -
- …Suo fratello è un uomo d’affari influente, con agganci politici importantissimi, sta crescendo ad una velocità vertiginosa, quale lei stesso, nemmeno si rende conto. Le attività che ha messo in piedi, specie quelle televisive, nel giro di pochi anni, lo renderanno una persona…molto interessante, sia dal punto di vista finanziario che da quello politico. Se a questo aggiungiamo l’amicizia con l’onorevole Craxi, persona che, sempre da nostre informazioni, raggiungerà molto presto la carica di Primo Ministro… alle conclusioni, ci può arrivare anche lei –
- Accidenti! – pensò Gianmarco – Che sviolinata: Marylin Monroe non avrebbe saputo essere più seducente che questa tardona, ora come le rispondo? –
Ma la “Dama di ferro”, partita in tromba, continuò con la sua filippica:
- Ed ora, veniamo a lei, Mister Gianmarco Demattei …–
Aprì di nuovo il cassetto, ne trasse l’ennesimo incartamento, si mise di nuovo gli occhiali e riprese a leggere:
- Trentadue anni, tre lauree. In poco tempo è diventato un giornalista di fama internazionale, cura gli affari della finanziaria di famiglia presso la “City” di Londra, dove ha accumulato una notevole fortuna. Tratta l’acquisto e la vendita di intere partite di serial televisivi e di opere cinematografiche americane e britanniche, mantiene rapporti amichevoli con influenti membri della Royal Family… -
- …E del Governo britannico – suggerì Gianmarco, con un sorrisetto malizioso.
Margareth Thatcher, si tolse gli occhiali stizzita ed aggiunse, a sua volta:
- Sì, anche con influenti membri del Governo britannico… tentando pure di ricattarli! – poi riprese a leggere - In gioventù, quand’era ancora studente universitario, ha intrattenuto relazioni con personaggi legati al terrorismo italiano, giovandosene in seguito nella sua carriera giornalistica. Si dice, ma non ve ne sono le prove, che abbia avuto persino rapporti con la mafia e la malavita organizzata, per riciclare denaro proveniente dal traffico di droga … -
- Questa non è una diceria, è una balla colossale, messa in giro dai nemici di mio fratello. Signora Primo Ministro, quel che è scritto in quel rapporto è tutto vero, tranne quest’ultima affermazione. Non ho mai avuto rapporti d’alcun tipo con elementi della mafia o con altri delinquenti, né mi risulta li abbia mai avuti mio fratello, tranne, che io sappia, per un episodio… -
- …Di uno stalliere assunto nel 1974, per proteggere i figli di Roberto Demattei, il quale, risultò poi essere uno spacciatore di droga al soldo della mafia. Sappiamo anche questo, Mr. Demattei; lei converrà, che sul suo conto ci siamo documentati per bene. Però, ho l’impressione che in queste informazioni manchi la cosa più importante: qual è il suo ruolo in tutta questa vicenda. Detto in poche parole, che ci fa lei qui? –
- Gliel’ho spiegato, signora Thatcher, sono un giornalista corrispondente da Londra, occasionalmente, per ora, mi occupo di compravendite di titoli presso la City e di acquisti di diritti televisivi per le reti di mio fratello –
Il Primo Ministro tornò a scrutare l’incartamento per qualche minuto, quand’ebbe finito esclamò:
- Well! Veniamo al dunque, ho alcune proposte da farle, o da fare a suo fratello. Non le chiederò d’impegnarsi subito con un sì o con un no, ma di girare la mia proposta a chi di dovere; vi darò una diecina di giorni per decidere, dopodiché prenderemo i provvedimenti che il caso richiede. Vorrei inoltre raccomandarle, Mr. Demattei, di essere molto avveduto con la Principessa di Galles, si tratta di una donna fragile e malata. Il suo matrimonio si è rivelato un grosso errore da parte della Royal Family; errore che si ripercuoterà gravemente sul prestigio della nostra monarchia e forse, che Dio non voglia, anche sulle nostre istituzioni più solide –
- Le proposte che ha da espormi, riguardano forse Lady Diana?–
- Assolutamente no! Per chi mi ha preso, per una ruffiana? Qui si tratta di cose serie, altro che le corna della famiglia Windsor – poi, con voce più pacata: - Però, se nel piatto dobbiamo aggiungere anche la principessa, se la cosa la può allettare… Vedremo –
- E s’incazza se la prendo per una ruffiana! – pensò lui, mentre aguzzava le orecchie.


Era quasi l’una del mattino, quando Gianmarco uscì dalla porta di servizio della residenza del Primo Ministro. Si avviò nel buio verso altre strade un po’ più frequentate. Era stanco e aveva la testa come un pallone.
- Certo che quando Margareth Thatcher attacca con una delle sue filippiche, sarebbe anche capace di vendere ghiaccio ad un eschimese. Non mi ha lasciato molta scelta e credo non l’abbia neppure Roberto, dopo che avrà sentito quello che gli ha proposto quella benedetta donna –
Gianmarco interruppe il filo dei suoi pensieri, si voltò di scatto, aveva la sensazione che qualcuno lo stesse seguendo. Non c’era da stupirsene, dopo quello che gli aveva proposto la “Lady di ferro”, ma la cosa lo innervosiva ugualmente.
- E pensare che Roberto ha convinto Montanelli a spedirmi a Londra perché non mi cacciassi nei guai in Italia! –
Accelerò il passo, doveva raggiungere al più presto la vicina Whitehall e prendere un taxi; voleva dormire, la mattina dopo avrebbe preso il primo aereo per Milano, doveva parlare con Roberto, per esporgli le proposte della Thatcher. Naturalmente non c’era tempo da perdere. Chissà se Roberto era venuto a sapere di quel colloquio informale.
Credeva di conoscere abbastanza bene Roberto, per prevedere che avrebbe accettato. Era la prima volta che era investito del ruolo di ambasciatore, la cosa, in fondo, non gli dispiaceva. Se soltanto… quel fesso che lo stava seguendo, non avesse avuto cattive intenzioni nei suoi confronti. Dopotutto, fino a quel momento, non aveva di che lamentarsi: era entrato tra i denti dello squalo, gli aveva stuzzicato le gengive e ne era riuscito indenne:
- Almeno, lo spero – esclamò tra sé, guardandosi alle spalle un’altra volta.
La Whitehall era sempre stata una strada molto movimentata, anche a quell’ora. Gianmarco sapeva che, in fondo alla via, avrebbe trovato un parcheggio per taxi, ma doveva arrivarci. I passi del suo segugio si stavano avvicinando, stimò opportuno prendere il toro per le corna. Già si stava vedendo penzolante, con la corda al collo, sotto qualche ponte di Londra, ma con lui sarebbe stato un po’ più difficile. Si voltò di nuovo verso la persona che lo stava pedinando, neppure alle Falkland aveva mai portato armi e neppure aveva imparato ad usarle, però sapeva sparare cazzotti, ma sarebbero bastati?
Una voce dal buio:
- Giamma, ce ne hai messo di tempo per accorgertene! –
Quella voce. Una voce dal tono calmo e cordiale, ed al tempo stesso ironica e minacciosa. Proprio lì, a Londra!
- Matteo! Mi hai messo una fifa addosso che… - il giornalista aveva finalmente riconosciuto l’amico, ed ora, alla luce di un lampione vicino, il suo faccione rubicondo gli appariva in tutto il suo splendore mentre s’avvicinava a lui – Che ci fai in Inghilterra? –
Matteo, arrivato a mezzo metro gli tese la mano. I due se la strinsero.
- Ti sto proteggendo, è il mio nuovo incarico, ormai, come informatore sulle questioni di terrorismo sono “bruciato”, così tuo fratello mi ha fatto assumere direttamente come fattorino del “Giornale” e mi ha spedito qui. Sono a Londra da una settimana e da sei giorni ti sto alle calcagna. Questa volta, ho deciso di farmi riconoscere, almeno da te. Capirai, non capita tutti i giorni di pedinare qualcuno fino al numero dieci di Downing Street –
- Complimenti! Sei a Londra da una settimana, una città che neppure conosci, eppure riesci a starmi alle costole per tutto questo tempo, senza che me ne accorga -
- Modestamente, di essere una brava spia, l’ho sempre saputo–
- Ed ora, che intenzioni hai? –
- Veramente, tu devi spiegare a me le tue intenzioni. Io sono qui perché non ti accada niente. Mi sono accorto di non essere il solo a pedinarti. Davanti a casa tua, a Coleherne Court, sosta sempre, giorno e notte, un’auto con due uomini a bordo, la stessa cosa succede davanti all’ufficio di Fleet Street –
- Fortunatamente, di essere costantemente sorvegliato, me ne sono già accorto, in queste ore poi ne ho avuto la conferma ufficiale, ma non me ne preoccupo più di tanto. Mi stavo piuttosto domandando, chi fosse quel cornuto che continuava a tampinarmi in modo tanto indiscreto: eri tu! –
- Perché, a questo punto, mi sono voluto smascherare, ma se avessi voluto… eliminarti, saresti passato a miglior vita, senza neppure accorgertene –
- Bene, perché per qualche giorno ti eviterò la fatica di corrermi dietro. Domattina parto per Milano, vado a trovare mio fratello. Se vuoi seguirmi fino a là fallo pure, però ritengo opportuno che tu rimanga qui a Londra. A proposito, dove sei alloggiato? –
- In una topaia di pensione nei pressi di casa tua –
- Sloggia, da stasera abiterai nel mio appartamento; se vuoi farmi da guardia del corpo, sarà bene tu lo sia a tempo pieno ed a tutti gli effetti. Come ti dicevo, domani parto per Milano; intanto, avrai modo d’impratichirti in santa pace nelle tue nuove mansioni, che, ad ogni modo, vedo sai svolgere egregiamente anche senza i consigli di chi conosce l’ambiente da più tempo –
- Levami una curiosità, che ci sei andato a fare dal Primo Ministro, solo soletto ed a quest’ora? –
- D’ora in avanti, come guardia del corpo, non sei più tenuto a sapere i miei segreti d’ufficio –
Gianmarco s’accorse subito di essere stato troppo brusco e si corresse:
- La signora Thatcher mi ha proposto un affare, che se Roberto sarà furbo, potrebbe portarci parecchi vantaggi e… qualche rischio. Domani, vado da lui a riferirgli, dovrà decidere –
Matteo non volle approfondire, ormai era alle sue dipendenze dirette.
- Stavi per prendere un taxi? – domandò Matteo.
Gianmarco annuì e proseguì:
- Ti do un passaggio fino alla tua pensione per prelevare i bagagli, poi andremo a casa mia. Comincia da questo momento la tua nuova vita da londinese –

- Non capisco più niente – Matteo gli gettò sulla scrivania la copia della “Pravda” del 12 Novembre 1982.
Gianmarco diede un’occhiata ai caratteri cirillici del quotidiano sovietico. All’università, aveva frequentato un corso accelerato di lingua russa, ma in testa gli era rimasto impresso ben poco; a malapena era in grado di decifrare i caratteri inventati millecinquecento anni prima, dai santi Cirillo e Metodio per insegnare le Sacre Scritture ai popoli slavi ortodossi.
- Beato tu, che non ci capisci niente dopo averlo spulciato per più di un’ora, e dire che sono soltanto quattro pagine. Io comincio già a non capirci un cavolo dopo dieci secondi di lettura – osservò ironico Gianmarco.
La lettura della Pravda, per Matteo era molto più eccitante che non una rivista “hard” per un maniaco sessuale, ma questa volta, la sua guardia del corpo, nonché “Cremlinologo” per l’ufficio di Londra del “Giornale”, aveva trovato pane per i suoi denti.
- Non capisco perché, non citino più alcuno dei detti e dei fatti del compagno Presidente Leonid Breznev; intanto, hanno intonato un inno funebre per Kirilenko. La Pravda fa capire che è morto –
- Se è morto Kirilenko, perché dovrebbero citare Breznev? – domandò Gianmarco.
- E’ il presidente dell’Unione Sovietica! Vuoi che il capo dello Stato, non debba scomodarsi a scrivere due righe per commemorare la morte di uno dei suoi più autorevoli reggicoda al Soviet Supremo, nonché al Comitato Centrale?–
- Se è conciato male, come dicono, avrà tutt’altri pensieri per la testa. Se ricordi, tre giorni fa lo abbiamo visto tutti in televisione, alla parata sulla Piazza Rossa mentre boccheggiava come una triglia. Aveva chiaramente problemi di respirazione, se non addirittura problemi cardiaci –
- No, Gianmarco, la Pravda non scrive espressamente né della morte di Kirilenko, né, naturalmente, di quella di Breznev, bensì parla di luttuosi avvenimenti ai vertici del partito, di grave perdita per l’Unione Sovietica e di riunioni fiume del “Politburo”. Alla fine dell’articolo si fa il nome di Kirilenko in uno stile commemorativo, come se fosse passato a miglior vita –
Gianmarco rinunciò a ribattere. Anche se avesse padroneggiato la lingua russa, come in quell’ufficio sapeva fare soltanto Matteo, avrebbe perso ugualmente la bussola cercando di destreggiarsi con la prosa contorta del quotidiano sovietico, per il quale, da sempre, una notizia data espressamente, non poteva essere che una bugia.
- Per me è stato Breznev a tirare le cuoia – mormorò Matteo.
- L’hanno dato per spacciato già una dozzina di volte –
- Ci sono troppe… divagazioni, troppi ammiccamenti in questi articoli; è come se l’estensore o gli estensori del medesimo, avessero una paura folle di ciò che potrebbe accadere dopo, come se volessero preparare l’opinione pubblica sovietica a grossi cambiamenti, che nemmeno loro sono in grado di prevedere –
- Sei sicuro di quel che stai dicendo? –
Gianmarco incominciava ad essere incuriosito, ma dopotutto, dove lavoravano era l’ufficio di Londra; per Mosca c’era sempre stato Edmund Stevens, l’americano amico di Montanelli dagli anni trenta, nella cui dacia, alla periferia della capitale sovietica, venivano spesso a bere vodka ed a spettegolare i vari caporioni del Kremlino.
- Possibile che solo noi abbiamo avuto questi sospetti? Dacché nessun'agenzia, nessuna televisione, nessuna radio, nessun giornale di nessuna parte del mondo ne ha dato la benché minima notizia, dopotutto, a Mosca abbiamo Stevens che possiede orecchie e naso finissimi –
- Quando non è sbronzo, purtroppo; gli anni e l’alcol hanno lasciato più di un segno su di lui – osservò Matteo – Sentimi bene, Gianmarco: per anni ho finto di reclutare terroristi, per conto dei servizi segreti dei paesi dell’Europa orientale. A Mosca, alla Lubianka, mi conoscono bene, fino a poco tempo fa credevano ancora in me. Hanno sempre pensato che io fossi l’uomo che serviva loro per infiltrare ed esfiltrare spie, killer, bombaroli e balordi d'ogni sorta, da usare in azioni di sabotaggio o spionaggio in Italia; io li valutavo, li soppesavo, vedevo se erano adatti a quel ruolo, poi li spedivo in Cecoslovacchia per addestrarsi e quindi….-
- Li denunciavi ai nostri servizi segreti – concluse Gianmarco.
- Non tutti, e non tutti quelli che denunciavo erano smascherati. Spesso e volentieri costoro erano lasciati liberi di agire indisturbati, per avere una pesca più abbondante quand’era il momento di “tirare le reti”. Tutto questo, fino a quando non diventarono incontrollabili e soprattutto, fino a quando abbiamo avuto un servizio di spionaggio degno di questo nome. Nel 1972, l’apparato del SID che si occupava dei doppiogiochisti è stato smantellato; da allora, è cominciato il periodo più nero del terrorismo: sparizioni, attentati, ammazzamenti, stragi –
- Un bel disastro! –
- Di cui pagheremo le conseguenze per almeno vent’anni. Adesso, per venire a capo del terrorismo, i responsabili politici e dei servizi di sicurezza, hanno dovuto stringere, in tutta fretta, accordi subalterni con la CIA, l’Intelligence britannica, il “Mossad” israeliano, infine, anche con la mafia. Costoro, prima o poi, ci presenteranno il conto ed ho la certezza, che si tratterà di un conto molto salato –
Gianmarco annuì, molto probabilmente quel conto, qualcuno di quei signori, l’aveva già mandato all’incasso. Pensò a quel che era successo, due mesi prima, al generale Dalla Chiesa ed a sua moglie. Poi si riscosse:
- Molto interessante Matteo, ma tutto questo non spiega la tua asserzione sulla morte di Breznev –
- Il fatto è che quando mi metto a divagare…, torniamo a bomba (è proprio il caso di dirlo). Quello che ti volevo dire, con questa premessa è che io i sovietici li conosco bene, non come il tuo amico Stevens, che da cinquant’anni se la spassa nella sua dacia di lusso, munito d'ogni confort per indurre i dirigenti del Kremlino a dire qualche parolina in più. Io ho rischiato la pelle, io il mondo dell’Est europeo, l’ho conosciuto dal suo lato peggiore, quello della miseria materiale e morale e dei sui derivati: la doppiezza, il tradimento, la violenza e la sopraffazione – lo guardò fisso negli occhi – Non posso permettermi di analizzare alla carlona, mio bel giornalista. Se, in passato, avessi commesso simili errori, sarei sottoterra da un bel pezzo. Dammi retta, Breznev è morto, quelli lì – e indicò la copia della Pravda – Stanno soltanto cercando di guadagnare tempo, per mettersi d’accordo su chi tra loro dovrà succedergli –
Gianmarco stava per aprir bocca, Matteo lo troncò con un:
- Lo sento! –
Gianmarco, a questo punto, sentì anche lui il bisogno di un po’ di riflessione, andò alla finestra del suo ufficio, guardò in lontananza i battelli sul Tamigi. Sette mesi prima aveva fatto la stessa cosa mentre stava riflettendo se imbarcarsi per le Falkland.
Inutile telefonare alla sede di Milano per avere delucidazioni; la conversazione sarebbe stata intercettata, tanto valeva chiederle direttamente a quelli che gli sorvegliavano il telefono: al servizio segreto inglese. Era giunto il momento di collaudare l’accordo stipulato con la Thatcher tre mesi prima. Quel 1982, era proprio destinato ad essere movimentato.
- Matteo, scusami ma debbo fare una telefonata riservatissima, ti prego di uscire per qualche minuto dall’ufficio –
Guardò dispiaciuto la sua guardia del corpo, il quale, con un sorrisetto furbo, uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Gianmarco fissò il telefono per qualche minuto. Era la prima volta che ricorreva all’aiuto del servizio informazioni britannico. Fino ad allora, l’accordo con la Thatcher era solamente costato, non aveva reso praticamente niente. Alla fine di ogni mese, dall’agosto di quell’anno, un bonifico di duecentomila dollari, era accreditato su di un conto corrente in una banca elvetica da un altro conto corrente intestato ad una società fantasma, facente capo alla RDC di suo fratello. Il conto beneficiario era naturalmente intestato ad un altro prestanome, probabilmente faceva riferimento a qualcuno molto vicino al governo britannico. In cambio, il governo inglese avrebbe lasciato in pace le attività di suo fratello in Gran Bretagna ed in altre parti del mondo. Soprattutto, avrebbe cessato di fornire informazioni sul suo conto alle autorità italiane, le quali, da quando Roberto era diventato anche un magnate televisivo, non perdevano l’occasione di mettergli i bastoni fra le ruote e di ricattarlo, temendone la concorrenza sul piano dell’informazio- ne e della politica.
Il giornalista ripensò a quant’era avvenuto l’anno prima, grazie alle informazioni che la massoneria britannica, tramite il SIS, aveva dato alla Magistratura italiana sugli intrallazzi di Gelli e della P2. Il Governo italiano, allora in carica, fu costretto alle dimissioni, con il governo finirono a gambe all’aria alcune banche, l’editore e il direttore del “Corriere della Sera”, furono sbaraccati per l’ennesima volta i servizi segreti, lo Stato Maggirore al completo delle Forze Armate ed i principali responsabili della pubblica sicurezza.
Tutto questo, in un periodo di riacutizzazione della guerra fredda ed in una fase cruciale della lotta al terrorismo, in Italia e nel mondo. Avrebbero combinato chissà quali altri disastri se, con molta probabilità, il governo americano non fosse intervenuto pesantemente su quello inglese, obbligandolo a troncare il flusso di notizie riservate che gli inglesi continuavano a fornire allegramente. Perché l’avevano fatto? Per vendicarsi contro il Vaticano per l’appoggio dato all’IRA? Per contribuire a far saltare lo SME, il sistema monetario europeo, al quale gli inglesi non avevano aderito, non sentendosi pronti a sostenerne l’onere? Qualche altra vendetta politica? O forse, altre ragioni più recondite?
Una cosa era certa, gli Inglesi, pur non essendo più da parecchio tempo i padroni del mondo, quando si mettevano in testa di buttare all’aria qualche governo che non andava loro a genio, erano ancora in grado di farlo. I politici italiani (e non soltanto loro) se ne sarebbero accorti una decina d’anni più tardi, quando, in occasione di “tangentopoli”, si sarebbero trovati di nuovo alla paralisi politica, economica e amministrativa, perché quel governo aveva ripreso a fornire notizie riservate alla Magistratura sulle loro malefatte. Però, questa volta gli americani non sarebbero intervenuti per salvarli, anzi, nell’ansia di vendicarsi della vicenda di Sigonella, avrebbero dato il loro fattivo contributo alla demolizione di Craxi e Andreotti.
Ma negli anni ottanta, le cose erano ancora abbastanza semplici. Un nemico era un nemico ed un alleato andava comunque aiutato e soprattutto, andavano rispettati i patti stipulati con lui.
Un corollario degli “Accordi di Downing Street”, come li aveva chiamati Gianmarco, obbligava il gruppo di Roberto a comunicare al governo britannico di quanto bolliva in pentola in Italia. Dal momento che Roberto era proprietario, oltre alle televisioni, anche di un importante quotidiano ed era ammanigliato con altri organi di stampa, poteva, in Italia, avere accesso a numerose fonti d’informazione. In cambio, gli inglesi, se l’avessero ritenuto opportuno, fornivano a Gianmarco notizie e ragguagli tempestivi su gli atti del governo inglese, che avessero potuto procurargli vantaggi economici. Il giornalista valutò che fosse ormai il caso di chiedere finalmente qualcosa, in cambio delle onerose donazioni fino a quel momento elargite.
Gianmarco afferrò la cornetta e compose il numero che, per ragioni di sicurezza, aveva mandato a memoria, senza scriverlo. Dopo pochi secondi qualcuno rispose alla chiamata:
- Qui è…. (diede il suo nome convenzionale), mi passi il mio corrispondente –
Dopo un minuto d’attesa, una voce che non aveva mai sentito prima gli domandò quel che desiderasse.
- Abbiamo forti sospetti che a Mosca sia morto Breznev, la notizia, se confermata e data in anteprima, avvantaggerebbe il nostro giornale, in termini sia di tiratura che di prestigio internazionale –
L’uomo all’altro capo de filo tacque per qualche istante, poi con voce sicura:
- Se fosse vera, si tratterebbe di un’informazione classificata. Per avere una conferma dovrei chiedere istruzioni ai miei superiori, comunque posso dirle che pure noi, per quanto ne sappia, abbiamo ricevuto notizie in tal proposito da altre fonti, beninteso a livello di voci di corridoio. Se lei desidera una conferma, dovrà attendere una mia telefonata, il tempo di consultare gli organi competenti –
L’uomo del servizio, detto questo, riattaccò senza tanti complimenti.
- Al diavolo la burocrazia – esclamò Gianmarco all’indirizzo della cornetta ormai muta – Vorrà dire che anch’io consulterò i miei organi competenti, ed ho l’impressione che lo siano più dei vostri –
Si decise quindi a telefonare alla redazione di Milano. Gian Galeazzo Biazzi Vergani, il vicedirettore, era occupato al telefono, si fece allora passare Montanelli:
- Pronto direttore? Sono Demattei, che aria tira a Milano? –
- Aria di tempesta, come al solito: Spadolini si è dimesso, tra un po’ ci ritroveremo tra i coglioni Fanfani come Presidente del Consiglio –
- Per lei non cambia niente, sempre di suoi corregionali si tratta, se ne va un fiorentino ed un aretino lo sostituisce –
- Se tu fossi toscano capiresti la differenza, quasi quasi preferivo lo sostituisse un albanese o un russo –
- A proposito di Russia, ha notizie sulla salute di Breznev? –
- Tu quoque Gianmarco? Ma è un’epidemia! E’ da ieri sera che Edmund Stevens ci sta rompendo con questa storia. Lui giura che sia morto, glielo ha confermato un personaggio importante della gerarchia sovietica. Secondo Stevens, il buon Leonid ha lasciato questa valle di lacrime dal 10 di Novembre. Ora stiamo valutando il da farsi. Capirai, qui abbiamo sempre il sospetto che Stevens ci mandi le sue informazioni dopo qualche abbondante libagione; comunque, entro questa sera decideremo. Se è vero, domani lanceremo uno scoop mondiale, se è falso, faremo una figura da bischeri, sempre a livello mondiale. Ti dirò, sono molto indeciso, tu sai qualcosa di più? –
- Attendo conferme da organi, diciamo così, riservati –
- Non fidarti degl’inglesi, non l’hai ancora imparato, dopo quasi quattro anni? –
- Loro mi raccomandano sempre di non fidarmi degli italiani, ormai mi considerano uno di loro –
- Finché farai loro comodo –
- Io farò sempre loro comodo –
- Presuntuoso, ti accorgerai! Accertati comunque se anche da quelle parti corrono le stesse voci –
Gianmarco si risolse a chiamare Matteo, che stava aspettando nell’ufficio di Ottavia.
- E’ praticamente confermato, anche Stevens, da Mosca, ha ricevuto una “dritta” in proposito, solo che… -
- Solo che? –
- Solo che al “Giornale” sono perplessi, rischiano grosso a pubblicare questa notizia –
- Ma la pubblicheranno? –
- Conoscendo Montanelli, credo proprio di sì –
Il telefono sulla sua scrivania squillò, Gianmarco sollevò la cornetta:
- Qui è il suo corrispondente, ho appena ricevuto conferma dai miei superiori: la notizia da lei riferitaci è destituita di fondamento, si tratta invece della morte di Kirilenko; questo ha tratto in inganno molti organi d’informazione, compresi voi. Buona giornata –
Gianmarco riattaccò, poi commentò sottovoce:
- E per sentirci dire queste stronzate, paghiamo duecentomila dollari al mese. Se almeno avessero consultato il reparto incaricato di controllarci i telefoni, mentre stavo parlando con il direttore a Milano … -
- Dicevi? – domandò Matteo.
- Ti stavo dicendo che domani il “Giornale” farà un bel botto. Ora, ho quasi la certezza matematica che Breznev è proprio morto, e che tu sei…un grandissimo figlio di buona donna! Anzi, ora ritelefono a Montanelli e gli confermo che anche per miei informatori, la notizia è esatta –
- Non ne ho mai dubitato – gli rispose Matteo ridendo.

Il giorno dopo, il “Giornale” di Milano pubblicò la notizia della morte di Leonid Breznev in esclusiva mondiale, ma un residuo di dubbio da parte della direzione lo fece uscire con un titolo assurdo:
“Breznev è morto, ma forse si tratta di Kirilenko”
Mario Cervi s'incaricò di scrivere in fretta un articolo di circostanza senza firma, nel quale qua e là affiorava qualche dubbio. A Milano “strizzarono” per oltre dodici ore, fino a quando tutte le agenzie e le TV del mondo lanciarono la notizia. Dall’URSS agli Stati Uniti, dalla Cina all’Africa, a Cuba. Avevano fatto il “Grande Scoop Mondiale”, ma senza crederci del tutto. Pochi giorni dopo, da Edmund Stevens, Montanelli ricevette un telegramma sul quale era scritta una sola parola:

COG**ONE!

Mai, soldi per una comunicazione tanto laconica furono spesi meglio.


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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 7:23 pm

Capitolo XIII


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil11


CRISI DI… AVIDITA’






La pericolosa tendenza a sentirsi appagato stava prendendo anche lui; considerando che aveva appena compiuto trentatré anni, Gianmarco arrivò alla conclusione di aver imboccato una brutta china.
Suo fratello invece era più che mai sulla cresta dell’onda: aveva appena concluso le trattative per l’acquisto di un’altra rete televisiva da un editore che, al solito, s’era avventato nel mondo dell’emittenza con eccessiva leggerezza. Costui, aveva commesso lo stesso errore di tutti quelli che si cimentavano in campo televisivo: rimasto abbagliato dalle possibilità di guadagno, in poco tempo, s’era ritrovato pieno di debiti; non aveva tenuto conto dei sicuri costi d’avviamento per una tale impresa. Rilevandone l’attività, Roberto si mangiò un concorrente e raddoppiò le proprie capacità d’emittenza in un colpo solo. Era ormai questione di mesi, ed anche l’ultimo grosso concorrente nel campo della televisione commerciale, la “Morandi Editore”, sarebbe stato messo fuori combattimento ed avrebbe dovuto vendere, a chi? Naturalmente, sempre a Roberto Demattei. Dal suo osservatorio londinese, Gianmarco guardava a tutto ciò con un distacco che Roberto giudicava eccessivo:
- Non ti starai per caso rincoglionendo? – gli aveva domandato pochi giorni prima al telefono – In Italia, la concorrenza e la Rai, mi stanno mettendo in croce. Mi dipingono come una specie di orco che vuol mangiarsi tutti. Cosa dicono di me a Londra? –
- A Londra, il grosso pubblico, non sa nemmeno chi sia Roberto Demattei; qui, gli “Opinion makers” sono ancora i tabloid popolari, e questi, sono più interessati alla nuova pettinatura di Lady Diana che alle tue scorribande televisive. Inoltre tieni presente che a giugno, anche in Gran Bretagna, ci saranno nuove elezioni; puoi star certo che l’opinione pubblica, sulle vicende italiane in generale, e sulle tue in particolare, è completamente distratta –
- Non volevo sapere cosa pensasse di me l’uomo della strada inglese, ma il mondo dell’informazione. Che dicono quelli del Times o del Daily Telegraph? –
- Perché, a parte il “Giornale”, tu fai anche dell’informazione con la TV? Non me n’ero accorto. Renditi conto, caro Roberto, che senza l’autorizzazione alle trasmissioni in diretta su tutto il territorio nazionale, sulle tue TV, al massimo, potrai mandare in onda dei bollettini parrocchiali, però in differita di ventiquattr’ore –
Era stato troppo pesante, Roberto s’infuriò di brutto:
- Porca soia! Io sono qui che mi faccio il mazzo da mane a sera, per creare un’alternativa all’informazione di stato della RAI, e tu … -
- Volevi davvero sapere quel che pensano di te a Londra? Ebbene, ti accontento subito: sappi che la cosiddetta “stampa di qualità” qui è influenzata dalla “Repubblica” del nostro carissimo nemico Eugenio Scalfari. Almeno per ciò che riguarda le cose italiane, è lui a fare opinione qui in Inghilterra, noi, siamo ammanigliati con l’attuale governo, cosa quest’ultima, molto diversa dall’opinione pubblica –
Gianmarco si morse le labbra. E se adesso Roberto avesse parlato dei finanziamenti al partito conservatore, con i telefoni sotto controllo? Riprese subito il discorso, per impedire lo facesse il fratello:
- Puoi quindi immaginare che razza di campagna ti stanno costruendo sulla piazza londinese, le rare volte che parlano di te –
- Va bene, va bene, quando torni a Milano ne parleremo in maniera più approfondita, per adesso stai sempre in palla; ho notato che Montanelli, da qualche mese a questa parte, si è un poco afflosciato, come se fosse stanco –
- L’ho notato anch’io, rischia di perdere colpi, ma corrono voci di dissapori con Bettiza, una colonna portante della redazione, peccato, proprio ora che stavamo facendoci un nome –
- Il nome ce lo faremo ugualmente, ma in campo televisivo, vedrai che bilanci presenteremo l’anno prossimo. Per quest’anno conto di triplicare il fatturato pubblicitario, ma riparleremo anche di questo. A risentirci, Giamma, torna presto da queste parti! –
Dopo quella telefonata, Gianmarco considerò che per l'anno in corso, il 1983, almeno un piatto di minestra per tutti i giorni era in ogni caso assicurato.

Ogniqualvolta ritornava a Cologno Monzese, sede centrale della “RDC – Roberto Demattei Communications”, la holding che faceva capo alle attività di suo fratello, era preso dallo sgomento. Tutto stava crescendo a vista d’occhio. Il complesso residenziale inaugurato in pompa magna una decina d’anni prima, era ormai occupato quasi per intero da uffici e studi televisivi. Un andirivieni frenetico di operai, tecnici, magazzinieri, segretarie di produzione, registi, attori e attrici più o meno di grido, ballerine, orchestrali, conduttori, giornalisti, direttori di produzione, occupava corridoi e ascensori che, a suo tempo, avrebbero dovuto essere adibiti ad abitazione o uffici di rappresentanza.
Gianmarco, dopo essersi orientato alla bell'e meglio in quel dédalo di corridoi, cercò l’ufficio di suo fratello, o meglio, lo cercò dove si ricordava fosse quando era andato a visitarlo l’ultima volta. In quell’ufficio trovò la sala computer. Dopo molto girare a vuoto, ormai sull’orlo della disperazione, un impiegato impietosito, gli indicò dove, secondo le ultimissime informazioni, s’era trasferito il “patron”.
L’ufficio di Roberto era più grande, anche la scrivania era più grande, le segretarie più numerose, davanti a lui una fila di telefoni, nemmeno fosse diventato il presidente di una compagnia telefonica.
Il presidente della RDC, stava seguendo la registrazione di un varietà che, il giorno dopo, sarebbe stato trasmesso su tutta la rete nazionale. Gianmarco si sedette davanti alla scrivania, Roberto continuava a seguire il varietà ed a prendere appunti su di un taccuino, senza neppure dedicargli uno sguardo. Il giornalista, si sporse sul ripiano, per riuscire a capire cosa stesse scrivendo di tanto importante. Erano annotazioni per il regista, perché modificasse inquadrature, battute, posizione degli artisti; il tutto, secondo i suoi desiderata. Roberto, ogni tanto premeva il tasto di riavvolgimento, per rivederne qualche scena, poi riprendeva con i suoi rilievi scritti.
- Finisco di visionare questo varietà, poi sarò da te – per un momento, bontà sua, s’era distratto per rivolgergli la parola.
Finalmente terminò anche la registrazione. Scritti gli ultimi appunti, Roberto estrasse la cassetta, chiamò una segretaria e gliela consegnò assieme al taccuino. La donna, senza dire una parola, prese l’una e gli altri e sparì dietro la porta dell’ufficio attiguo; evidentemente sapeva già cosa fare.
Roberto si accomodò meglio sulla sua poltrona per ascoltare il magnificat che inevitabilmente Gianmarco avrebbe dovuto recitare al suo indirizzo. Siccome il fratello più giovane non accennava neppure ad aprir bocca, si decise lui ad attaccare:
- Che ne dici della baracca? Come la trovi dall’ultima volta in cui mi hai fatto visita? –
- Un manicomio, un gran bel manicomio, però, la prossima volta, fammi almeno trovare una guida esperta che mi porti fino al tuo ufficio, eri introvabile –
Roberto sorrise compiaciuto.
- Sono gli unici, piccoli inconvenienti quando si cresce a vista d’occhio. Fra qualche mese, nota bene, ho detto fra qualche mese, non tra qualche anno, riusciremo a trasmettere su due canali, in tutta Italia, per sedici ore il giorno. Tieni presente che con gli spot inseriti nelle trasmissioni, riusciremo a triplicare il fatturato pubblicitario… -
- Questo me l’hai già telefonato quand’ero a Londra, non ricordi? –
Roberto si batté il capo sorridendo:
- Ma sì, te l’avevo già detto, però non t’avevo ancora riferito che il fatturato contiamo di quadruplicarlo entro dicembre. All’inizio dell’anno prossimo, avremo sbancato la concorrenza e la “Morandi Editore” sarà costretta a venderci la sua rete televisiva. Con questa sinergia e tre canali televisivi, entro l’84, avremo ulteriormente raddoppiato il fatturato rispetto a quest’anno; per l’85 poi, prevedo di … -
- Ma non stai correndo un po’ troppo? E se qualche pretore ti fa spegnere i ripetitori perché pesti i piedi a qualche politicante, non solo, ma quanto ti è costato rilevare la rete televisiva dell’editore Romanazzi? Questi sono soldoni usciti sicuramente, quelli della pubblicità sono soldini che entreranno ipoteticamente –
- La rete che ho rilevato, l’ho pagata sull’unghia trentadue miliardi –
- Ma è l’utile previsto per la costruzione del complesso residenziale di “Milano Nord 3” –
- Appunto! – confermò Roberto - Vuol dire che quei soldi, invece di mandarli a te per investirli sulla piazza di Londra, li impiegherò in Italia per ampliare l’attività. L’anno prossimo te ne manderò invece un centinaio, ti raccomando fin d’ora di impiegarli bene –
Gianmarco, quando udì quelle cifre, incominciò a sudare freddo, chi li aveva mai visti tutti quei soldi! Ed ora Roberto glieli offriva per investirli.
- Per ciò che riguarda il rischio d’oscuramento dei nostri ripetitori, credi non vi abbia pensato? Sennonché, come tu sai, a giugno ci sono le elezioni pure qui in Italia, per allora sfodereremo l’asso nella manica – Roberto lo guardò con aria furbetta – Vediamo se riesci ad indovinare di chi sto parlando –
- Di Craxi? – azzardò Gianmarco.
Roberto annuì sorridendo.
- Sì, Craxi. Se, come prevedo, la DC compirà uno scivolone elettorale, allora Craxi porrà il suo “aut aut”: o lui Presidente del Consiglio, oppure un altro governicchio della durata di sei mesi, ma senza l’appoggio del PSI. Non avranno scelta –
- Mi sto domandando… se sei un imprenditore oppure un medium o ancora, un uomo molto ma molto fortunato, almeno fino ad ora –
- Non credo alla fortuna. Dovresti ormai averlo capito, una persona si giudica dalle azioni, le mie, sono sempre state vincenti –
A Gianmarco venne in mente quella frase di Dino Buzzati, che Roberto soleva ripetere ai suoi collaboratori:
“Mentre tu sei ad un cocktail e sfiori giovani schiene di donne, o balli sentendo contro il tuo petto giovani seni, in quel preciso momento, in qualche stanzetta piena di fumo c’è un giovane che lavora e, magari imprecando, fa quel che dovresti fare tu”. Alla fine della citazione, invariabilmente, Roberto aggiungeva: “Ecco: quel giovane nella stanzetta, ero io”.
- Parliamo d’affari, Giamma: il soldini che tutti i mesi versiamo al partito di governo inglese, fino ad ora ci hanno reso pochino, non credi? –
- Questo lo dici tu – rispose Gianmarco, per niente sorpreso da quel cambio repentino di argomento – Non hai pensato ai bastoni tra le ruote che pure il governo inglese ci avrebbe potuto piazzare? Questo è il momento opportuno per investire a Londra, stanno privatizzando a tutto spiano, vendono persino gli acquedotti comunali. La borsa è alle stelle, la sterlina sta salendo, così pure il dollaro. Non passa giorno senza che alla City non inventino qualche nuovo prodotto finanziario. Peccato per quei trentadue miliardi, se li avessi investiti alla borsa di Londra, presso qualche società di intermediazione o qualche banca… -
- Quel che è stato è stato, non torno indietro sulle mie decisioni. Ad ogni buon conto, sei andato fuori tema, non dovevi parlarmi della City di Londra, ma dei duecentomila dollari che tutti i santi mesi regalo al Partito Conservatore Britannico, in cambio di che? L’anno scorso, quando ho accettato di pagare questa tangente dietro tuo consiglio, sei stato piuttosto evasivo. Ora però mi devi spiegare tutto. Cosa ti ha proposto in concreto la signora Thatcher, durante quel vostro tète à tète nel suo ufficio a Downing Street? –
Gianmarco fissò il fratello per qualche secondo, ora non poteva più eludere la domanda, doveva spiegargli tutto, stava soltanto cercando le parole adatte:
- Sai cos’è l’insider trading? – domandò a bruciapelo.
- Non sono un esperto in terminologie anglosassoni, comunque, credo si tratti di qualcosa che ha a che vedere con la borsa –
Gianmarco, come un dizionario, si profuse in spiegazioni:
- Insider trading, termine mutuato dall’America per indicare l’utilizzo sul mercato mobiliare di informazioni riservate, da parte di soggetti che si trovano in posizione privilegiata; è inutile aggiungere che l’insider trading, è proibito dalla legge, anche in Italia –
- Bravi questi americani! Hanno tradotto in inglese l’italianissimo aggiotaggio –
- Non proprio. L’aggiotaggio è molto più grave; con l’aggiotaggio si provoca artificiosamente un rialzo o un ribasso dei prezzi in borsa con l’introduzione sul mercato di notizie false e tendenziose. Le notizie che potremmo ottenere dal Governo di Sua Maestà, sono verissime, anche se non tutti potranno accedervi; non solo per quanto riguarda la piazza di Londra, ma per tutto il mondo – poi soggiunse – O almeno, per quella parte del mondo che appena mastichi qualcosa che assomigli ad una borsa valori, ecco dov’è, nel nostro caso, la posizione privilegiata di cui ti parlavo –
- Se si tratterà di notizie esatte come quella con la quale ti hanno smentito la morte di Breznev… - ironizzò Roberto.
- Non soffermarti su di un singolo episodio, nessuno mi leva dalla testa l’idea che, pur avendo la sicurezza della morte di Breznev, il servizio segreto inglese l’abbia smentita a noi per mettere alla prova la nostra serietà. Probabilmente, avranno voluto vedere se sappiamo muoverci anche con le nostre gambe –
- Quindi, se ho ben capito, il governo della signora Thatcher sarebbe disposto a rilasciarci notizie riservate sulle loro prossime mosse in campo finanziario ed economico, per favorire nostre eventuali manovre speculative in borsa, il tutto per la modica cifra di duecentomila dollari al mese. Perché proprio a noi, che siamo stranieri? –
- Evidentemente, non solo a noi. Certo, non ci permetteranno mai di assumere posizioni dominanti sul loro mercato; certamente dovremo cercarci qualche socio importante di laggiù, magari indicato da loro, certamente tra qualche tempo, la tangente che dovremo pagare, potrà salire ulteriormente. La cosa più importante però, non te l’ho ancora riferita –
- Cioè? – chiese Roberto.
- Tieniti forte. Come tu hai già detto, tra qualche mese ci saranno le elezioni anche in Italia; in effetti, anche gli inglesi prevedono un forte calo della DC ed un’affermazione del PSI del tuo amico Craxi, che diventerà Primo Ministro, come loro chiamano il Presidente del Consiglio. Ebbene, vogliono informazioni sulle mosse del prossimo governo italiano! –
Roberto si fece una risata:
- Nientemeno che spie per conto della “perfida Albione”! Le previsioni elettorali poi… Levami una curiosità, ma come fanno ad essere così bene informati sui risultati delle prossime elezioni da queste parti e sulle mosse conseguenti dei vari capi partito? –
Gianmarco sospirò, poi, sommessamente:
- Ci spiano da più di cent’anni. Oggi come oggi, il loro servizio d’informazioni sostituisce quella che una volta era la Home Fleet. Spiano tutta l’Europa attraverso i sistemi di comunicazione: radio, televisioni, telefoni, telex, fax, computers, emissioni radar. Condividono con gli americani ed altri paesi anglofoni, un sistema di spionaggio informatico via satellite chiamato Echelon, cui, a quanto pare, non sfugge niente. Inoltre, hanno agenti ed informatori in tutte le principali banche d’emissione del mondo, sono in grado di condizionare o ricattare tutti i governi dell’Europa Occidentale ed una buona parte di quelli del Sud America e forse anche l’attuale Presidente degli Stati Uniti; in più, sono nostri alleati. –
- Tutto ciò, non ha loro impedito di ridursi economicamente in condizioni pietose – osservò Roberto – In questo ventesimo secolo, in meno di ottant’anni, si sono mangiati un impero, e che impero!–
- A sostenere che l’economia politica sia il motore della storia è stato quel fesso di Carlo Marx; non sarai per caso diventato marxista pure tu? – Poi soggiunse – Fossi in te, non sottovaluterei le capacità di ripresa degli inglesi, non dimenticare che adesso, America e Inghilterra procedono di pari passo. Hanno, dopo decenni, governi simili, che si tengono bordone l’un l’altro. Noi italiani piuttosto, quando saremo costretti a tirare la cinghia, con la spesa pubblica e l’indebitamento che ci troviamo, come reagiremo? –
- Tremo soltanto a pensarci, dopotutto siamo appena usciti da una lunga fase di terrorismo –
- Renditi conto che l’attuale governo britannico durerà a lungo; per questo motivo la signora Thatcher, pur con le pezze al sedere, sarà ancora in grado di condizionare, probabilmente per tutti gli anni ottanta, gran parte degli altri governi dell’Europa Occidentale, che ci piaccia o no. A noi è stato soltanto richiesto di dare soldi e…qualche informazione, se non riservata, almeno anticipata, su quel che farà Craxi una volta divenuto Presidente del Consiglio. Se mai lo diventerà –
Questa volta fu Roberto a sospirare.
- Ci sta chiedendo di diventare delle spie –
- Ci sta chiedendo di aiutarla, per parte nostra, nella sua azione di governo. Nulla ci vieta, se proprio hai dei rimorsi, di aiutare in un secondo tempo, anche i laburisti. Quelli attuali fanno proprio pietà, ma ci sono dei giovani molto promettenti, in quel partito. Nessun governo di questo mondo è eterno, dopotutto –
- A chi lo dici! Comunque dovrò parlarne con Craxi, se lui non è d’accordo per questa… concertazione riservata, non se ne farà niente –
- Il fatto è che già ora siamo impegolati con loro, e loro, volendolo, potrebbero farci molto male –
- Con la tua love story, come sei messo? Proprio non riesci a levartela dalla testa quella donna? Dopotutto se ci hanno ricattato lo dobbiamo a lei… ed alla tua dabbenaggine –
- Non ci hanno ricattato – rispose prontamente il giornalista -la signora Thatcher, come ti ho detto qualche mese fa, mi ha fatto chiaramente capire che della Principessa di Galles non gliene può fregare di meno. Quello che non vuole sono i complotti contro di lei e le istituzioni, quindi anche contro l’istituto della monarchia, in quanto tale. In pratica, mi ha detto: “Fate quel che vi pare, purché non lo si sappia in giro”; se poi, tutto ciò porterà, in qualche modo, a ridimensionare l’influenza della corona negli affari del suo governo, tanto meglio per lei. Già adesso la Regina Elisabetta non la può vedere; mentre la Thatcher, quando si trova in presenza della Sovrana, sviene spesso come una liceale –
- Ellamadonna! – esclamò Roberto – Sei sicuro di quello che dici? Inoltre, in che modo potrebbero farci, come tu dici, “molto male” –
- La vicenda P2 l’hanno montata loro, loro hanno fornito informazioni ai giudici di Milano, Calvi l’hanno ucciso loro, gran parte delle notizie (poco) riservate che corrono nei corridoi del potere a Roma come a Milano, od altrove, spesso e volentieri finiscono prima sui loro giornali che ai diretti interessati. Per contro, i loro giornali a momenti non pubblicano neppure le foto di qualche ministro, se questo, in qualche modo, può essere di danno al Paese. Te lo ripeto, in cambio di notizie, che sarebbero comunque in grado di procurarsi, potremmo fare parecchi quattrini. Se vuoi parlarne anche con Craxi, fai pure, se è furbo come dicono, accetterà –
Per un momento a Gianmarco, Roberto apparve come lo zio Paperone dei fumetti: con i gomiti sulla scrivania ed il mento appoggiato ai pugni, nella sua abituale espressione pensosa, e il logo del dollaro al posto delle pupille. Buon segno, se non fosse stato sostanzialmente d’accordo, lo avrebbe già buttato fuori dal suo ufficio, fratello o non fratello.
- Caro Giamma, quello su cui mi proponi di camminare, è un campo minato –
- Dove, alla fine, si può trovare anche una miniera d’oro –
- Se è solo per quello, il signor Gelli mi aveva fatto la stessa promessa –
- Gelli non è mai stato Primo Ministro di Gran Bretagna, per di più, molto ammanigliato con il Presidente degli Stati Uniti –
- Te lo ripeto, prima di prendere qualsiasi decisione in proposito, ne debbo parlare con Bettino, per ora vediamo come vanno a finire le elezioni di giugno –
Gianmarco ritenne di non dover insistere ulteriormente. Sapeva che alla fine suo fratello avrebbe detto di sì, doveva soltanto lasciare che alla decisione finale ci arrivasse da solo, senza altre pressioni.
Decise così di cambiare argomento di conversazione:
- Che aria tira, qui a Milano? –
- Vai tu stesso a guardarti in giro, perbacco, adesso te la tiri con la tua aria da gentleman in bombetta. Ricorda che sei un meneghino pure tu! –
- Mai indossata la bombetta se è solo per questo. Al “Giornale” tira un’aria di incipiente tempesta, Montanelli e Bettiza, quasi quasi, non si rivolgono più la parola, la redazione è divisa tra filodemocristiani e… -
- Filosocialisti – completò Roberto.
- Più che filosocialisti direi filocraxiani. Sembrano passati decenni da quando ci pareva d’essere come i tre moschettieri, tutti per uno, uno per tutti –
Roberto annuì mestamente poi aggiunse:
- Purtroppo, ho l’impressione che Montanelli si senta ormai appagato. Più che guardare al lettore, pensa di passare alla storia; a settantaquattro anni e con il suo passato, ne ha tutto il diritto, solo che il mondo non finirà con lui. Per questo sto cercando di ottenere la “diretta” per le mie televisioni. Con la diretta, come tu stesso hai notato, anche noi potremo mandare in onda i telegiornali, allora e soltanto allora saremo diventati veramente concorrenziali rispetto alla TV di Stato –
- Me ne rendo conto. Ma se proprio debbo cambiare mestiere, preferisco ritornare all’economia. Il mio fiuto per le notizie lo potrò sempre utilizzare nel campo della finanza, nel luogo che oggi è più indicato a tale scopo, a Londra –
- Ho ancora bisogno del Gianmarco Demattei giornalista per un po’ di tempo, dopo potrai fare quel che ti pare, ma per ora, resta nel campo dell’informazione –
- OK, seguirò il tuo consiglio, hai altro da dirmi? –
- No, potresti, nel frattempo, dare un’occhiata in giro, non so se hai notato, ma ormai siamo diventati una potenza –
- Lo so che sei orgoglioso della tua opera, ma bada, così ti tirerai addosso anche parecchie invidie, sembra quasi che tutti gli altri giornali facciano a gara su chi t’insulta di più –
- L’hai detto, tutta invidia, come diceva la “buonanima”: “Molti nemici, molto onore” –
- So anche questo, ma ti faccio notare che Piazzale Loreto, non è poi molto distante da Cologno Monzese! –
Roberto non fece in tempo a mandarlo al diavolo, né a fare gli scongiuri, Gianmarco lo prevenne e, mentre si stava alzando per uscire dall’ufficio:
- Ho capito, ho capito, tolgo il disturbo e vado a farmi un giro, ciao Roberto ci vediamo a casa di papà –
Matteo lo stava aspettando in auto, all’entrata del centro direzionale. Gianmarco era riuscito finalmente a guadagnare l’uscita facendosi largo in quel labirinto di corridoi e di teatri di posa in cui, in poco più di quattro anni, s’era trasformata la RDC. Matteo scese dalla macchina, gli aprì lo sportello anteriore, di fianco al guidatore, poi si accomodò al volante ed avviò il motore.
Il giornalista gettò un’ultima occhiata a quella schiera di palazzine che una volta formavano il Centro residenziale “Milano Nord 3” ed ebbe un brivido. Non fu in grado di distinguere se fosse stato un brivido d’orgoglio o di paura.
- E pensare che nove anni fa, tutte le nostre attrezzature televisive stavano in uno scantinato proprio di questa palazzina davanti a noi, gli addetti al funzionamento ed alla manutenzione erano quattro in tutto, più il sottoscritto, che di tanto in tanto veniva a dare una mano. Già allora trasmettevamo… per un raggio di cinque o sei chilometri. Eravamo poco più di un videocitofono, uno sfizio del dottor Roberto Demattei che giocava al Cecil De Mille all’amatriciana. Anche allora, qualche imbecille di politicante urlava che dovevano farci chiudere la baracca, perché potevamo diventare pericolosi per la libertà e la democrazia, cioè, davamo fastidio ai loro protetti. Questo era la RDC: un “gadget”, che invogliava gli eventuali acquirenti a spendere fior di quattrini per acquistare un appartamento fuori mano –
Poi, rivolgendosi a Matteo:
- Questo è mio fratello, oppure no? –
Matteo attese qualche secondo, prima di rispondere:
- Per me, tuo fratello è stato l’uomo che ha raccolto un barbone che voleva scimmiottare “Che” Guevara e ne ha fatto… già, che ne ha fatto? Un mezzano, uno spione, il tuo autista –
- O forse, ne ha fatto un essere umano che vuole evitare a tanti altri giovani come lui, di passare le sue stesse traversie – suggerì il giornalista.
- Se nella mia vita non sono diventato anche un assassino, lo debbo a lui –
- E dici poco! –
Matteo restò per qualche secondo pensieroso, aggrappato al volante, poi, all’improvviso domandò:
- Dove vuoi che ti porti? –
- Andiamo al “Giornale”, dopotutto Montanelli è ancora il mio direttore –

Com’era stato previsto, nelle elezioni del Giugno 1983, la DC prese una batosta dalla quale non si sarebbe mai più completamente ripresa. Per formare un governo che non suscitasse il sospetto dei partner dell’Alleanza Atlantica, il segretario politico di quel partito, Ciriaco De Mita, fu costretto a malincuore e dopo tergiversazioni durate più di due mesi, a cedere la Presidenza del Consiglio al socialista Bettino Craxi. Il 4 agosto, il nuovo Presidente del Consiglio varava il suo governo, sarebbe durato fino al Marzo 1987, un record, dopo i governi del mitico Alcide De Gasperi e quelli di Aldo Moro.
Anche a Londra, nella redazione di un quotidiano italiano, in quell’inizio di Agosto, si stava festeggiando l’esito delle elezioni italiane (e inglesi). Certamente non si brindò a champagne od anche soltanto a spumante, come si vociferò fosse avvenuto a Milano, nell’ufficio di presidenza della RDC, ma l’atmosfera in quella piccola redazione, fu ugualmente euforica.
Finalmente, anche da quella sponda della Manica, gli affari, per la famiglia Demattei, cominciavano andare a gonfie vele. Se, come era ormai sicuro, Craxi avesse tenuto fede ai patti, poteva incominciare da quel giorno un periodo aureo per le sorti dell’azienda. Informazioni giornalistiche in esclusiva, acquisti di filmati e di serial televisivi a condizioni vantaggiosissime, accesso alla banca dati del servizio segreto britannico, il più potente del mondo dopo la CIA ed il KGB ed infine, un flusso di informazioni rilasciate in via confidenziale dal governo, da usare in manovre speculative, presso quella specie di vulcano in eruzione che stava diventando la borsa di Londra.
Per contro, i Demattei non avrebbero potuto acquisire il controllo di importanti aziende britanniche e neppure divenire proprietari di quotidiani o altri organi d’informazione nel regno della Regina Elisabetta; in tal proposito, non esisteva ancora nessuna legge che lo impedisse, ma erano comunque patti che andavano tassativamente rispettati. In cambio, il governo presieduto da Craxi, avrebbe approvato tacitamente ogni operazione finanziaria compiuta da società britanniche in Italia, avrebbe appoggiato le richieste inglesi presso gli organi direttivi della Comunità Europea (non sempre sarebbe avvenuto) e non avrebbe dato alcun asilo o protezione a terroristi dell’IRA od a persone dichiaratamente avverse agli interessi britannici.
Niente di tutto ciò era stato mai messo nero su bianco, ma come tutti sanno, le clausole segrete, nella politica estera, sono il pane quotidiano che tutti i diplomatici masticano; in mezzo a questo bailamme d’interessi più o meno reconditi, i Demattei, nella veste di mediatori ufficiosi.
Questi accordi, avrebbero retto per tutti gli anni ottanta, fino a che Margareth Thatcher governò la Gran Bretagna e Bettino Craxi fu in grado di tenere in pugno i governi della Repubblica, se non di guidarli direttamente. Entrarono in crisi in Italia, con lo scoppio di “Tangentopoli”, in Inghilterra, con la contemporanea eclissi del partito conservatore, subito dopo la defenestrazione della “Lady di ferro”.
Ritorniamo dunque a quel 4 agosto 1983, quando un Gianmarco Demattei euforico, nel suo appartamento di Coleherne Court, stava componendo un certo numero telefonico e sapeva esserci sempre qualcuno che rispondesse, all’altro capo della linea.
- Pronto Diana? -
- Hallo, Ghiamma -
- Che farai di bello domani pomeriggio? –
- Per domani pomeriggio, dovrò inaugurare il nuovo reparto pediatrico dell’ospedale di Brighton, ma per dopodomani sera sarò libera, lo sarai anche tu? –
- Uhm! Credo proprio di sì, ormai nella redazione del giornale, sono diventato poco più di un ornamento. Il vero capo è il signor Severgnini; perciò, se proprio non scoppierà la terza guerra mondiale, vada per dopodomani. Ho scoperto dalle parti di Kensington, dalle tue parti, un ristorantino niente male e...-
- Ci sarò – tagliò corto Diana - Dammene l’indirizzo –




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Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 7:32 pm

Capitolo XIV


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil12


DALLE MINIERE DEL GALLES
AL “SAN LORENZO”







- Siamo proprio agli sgoccioli, mio caro Matteo! –
Gianmarco stava consultando l’ultimo dispaccio d’agenzia: il lunedì successivo, i rappresentanti sindacali dei minatori e quelli del NCB (National Coal Board), si sarebbero incontrati per trattare la ripresa del lavoro nelle miniere di carbone. Lo sciopero dei minatori, indetto esattamente un anno prima per impedire la chiusura di una ventina di miniere nel bacino carbonifero del Galles, con conseguenti licenziamenti, stava per concludersi con la resa dei minatori stessi e l’ennesima vittoria del governo della “Dama di ferro”.
- Bella vittoria, su una categoria di poveracci che svolgono un lavoro orripilante alle soglie del ventunesimo secolo. Da noi non lo accetterebbero nemmeno i disperati – commentò Matteo, mentre dava una sbirciata al dispaccio –
- E’ la vendetta dei conservatori con un decennio di ritardo. Se ben ricordi, già dieci anni fa, i minatori si misero in sciopero a tempo indeterminato, all’indomani dell’embargo petrolifero dichiarato dall’OPEC, subito dopo la guerra dello “Yom Kippur” –
- Ricordo, ricordo. In quel periodo ero a Praga a addestrare alcuni terroristi italiani e d'altri paesi. I nostri superiori erano convinti che con scioperi come quello, l’Inghilterra sarebbe caduta nel loro cesto nel giro di qualche anno, proprio come una pera matura. L’uso combinato dell’anarcosindacalismo e del terrorismo, secondo loro, avrebbero messo in ginocchio l’Occidente nel volgere di un decennio –
- Invece, in un decennio, l’hanno preso in quel posto proprio loro –
- Fossi in te, non canterei vittoria tanto presto – gli rispose di rimando Matteo – Sai che significano diecimila minatori a spasso? Significano diecimila famiglie sul lastrico, significano altrettante persone incazzate nere e pronte a tutto, significano migliaia di persone costrette ad emigrare per cercare un lavoro che forse, non troveranno mai –
Gianmarco, dopo averlo guardato negli occhi precisò:
- In primo luogo, io non ho cantato vittoria per nessuno, inoltre, ho l’impressione tu voglia farmi sentir colpevole per essere nato ricco. –
- Questo non l’ho detto; volevo soltanto farti rilevare che in questa vicenda ci sono anche parecchi sviluppi negativi che, sul medio periodo, potrebbero portare ad una situazione socio-politica ancora più incandescente –
- Uffa! Ecco il sociologo che rispunta fuori; allora, tirerò fuori l’economista che dorme dentro di me. Hai mai pensato quanti altri posti di lavoro questo sciopero ha fatto perdere ed ancor di più, farà perdere nei prossimi mesi? Aspetta e vedrai; entro la fine dell’anno, ci saranno quasi quattro milioni di disoccupati in Inghilterra, grazie anche ai danni provocati dalla mancanza di carbone. Ora sono più di tre milioni, per salvare diecimila posti di lavoro mal retribuito, sono stati sacrificati quasi un milione d'altri lavoratori assortiti. Alla fine, diecimila minatori andranno ugualmente ad ingrossare le fila dei disoccupati, sia pur con una buonuscita più sostanziosa di quanto avessero loro offerto un anno fa. Però, a tenere loro compagnia, ci saranno centinaia di migliaia d'altri poveri cristi che avrebbero potuto benissimo continuare a lavorare dov’erano –
- Vedi che mi stai dando ragione? Ti ho appena detto che sul medio periodo…. –
Gianmarco fece un gesto spazientito, non aveva voglia di litigare con Matteo, non aveva più voglia di litigare con nessuno, almeno in quel periodo. All’inizio dell’anno aveva dato le dimissioni dal “Giornale”, col 31 di marzo 1985, non avrebbe più fatto parte di quello staff redazionale. Matteo lo avrebbe seguito, dopotutto era la sua guardia del corpo.
Gianmarco s’era ormai disamorato per il giornalismo. L’anno prima se n’erano andati Bettiza, Damato ed altri redattori, ormai in pieno disaccordo politico con Montanelli; nello stesso periodo era morto di cancro Cesare Zappulli, un altro dei fondatori del “Giornale”. I tempi eroici erano proprio finiti ed anche i tempi grami.
Nessuno o quasi nessuno si sognava più di spararti alle gambe, o alla testa, perché non la pensavi come lui. Questo era il segno che le cose erano di gran lunga migliorate: un merito indiscutibile anche per quelli del “Giornale” e il suo fondatore. Però, Montanelli era uomo di grandi battaglie, non certo un direttore da ordinaria amministrazione: nei tempi procellosi dava il meglio di sé e nel meglio il vecchio Indro era sublime; ma nei periodi di calma piatta, come quelli, diventava davvero un vecchiardo insopportabile e nevrotico. Andava a cercarsi le grane con il lanternino, scovava nemici ed avversari nelle persone più impensabili, spesso e volentieri anche tra gli amici più cari. Non si contavano più le volte che aveva litigato con Roberto per questioni di scarsa importanza. Una volta minacciò le dimissioni sue e di tutto lo staff della redazione sportiva perché suo fratello gli aveva chiesto d’avere un occhio di riguardo per il Milan del quale stava per diventare il presidente. Era estremamente diffidente nei riguardi di Craxi e di tutti i socialisti. Con il presidente Pertini, il più amato dagli italiani, non se l’era mai intesa troppo, ora che stava per scadere il suo mandato, non perdeva occasione per punzecchiarlo.
Adorava Gianni Agnelli, come se la FIAT l’avesse fondata lui, mentre ne aveva soltanto ereditato il pacchetto azionario di controllo. Durante la sua presidenza, Agnelli rischiò almeno tre volte di mandare a carte quarantotto l’azienda fondata dal nonno, vuoi per le sue scelte strategiche sballate e vuoi per i consigli elargiti dai manager che s’era portato in casa. Montanelli non capiva (o fingeva di non capire) quale differenza corresse tra l’ereditare un patrimonio colossale (e la grossa fetta di potere conseguente), gestire oculatamente queste enormi risorse; oppure fondare dal nulla un’impresa come la RDC.
Gianmarco cercò di spiegare al suo direttore che l’opera compiuta da suo fratello Roberto era enormemente più importante delle azioni ereditate dalla famiglia Agnelli. Montanelli, invariabilmente gli rispondeva con frasi fatte, tipo “Il sangue non è acqua” oppure “Vedremo tra una o due generazioni di che pasta saranno fatti i Demattei”.
Come ragionamento, non faceva una piega. Se in Italia valeva la “regola del tre”: la terza generazione distruggeva tutto ciò che aveva costruito la prima, i nipoti di Roberto, si sarebbero mangiati tutto il capitale dei Demattei. Dopo aver fatto i debiti scongiuri, Gianmarco mandò al diavolo Montanelli e diede le dimissioni.
- Che resti nel suo mondo popolato di Cavour, Garibaldi, Quintino Sella e Giolitti, magari, qui in Inghilterra sognerebbe di trovarci ancora la Regina Vittoria – confidò a Matteo, subito dopo le dimissioni.
- Chissà che in Germania non trovi un posticino anche per il Kaiser Guglielmo, invece del cancelliere Koll –
- A te, non permetto di scherzarci sopra – sbottò indispettito Gianmarco – Quell’uomo, undici anni orsono, quando tutti belavano dietro al buon pastore Berlinguer, ebbe il coraggio di andarsene dal “Corriere della sera”, del quale non condivideva più le posizioni politiche, e fondare il “Giornale”, praticamente senza un soldo. Per qualche anno, è stato pure ostracizzato da tutta la cultura italiana –
- Se non avesse trovato tuo fratello sulla sua strada… -
- Avrebbe trovato qualcun altro, non mancavano allora i pretendenti e gli ammiratori ad avere l’onore di mantenere il “Giornale” ed il suo direttore. Però noi, cioè Roberto, a differenza della maggioranza degli aspiranti soci di allora, lo ha lasciato liberissimo di fare e scrivere ciò che voleva. L’anno scorso, per esempio, quando Bettiza se n’è andato, mio fratello, pur condividendo le tesi filosocialiste di Bettiza, non ha mosso un dito in suo favore, riconfermando a Montanelli tutta la sua fiducia –
- E continuando a ripianarne i debiti – concluse Matteo ridendo.
- Mi sto domandando se… se è stato fortunato mio fratello a trovare Montanelli sulla sua strada o viceversa –
- Beh! Proprio tu non dovresti avere dubbi in proposito –
- Non lo so, certamente da quando otto anni fa i destini dei Demattei si sono incrociati con le sorti del “Giornale”, le cose hanno incominciato ad andare a gonfie vele per noi, forse Montanelli porta davvero fortuna, oppure… -
- Oppure Montanelli ha avuto tanto fiuto da trovare la persona che faceva al caso suo: parecchi quattrini, il vento in poppa, le amicizie politiche giuste nel momento giusto – osservò Matteo
- Può darsi, io però qualche sospetto comincio ad averlo ora – confessò Gianmarco.
- Quale sospetto? –
- Che mio fratello sia andato in soccorso a Montanelli per ordine di qualcuno, forse di Craxi, forse di altri –
- Gelli? Calvi? – suggerì Matteo – Adesso sei tu fare della dietrologia –
Gianmarco, si limitò ad annuire.
- Purtroppo ho questo sospetto, soltanto un sospetto. Bada bene, se anche la cosa fosse vera, Roberto non me la confermerebbe mai –
- Non sono della tua stessa opinione, tuo fratello è un imprenditore di successo che cura i suoi interessi e bada ai risultati. Ha trovato un famosissimo giornalista che in fondo la pensava come lui e che aveva bisogno d’aiuto in quel momento. Ebbene, lui l’ha aiutato; ora Montanelli è il fiore all’occhiello nella serra dei Demattei –
- Stai attento alle metafore, Potresti andare fuori misura – esclamò Gianmarco – Montanelli, come fiore, non starebbe imprigionato in alcun occhiello, men che meno in una serra. Inoltre, sei proprio sicuro che lui e Roberto siano così in sintonia d’idee? Allora come ti spieghi che nel 1977, diecine d’imprenditori, allora più ricchi ed importanti di Roberto, interpellati da Montanelli per avere aiuti finanziari al suo giornale, gli hanno voltato le spalle, spesso facendo pure finta di non conoscerlo. Vuoi che ti faccia qualche nome: il più grosso di tutti, Agnelli, poi Rizzoli (prima del fallimento), De Benedetti, Boroli. Tutti prodighi d’incoraggiamenti e complimenti per il suo coraggio, ma di soldi… neppure una lira –
- Hai appena detto che nel ’77 i riccastri facevano la fila per avere l’onore di mantenerlo –
- Quelli che lui non aveva interpellato. Che esistessero anche i Demattei, i Benetton, i Cragnotti, i Ferruzzi e tanti altri ancora, Montanelli non se n’era neppure accorto. Si fidava (e tutt’ora si fida) soltanto dei “vecchi” capitalisti, che portino cognomi eccellenti e nascano “bene”. Ecco il suo limite. Non crede nelle nuove generazioni, mentre, le “grandi” famiglie, quelle dell’aristocrazia capitalista che piacciono tanto a lui, gli hanno chiuso, per viltà, la porta in faccia -
- Oltre a chiudergli la porta in faccia, qualcuno di questi ha provveduto a piantargli anche una pallottola nelle gambe! – osservò Matteo.
- E potrei farti pure i nomi di un paio di grossi borghesi che la sera di quell’attentato brindarono con champagne –
- Ma ora, tutto sta per finire –
- Tutto sta per finire e noi cambiamo mestiere: la City ci sta aspettando –
Gianmarco gettò un’ultima occhiata al dispaccio della “Reuter” che annunciava la fine dello sciopero dei minatori. Chiamò Ottavia e glielo consegnò:
- Mettilo sulla scrivania di Severgnini, quando sarà ritornato dalla sua escursione nel Nord del Paese se lo sbroglierà lui. Da questo momento, non ho più voglia di lavorare –
- E’ già in disarmo dottore? – domandò Ottavia.
- Ormai, ho la testa altrove, tra le corbeilles della borsa e le speculazioni immobiliari –
Infatti, Gianmarco stava già pensando ai prossimi investimenti, non appena, dalla banca svizzera dov’erano accreditati, sarebbero stati bonificati i cento miliardi di utili conseguiti l’anno precedente dalla sola RDC.
Roberto era stato di parola; l’anno prima era riuscito ad acquistare anche la rete televisiva della «Morandi editore», praticamente per pochi spiccioli. Le perdite della rete televisiva avevano ormai dissanguato la vecchia e gloriosa casa editrice; del resto, la spietata concorrenza delle due reti della RDC e della RAI, non lasciavano alla «Morandi editore» nessun margine di manovra.
Pochi mesi dopo, Roberto aveva acquistato la «Lombarda assicurazioni», una piccola società sull’orlo del fallimento; nelle sue intenzioni, ne avrebbe fatto il polmone finanziario di tutto il gruppo Demattei.
In quel periodo, aveva pure inaugurato un gigantesco centro commerciale alle porte di Milano, facendone il supermercato del Nord Italia. Non passava giorno del 1984 in cui Roberto Demattei non finisse sulle prime pagine dei giornali. Viveva, infatti, quel periodo della vita di ogni persona, in cui tutto gli riusciva; se poi il momento magico è vissuto da un imprenditore rampante, ricco a miliardi e con importanti agganci nel mondo della politica, quell’uomo, come minimo è destinato a far molto rumore. Il Roberto Demattei degli anni ottanta, non era rumoroso, era una deflagrazione nucleare: gli effetti si sentivano anche fuori d’Italia.
Gianmarco e la sua redazione di Fleet Street a Londra, al cospetto di quella bomba atomica, erano solamente un piccolo petardo, ma fra non molto, anche questo sarebbe esploso, facendo anche parecchio chiasso.
Fra un paio di giorni, sarebbe dovuto partire per Parigi, da dove la RDC stava per lanciare una nuova rete televisiva commerciale, la prima che facesse capolino nel piatto panorama radiotelevisivo francese. Come fratello di Roberto Demattei, “Quello delle televisioni”, come veniva ormai definito, doveva presenziare all’inaugurazione delle trasmissioni, oltre che a contribuire al perfezionamento degli ultimi accordi con i soci.
In realtà, poiché il Presidente François Mitterandt aveva bisogno di un’emittente televisiva libera da vincoli istituzionali, che appoggiasse la sua politica, in vista delle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale del 1986 e temendo di perdere la maggioranza, aveva chiesto aiuto al “compagno” italiano Bettino Craxi e quest’ultimo aveva a sua volta girato la richiesta a Roberto.
Mitterandt, autorizzò la diretta televisiva ad una società mista, composta dalla RDC e da altri azionisti francesi vicini al Partito Socialista. In pratica, il “know-how” della nuova rete televisiva era interamente fornito dalla società italiana. I francesi, di loro, ci misero una parte di quattrini e, cosa importantissima, il totale appoggio del governo. Naturalmente, una così spregiudicata operazione mandò su tutte le furie l’opposizione di centrodestra che gridò alla combine politico-affaristica e promise, se avesse vinto, di estromettere lo straniero Demattei dalla gestione della rete televisiva.
Il lancio della televisione commerciale in Francia non ebbe gran fortuna per la RDC. Dopo pochi mesi, gli ascolti si sgonfiarono, sebbene la concessione della diretta televisiva permettesse, a differenza dell’Italia, la trasmissione di notiziari e telegiornali. Nel 1986, il centrodestra vinse ugualmente le elezioni ed il suo leader, Jaques Chirac, divenuto Primo Ministro, con una legge apposita, escluse l’azienda di Roberto dalla gestione della rete. Tuttavia, quel vecchio marpione di Roberto, subodorando la sconfitta per il protettore transalpino, aveva già rimediato, cedendo una parte del suo pacchetto azionario ad una società prestanome con sede in Lussemburgo. Altre azioni le vendette ad un gruppo tedesco, che s’impegnò a non cederle a terzi. In tal modo, il governo Chirac, si trovò con un pugno di mosche in mano. Come liquidazione di un affare andato sostanzialmente male, non fu delle peggiori.
Ma in quei giorni di fine marzo 1985, tutto appariva sotto una luce diversa: Roberto era Giulio Cesare che marciava alla conquista delle Gallie, perlomeno, tale doveva sentirsi.
- Già me lo vedo, mentre sta compitando “Gallia est omnis divisa in partes tres… “ - Gianmarco e Matteo scoppiarono a ridere.
- Abbiamo incominciato con i minatori disoccupati del Galles e terminiamo con i miliardi che si farà tuo fratello – commentò amaramente Matteo
- A proposito di miniere, dall’anno prossimo il governo inglese comincerà a privatizzare pure quelle, occorrerà prenotarsi per acquistarne i titoli –
- Sciacallo! – esclamò Matteo.
- Cerco solamente di curare meglio gli interessi di famiglia, dopotutto, non li ho licenziati io quei minatori –
In quel momento rientrò in redazione Severgnini, aveva i capelli spettinati, o meglio, più spettinati del solito. Si sedette sulla prima sedia che trovò e si passò una mano sul viso. Gianmarco e Matteo si guardarono in faccia:
- E’ crollato il “Big Ben”? – domandò Matteo.
- La Regina Elisabetta ha proclamato la repubblica?– sfotté Gianmarco.
- Hai scoperto che la signora Thatcher è un uomo? – tentò una battuta Ottavia.
Severgnini, appoggiando i gomiti contro le gambe, si tenne strette le tempie tra le mani:
- Per poco non m’ammazzavano! –
- Che è successo? Racconta – lo esortò Gianmarco.
- Rientravo dal Galles in auto. Da un cavalcavia, alcuni imbecilli hanno tirato dei sassi sulla mia macchina, hanno sfasciato il parabrezza. Per poco, un sasso grosso come un melone non mi colpiva alla testa, non ho avuto il coraggio di continuare il viaggio in auto, alla prima stazione ho acchiappato un treno che mi portasse fino a qui –
- Quando è successo? – chiese Matteo.
- Questa mattina, saranno state le undici…un botto improvviso, mi è letteralmente esploso il vetro davanti agli occhi, poi il vento sulla faccia e quel grosso sasso che rimbalzava sui sedili posteriori –
- Ma perché? – esclamò Gianmarco – Mio Dio, perché? –
- E’ successo altre volte, negli ultimi giorni. Il Galles è diventato una polveriera, i minatori sono alla disperazione, hanno ormai ceduto, ma sono diventati delle belve. Chiunque lo diventerebbe quand’è con le spalle al muro come loro –
- Potrebbero essere dei provocatori della polizia – osservò Matteo.
- Sai che consolazione sarebbe stata, se quel sasso l’avessi preso in testa –
- Stiamo calmi! – li esortò Gianmarco – Questi sono gli ultimi giorni in cui io sarò caporedazione, non ho nessuna intenzione di variare i miei programmi perché quello che mi deve sostituire è passato a miglior vita –
- Grazie! – esclamò Severgnini – Sono commosso per le tue preoccupazioni: io ho rischiato la pelle e tu non vuoi cambiare programmi –
- Non c’è di che, ognuno ha il suo modo di preoccuparsi –
Erano appunto gli ultimi fuochi di una stagione giornalistica breve ma intensa. D’ora in avanti, altri sarebbero stati gli impegni e le preoccupazioni di Gianmarco.
Per la cronaca, i sassi dai cavalcavia, di lì a pochi anni, anche in Italia sarebbero venuti di gran moda, con ben altre e più tragiche conseguenze.

Gli indizi c’erano tutti: la lira italiana era sotto tiro, in vista di quella che si chiamava una “svalutazione competitiva”, solo che il grosso pubblico non se n’era ancora accorto. Craxi aveva fretta di risolvere i problemi di competitività dell’industria italiana, ed a causa di questa fretta, di problemi se ne stava procurando altri, di genere diverso.
Dollaro in impennata: non era una novità, da quasi cinque anni si stava impennando. Nei confronti della lira però, andava su a razzo. Evidentemente la soppressione della scala mobile (il sistema per adeguare automaticamente salari e retribuzioni al costo della vita), non era stata sufficiente per restituire competitività all’apparato produttivo. Gli effetti positivi dell’abolizione della scala mobile, si sarebbero manifestati a distanza di anni, intanto il Paese rischiava la deindustrializzazione, anche per effetto dell’agganciamento della lira al Sistema Monetario Europeo. Perciò, al fine di incrementare le esportazioni italiane, occorreva svalutare la lira. Ma come avrebbe fatto il governo italiano a svalutare la propria moneta senza che i suoi partners dello SME potessero trovare pretesto per contrastare, oppure bloccare la manovra? Infatti, tutte le operazioni all’estero della Banca d’Italia erano, come da accordi, sottoposte al controllo da parte di numerosi enti internazionali.
Probabilmente, pensava Gianmarco, avrebbero agito in modo indiretto, attraverso qualche azienda a partecipazione statale, l’IRI o forse l’ENI. Quest’ultima era sempre stata la società incaricata delle operazioni più delicate (e più sporche), cui il Governo italiano ricorreva fin dai tempi del suo fondatore, Enrico Mattei, per ottenere sottobanco vantaggi e quattrini. Certo, bisognava controllare le mosse dell’ENI; come non averci pensato prima?
Per Gianmarco e per la sua finanziaria, la tempesta valutaria che si andava addensando, capitava come il cacio sui maccheroni. Infatti, i cento miliardi di proventi della RDC erano arrivati già da qualche mese, ed erano stati temporaneamente investiti in titoli di stato britannici. Adesso occorreva un colpaccio per incrementare il capitale, possibilmente in poco tempo. Le voci di manovre speculative nei confronti della lira, arrivavano a proposito, ma erano soltanto voci. Il bello stava avvenendo proprio in quel momento; il come, il dove e soprattutto il quando, saperlo con esattezza avrebbe significato il successo o il fiasco dell’operazione.
Gianmarco aveva in mente una manovra cosiddetta a “pronti contro termine”. Avrebbe stipulato con la “Standard Chartered Bank” un contratto di acquisto per 800 milioni di dollari a sei mesi; dopo quel periodo, ne avrebbe restituito alla banca il controvalore in lire. Se la lira italiana fosse stata nel frattempo svalutata, al momento del saldo avrebbe venduto i dollari in cambio di lire, rifondendo il debito, più gli interessi e le commissioni spettanti alla banca; le lire in più rimastegli per effetto della svalutazione, sarebbero state il guadagno dell’operazione.
Gianmarco telefonò a Roberto sulla linea diretta per Milano:
- Ciao, Roberto, sono Giamma, come stai? –
- Bene, ma se mi stai chiamando sulla linea diretta è perché hai in mente qualche grossa vaccata, è così vero? –
- Per l’appunto, non è comunque il caso di farne parte anche a quelli che ci controllano i telefoni, vorrei che tu chiedessi a chi sai, se hanno in testa qualche blitz valutario –
- Uhm! Non me ne hanno parlato, ma m’informerò, secondo te, cosa potrebbe succedere? –
- Un bel tonfo della lira nel giro di pochi giorni, se non addirittura di ore –
- Caspita! Allora bisognerà sbrigarsi –
- Appunto, Io sono dell’opinione che la cosa potrebbe partire da una petroliera, sai, quella grossa petroliera con sopra un cane… -
- Ho capito, m’informerò, poi ti farò sapere, ciao, stammi bene –
L’allusione all’ENI (la petroliera con sopra un cane) era abbastanza evidente. Gianmarco sperava che almeno il governo italiano ne sapesse qualche cosa, se anche in quest’occasione si fosse lasciato cogliere impreparato, sarebbe stato il colmo.
A questo punto, telefonò al suo corrispondente dei servizi segreti inglesi.
- Buongiorno, vorrei informarla che potrebbe scoppiare una grossa buriana valutaria entro le prossime ventiquattr’ore –
- Ne siamo al corrente, le vostre autorità si stanno preparando ad una forte svalutazione della lira, però i nostri informatori alla Banca d’Italia non ne sanno niente. Sospettiamo quindi che si tratti di un’operazione uscita dalla testa del vostro capo del governo. Lei ha subodorato qualcosa in più che non conosciamo? –
- Sono in attesa d’informazioni più precise dall’Italia, ma se anche voi avete i miei sospetti, significa che la notizia è fondamentalmente esatta –
- Bella scoperta! Noi invece abbiamo bisogno di informazioni più precise –
- Per ottenerle, dovreste ordinare ai signori addetti al controllo delle mie telefonate, di non addormentarsi sul lavoro – rispose polemicamente. Come dicevano a Roma: “Quanno ce vò, ce vò!”.
- Comunque – continuò – fossi in voi, darei una controllata se, sulla piazza di Londra, l’ENI sta acquistando dollari contro lire sottobanco. Potrebbero farlo anche a New York, ma dal momento che nel passato tutte le loro porcate le hanno fatte a Londra… -
- Va bene, daremo un’occhiata anche lì, il tempo di collegarci con gli altri informatori –
Gianmarco era nervoso, lo diventava sempre in quei momenti. Le piazze valutarie stavano per entrare in fibrillazione e lui stava per essere sopraffatto dall’emozione.
Dopo venti minuti squillò ancora il telefono, era suo fratello:
- Pronto Giamma, mi sono informato presso chi sai tu: è vero, la petroliera ha passato un ordine presso la “Barclays” di Londra, per l’acquisto di un miliardo di dollari, cambiando il corrispettivo in lire; ufficialmente per costituire una riserva di liquidità volta all’acquisto di partite di petrolio nei prossimi mesi, in realtà per far crollare la lira–
- Di quanto? –
- Almeno del dieci, dodici per cento –
- E questo quando? –
- Oggi è martedì, il tonfo dovrà avvenire non più tardi di venerdì sera, quando i mercati azionari chiuderanno per il weekend –
- Quindi non c’è tempo da perdere, dobbiamo subito stipulare un contratto –
- OK, stai attento! –
Gianmarco posò nuovamente la cornetta, immediatamente squillò di nuovo il telefono, era il corrispondente del SIS:
- Fossi in lei, non stipulerei dei contratti con scadenze maggiori di due mesi –
- Alla buonora! Finalmente un po’ di tempismo con il controllo del mio telefono, ma per quale ragione … -
- Il dollaro. Anche gli americani, entro settembre, cominceranno a farlo scendere a rotta di collo. Se lei avrà stipulato un contratto di pronti contro termine per più di due mesi, il guadagno che ha intenzione di realizzare speculando contro la lira, se lo vedrà sfumare quasi tutto prima della fine di quest’anno. Auguri e figli maschi –
Già perbacco! Anche il dollaro ci si metteva, ecco una variabile di cui non aveva tenuto conto. Gli americani avevano lo stesso problema di eccessiva rivalutazione della propria moneta. I continui rialzi del dollaro negli ultimi cinque anni, avevano messo in ginocchio la loro industria manifatturiera. Fino a quel momento avevano retto grazie ai poderosi sgravi fiscali di Reagan ed alle copiose commesse per l’industria militare. Ora però dovevano svalutare, altrimenti, nel giro di qualche mese, la curva della disoccupazione si sarebbe impennata in modo preoccupante anche negli USA.
Naturalmente avrebbe stipulato un contratto pronti contro termine, per soli due mesi. Data la brevità del prestito, le commissioni relative sarebbero state più care, il guadagno più risicato; in compenso, si ripromise d’imbastire un’altra manovra entro ottobre, questa volta contro il dollaro. In tal modo, si sarebbe rifatto completamente dei mancati guadagni per una speculazione a due mesi.
Decisamente, quei contributi ai conservatori, cominciavano a fruttare bene, i duecentomila dollari mensili erano, dal mese passato, diventati cinquecentomila, nei mesi a venire, ancora di più, ma la cosa, dati i guadagni che procurava, non lo preoccupava ormai più di tanto.

Il ristorante “San Lorenzo” era ed è tuttora situato nell’elegante strada di “Beauchamp Place”, nel quartiere di Knightsbridge, lo stesso dei grandi magazzini “Harrod’s”; in pratica, uno dei “salotti” della capitale. Gianmarco era solito frequentarlo fin da quando era giornalista alle prime armi e bazzicava per le vie di Londra, in cerca di note di costume che facessero da riempitivo ai suoi articoli.
Alla fine degli anni ’70, era già rinomato. I titolari, i coniugi Mara e Lorenzo Berni, si compiacevano della propria cucina, ovviamente all’italiana, e dei clienti illustri che lo frequentavano.
Quasi tutte le sere, ormai, prima di ritornare al suo appartamento, Gianmarco si recava a cenare in quel ristorante “di casa”. La cucina era adattata ai gusti britannici, come del resto erano costretti a fare tutti i ristoratori italiani sparsi per il mondo, ma a Gianmarco non sempre dispiacevano queste variazioni sul tema; in fondo, come buongustaio non era mai stato un purista.
La padrona di casa, la signora Mara Berni, nel corso degli anni, aveva adocchiato quel suo compatriota giornalista, un po’ taciturno, che occupava, quasi sempre solo, l’ultimo tavolino in fondo al locale. Quando le riuscì di farsi presentare da Gianmarco col suo nome e cognome, ne fu alquanto sorpresa. Questo avvenne all’inizio del 1985, quando ormai il nome di Demattei era diventato famoso in tutt’Europa.
- Lei è quello delle televisioni? – domandò la signora Berni.
- Mio fratello – rispose con pazienza Gianmarco, era la milionesima volta che glielo domandavano.
- Che ci fa a Londra? Uno come lei non ha bisogno di emigrare all’estero per lavorare –
- E chi l’ha detto? Non le è passato mai per la testa, che uno come me potrebbe avere proprio all’estero e non in Italia i suoi affari più importanti? Si ricordi che io sono giornalista, questo è il mio lavoro. Per fare i soldi, basta e avanza mio fratello Roberto –
La donna non insistette ulteriormente, probabilmente stentava a credergli. Tutte le volte che entrava in quel locale, si affaccendava attorno a lui, come con tutti i clienti importanti. Gianmarco non era un amante della notorietà, specie quella di riflesso, ma dopo il 1985, era diventato un personaggio piuttosto noto, più in Inghilterra che in Italia. Quando gli capitava di cenare insieme a colleghi italiani od inglesi, la signora Mara, che doveva possedere una memoria fotografica, non dimenticava più nemmeno questi ultimi.
A metà degli anni ottanta il “San Lorenzo”, era comunque diventato un locale molto “in”, specie da quando presero a frequentarlo anche la signora Thatcher ed il marito, ministri, uomini di governo ed alla fine anche intellettuali di grido. Gianmarco, in un periodo tra i più critici della sua vita, durante il quale stava rivoluzionando la sua carriera, incominciava a domandarsi quale parte lui avesse avuto nel lanciarlo, oppure, più semplicemente, se Mara e Lorenzo erano invece degli ottimi gestori.
Nell’ottobre del 1985, per festeggiare il doppio affarone, le speculazioni sulle svalutazioni della lira a luglio e del dollaro alla fine di settembre, decise di offrirsi proprio là una lauta cena, assieme ai suoi ex colleghi di Londra, Ottavia, Beppe Severgnini e Andrew Morton. A quella cena, per la prima volta, sarebbe intervenuta anche la Principessa di Galles, in qualità di amica.
Gianmarco fu il primo ad arrivare nel locale. Aveva prenotato per cinque persone, senza specificarne i nomi. Arrivarono Beppe ed Ottavia, seguì Morton, vecchia conoscenza degli ex colleghi italiani, per ultima giunse Diana. Per poco Ottavia non svenne di nuovo, Severgnini si tenne prudentemente lontano dalla principessa (sapeva che portava guai), Morton, da buon reporter opportunista, per poco non le saltò addosso. Aveva ancora intenzione di scriverne la biografia, non avrebbe mollato finché sarebbe stato accontentato.
Dopo le presentazioni, Gianmarco si avviò verso il separé dov’era stata preparata la cena, a questo punto fu Mara, quando riconobbe Diana, a rischiare di cadere stecchita sulla tavola che aveva appena apparecchiato. La principessa, non era proprio dell’umore giusto quella sera. Gianmarco sapeva, da pettegolezzi di corridoio (e di redazione), che con il marito non andava più d’accordo già da parecchio tempo. Del resto, lo si vedeva ormai in qualsiasi occasione comparissero insieme.
Pochi mesi prima, avevano compiuto una visita ufficiale nelle principali città italiane.
Carlo, legnoso nel comportamento ma interessato a tutto ciò che vedeva, Diana più estroversa, ma tutto sommato, annoiata nel visitare un Paese da lei conosciuto soltanto per stereotipi. Santa Maria del Fiore a Firenze, non sapeva neppure esistesse, di Roma aveva appena conoscenza, per sentito dire, del Papa e del Colosseo. In Sicilia, quando salì in cima all’Etna, lo scambiò per il Vesuvio; sempre in Sicilia, pare si fosse meravigliata di non vedere mafiosi con la lupara a tracolla ad ogni angolo di strada. In Campania, visitando gli scavi di Pompei, ebbe il dubbio si trattassero di macerie dell’ultimo terremoto. Ma il top fu toccato in Sardegna, dove arrivarono con un aliscafo militare; dicono che Diana chiedesse al comandante dell’unità perché andassero in Francia, dal momento che erano in visita ufficiale in Italia: aveva evidentemente scambiato la Sardegna per la Corsica.
Come spesso capitava, l’interesse un po’ pedante di Carlo, per le cose italiane fu, da parte dei padroni di casa, scambiato per una regale cortesia diplomatica; le carinerie di Diana mandarono invece in sollucchero la folla, che come sempre, s’era data convegno per vedere lei e non il suo principesco consorte.
A Diana bastava niente per conquistare la platea. Per esempio, quando, avvicinatasi, per un tour di strette di mano, ad un gruppo di donne dietro le transenne, ad una di esse capitò di vedersi cadere a terra, oltre lo sbarramento per il pubblico, una rivista illustrata, che la donna teneva sotto il braccio. Diana si chinò, la raccolse e la restituì alla signora, poi le strinse la mano. Fu un gesto talmente rapido e naturale, che quasi nessuno notò, venne però registrato dalle telecamere della RAI, la quale, a visita ufficiale conclusa, lo trasmise e ritrasmise, ironizzando sulla “sciatteria” della futura regina d’Inghilterra. Erano atteggiamenti spontanei? Oppure si trattava di piccoli e simpatici gesti, furbescamente studiati a tavolino? E se erano studiati, chi li studiava? Diana stessa, oppure qualcuno dello staff del Principe di Galles?
Gianmarco, di sicuro sapeva soltanto che Diana era cambiata radicalmente: non era più la scombinata ragazzona che aveva conosciuto sei anni prima, l’insicurezza era in apparenza sparita, per lasciare il passo ad una maggiore consapevolezza del suo ruolo. Dal tono della voce con cui parlava, si sarebbe detto stesse impartendo degli ordini, non certo facendo delle banalissime domande o rispondendo ad altrettanto banali. Anche nell’aspetto fisico era mutata: spaventosamente dimagrita, due occhiaie grandi così, il sorriso tirato: come se stesse sempre recitando una parte. L’abito da cocktail, anche se, all’ultima moda, non riusciva a nasconderne la magrezza.
Anoressia, pensò Gianmarco che, da quando era diventata madre per la seconda volta nel settembre dell’anno prima, l’aveva vista di persona soltanto in rare occasioni ufficiali. L’anoressia era la malattia delle attrici e delle top models, ma non sembrava fosse il caso di Diana, che stava mangiando a quattro palmenti: aveva fatto sparire un’intera porzione di lasagne (con il bis), s’era divorato mezzo cotechino con lenticchie, avrebbe fatto ancora il bis, se non le avessero messo sotto il naso una monumentale cernia al forno con patate. Senza trascurare gli antipasti all’italiana, ai quali aveva fatto onore come nessun altro degli invitati, considerando che alla cernia seguì un brasato di cinghiale con tartufi, al quale pochi dei commensali, fuorché Diana, diedero l’assalto, poiché la crostata alla frutta, il profiterol ed una bella fetta di cassata siciliana, finirono anch’essi nel suo pancino, i commensali presenti, si domandarono dove mettesse tutta quella roba.
Diana, alla fine della cena, mentre stava sorbendo il caffè, s’accorse dell’educata perplessità dei suoi ospiti. Abbassando il capo e guardando le persone davanti a lei di sottecchi, come soleva fare con quel «tic» che aveva intenerito mezzo mondo, prevenne le loro mute domande:
- Che volete, ultimamente ho avuto qualche problema di digestione, ho saltato qualche pasto, ma ora sto bene, tant’è che ho vuotato tutti i piatti –
- Problemi di digestione Ma’am? Io avrei giurato fosse anoressica, la vedo molto magra – osservò Gianmarco.
- Il fatto è… che non sono anoressica, se lo fossi, non riuscirei a mangiare neppure un grissino; i miei medici mi hanno parlato di ehm… bulimia. Da quando ho sposato Carlo, ogni tanto ne soffro, in questi ultimi mesi poi… -
A Gianmarco si drizzarono le orecchie. Aveva un’idea molto vaga di quel che fosse la bulimia, si ripromise di consultare in proposito l’enciclopedia medica, ma Ottavia prevenne la sua domanda:
- Bulimia Altezza? In che consiste? –
- Ecco vede… è una malattia d'origine nervosa, capirete con tutti gli impegni pubblici cui sono sottoposta…. La bulimia, come dicevo, è una malattia che ti obbliga a mangiare grandi quantità di cibo… per poi vomitarlo subito dopo. Poi ricominci a mangiare ed io… io… non ne posso più –
Scoppiò in singhiozzi, lì davanti a tutti. Doveva essere un’allegra serata di festeggiamenti, con alcuni vecchi amici ed una bella rimpatriata, invece ecco le lacrime ed i drammi personali di Diana, che veniva a raccontare della sua bulimia.
In mezzo al silenzio imbarazzato di tutti, Gianmarco tentò di consolare la principessa:
- Ma’am… altezza… -
- Macché altezza e altezza, chiamami signora Windsor, con tutti i calci nel sedere che prendo ogni giorno. A Kensington Palace, i maggiordomi hanno più autorità di me –
Gianmarco, come un ordigno ad orologeria, stette in silenzio, meditando, per qualche secondo, poi s’incazzò:
- Diana! Non te ne rendi conto, ma tu non sei una cameriera, non sei neppure Mr. Demattei che oggi è sulla cresta dell’onda e festeggia duecentocinquanta milioni di sterline guadagnati. Domani il signor Demattei potrebbe essere in galera per truffa e pieno di debiti. Tu sei Altezza Reale per grazia di Dio, caschi il mondo, tu sarai sempre la Principessa di Galles – la guardò per un istante, mentre a capo chino, lei continuava a piangere silenziosamente.
- Pochi giorni fa, a Liverpool, è scoppiata un’altra sommossa di disoccupati. E’ tutta gente che buona o cattiva, onesta o disonesta, intelligente o stupida possa essere stata sul lavoro, una bella mattina è stata convocata dal capufficio, il quale ha consegnato loro una bella letterina, in cui era scritto che dovevano cercarsi un altro lavoro, che si arrangiassero. Sai che vuol dire tornare a casa la sera e dire alla propria famiglia che da domani si deve tirare la cinghia? Prevengo la tua obbiezione, neppure io, nessuno di questi signori qui intorno, hanno provato mai cosa significhi. Probabilmente non lo proveranno mai (almeno, me lo auguro), quanto a me…sarà alquanto difficile che succeda. Ma tu, futura regina d’Inghilterra, ti lamenti perché mangi e vomiti… -
Il predicozzo sortì l’effetto sperato, Diana riuscì a calmarsi e si ricompose.
- Dovete scusarmi, ma… per me è una cosa terribile, nessuno mi ha detto come debbo comportarmi da Principessa di Galles. Sapete, di questa malattia si può anche morire, che tu sia principessa o cameriera. Con la differenza, che a me faranno un bel funerale di stato e tutto sarà finito –
- Non dire queste cose – sussurrò Gianmarco – Dopotutto c’è tanta gente umile che ti vuol bene, a prescindere dal fatto che tu porti una corona in testa e loro stentano a conciliare il pranzo con la cena –
Diana proseguì con il suo sfogo:
- La visita ufficiale che questa primavera abbiamo fatto in Italia, mi hanno detto sia stata un fiasco, almeno per me. Mi hanno contestato parecchie gaffes e tutti hanno riso alle mie spalle –
- Chi l’ha detto Ma’am? - domandò Morton.
- Strano, non ci siamo mai accorti di tutte queste topiche – sbottò Ottavia.
- In effetti, da quanto s’è visto, il grosso pubblico in Italia vi ha accolti con favore – aggiunse Severgini.
- Neppure io mi sono accorta di tutti quegli sbagli che mi hanno rinfacciato… i consiglieri di mio marito e lo stesso Carlo. Avreste dovuto sentirlo, tutte le sere, dopo qualche visita a musei od a qualche chiesa. Io avevo i piedi che mi dolevano, non avevo capito un’acca di quel che m’avevano detto, e Carlo mi faceva le paternali: “Hai sbagliato questo, hai detto quest’altro, non hai salutato il tizio, sei stata troppo espansiva, sei stata troppo musona”. Non gli andava mai bene niente, non gli va mai bene niente di ciò che faccio. Tra pochi giorni, dovremo andare in America, da Reagan e Nancy. Mi hanno pregato di non aprire mai bocca, di non dire niente, nemmeno se mi rivolgono la parola, specie con i giornalisti, che sono i più pericolosi di tutti –
S’interruppe di colpo, ennesima gaffe, quelli che aveva intorno erano tutti giornalisti od ex giornalisti. Notando il suo imbarazzo, gli altri sorrisero divertiti.
- Se temi, cara Diana, che noi domani andremo a spifferare sui nostri giornali, tutto quello che ci hai detto ora, non ti devi preoccupare. Vedi, quello che distingue uno scribacchino da un vero giornalista, è che il giornalista sa anche tacere le notizie che potrebbero fare del male, senza bisogno di censori. Lo scribacchino, invece, scriverebbe tutto quello che crede di sapere, anche sulla carta del cesso. Così, ben presto si troverà a corto di notizie da riferire, nessuno se lo filerà più, nessuno vorrà fargli confidenze e prima o poi, dovrà cambiar mestiere. Qui, a questo tavolo, ci sono soltanto giornalisti, non scribacchini. Se tu non lo vorrai, quello che ci hai detto non sarà mai pubblicato, di ciò garantisco io –
Diana li guardò implorante, tutti capirono che quelle sarebbero state confidenze dette in “camera charitatis”. Gianmarco notò l’espressione di Morton, era piuttosto contrariato, ma sapeva che neppure lui avrebbe scritto alcunché. La sua grande occasione, per il momento, era sfumata, si sarebbe rifatto sei anni più tardi, ed avrebbe fatto molto rumore.
La signora Mara s’affacciò ai bordi del separé, gettò un’occhiata tra l’invidioso ed il reverente prima a Gianmarco poi a Diana, fece un bel sorriso:
- Vi occorre nient’altro? –
Diana s’alzò di scatto, era diventata pallida come un cencio tutta d’un tratto, quasi rovesciò il tavolo, sussurrò a Mara con voce strozzata :
- Il bagno, dov’è il bagno? –
Mara la prese sottobraccio e ve l’accompagnò, poi ritornò dagli altri commensali.
- Non ha gradito la cena? – domandò in preda al panico.
- Al contrario, ha onorato le sue portate come nessuno di noi, solo che questa sera, già prima di venire qua, aveva… un certo imbarazzo di stomaco –
- Oddiiiio! – Mara levò gli occhi al cielo – Me lo poteva dire che si portava a cena anche Lady Di e che aveva problemi di digestione, sarei stata più attenta a quel che le cucinavo. Ed ora che figura ci faccio? La futura regina, è di là in bagno e sta vomitando, dopo aver cenato nel mio ristorante, che figura! –
- Non si preoccupi, signora Berni – la tranquillizzò Gianmarco – Se tanto mi dà tanto, tra un momento rivedrà a questo tavolo la principessa, con più appetito di prima, anzi, mi sa proprio che lei questa sera ha guadagnato una nuova cliente –
Mara, non del tutto tranquillizzata, tornò a montar la guardia davanti alla porta del bagno. Dopo qualche minuto Diana ne uscì. L’espressione era decisamente più rilassata, anche per quel giorno il ciclo bulimico si era concluso. Si sedette di nuovo al tavolo, si passò le mani tra i capelli, poi mormorò guardandosi in giro :
- Carino questo locale, quasi quasi ci ritornerò qualche altra volta –
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 7:40 pm

Capitolo XV


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil13


ETA’ DELL’ORO






Diana mantenne la parola, al “San Lorenzo” ritornò parecchie volte, anzi, il locale divenne quasi la sua seconda casa, una succursale di Kensington Palace; Mara e Lorenzo Berni, dopo qualche mese, i suoi migliori confidenti.
Spesso e volentieri era al “San Lorenzo” che la principessa intesseva le sue tresche con la stampa e i fotoreporter, sempre al “San Lorenzo” erano recapitate a Diana le lettere più compromettenti, al “San Lorenzo” festeggiava compleanni ed altri anniversari mondani.
Sempre tra i separé del ristorante italiano, la titolare la introdusse alla cartomanzia ed allo spiritismo. Avendo ancora scarsa fiducia in se stessa e nessuna negli uomini in generale, Diana indulgeva nelle pratiche dell’occultismo per trovare una scorciatoia ai suoi problemi personali.
Anche Gianmarco, fu spesso tentato di consultare astrologi e medium, ma per motivi ben diversi. Aveva iniziato il 1985 con un patrimonio investito sulla piazza di Londra per circa ottanta milioni di sterline, lo chiudeva, potendo ormai dedicare tutto il suo tempo alle attività finanziarie, con un malloppo di duecentocinquanta milioni, sterlina più sterlina meno. Tutto ciò lo doveva alla straordinaria effervescenza delle borse in tutto il mondo, non solo, le attività della RDC in Italia, andavano a mille. Per il 1986, Roberto prevedeva di guadagnare più di Agnelli e De Benedetti messi assieme, naturalmente, gran parte di quei proventi prendevano la via di Londra, dove Gianmarco era pronto ad accoglierli.
I “boom” delle borse, come sanno tutti quelli che ci si sono scottati le dita, sono effimeri. A periodi di rialzo selvaggio, fanno seguito repentine cadute, seguite da una voragine di fallimenti. Nel caso del patrimonio amministrato da Gianmarco, il rischio era grosso, essendo quasi tutto in titoli di debito pubblico od azioni. Quanto sarebbe durato il periodo del “toro”? Avrebbe fatto in tempo ad incrementare ed a consolidare tutto quel ben di Dio? Sarebbe poi riuscito a saltar giù dal carro della speculazione prima che si ribaltasse?
Più che un astrologo, occorrevano degli analisti finanziari con i nervi saldi. Quasi tutti gli esperti in materia, consultati anche da lui, calcolavano che per tutto quel 1986 i mercati sarebbero stati in espansione, quindi non ci sarebbero stati pericoli di crolli improvvisi. Era infatti un periodo in cui non erano previste importanti scadenze elettorali in tutto il mondo, tranne che in Germania, dove il governo, presieduto da Helmut Koll, era dato per sicuramente rieletto, perciò, gli assetti politici ed economici non sarebbero stati messi in discussione.
Il prezzo del petrolio era in forte calo: i paesi dell’OPEC non riuscivano ad accordarsi sulle quote estrattive spettanti a ciascuno di essi. La guerra tra Iran e Irak, continuava con la consueta ecatombe, al cui paragone, quella del Vietnam sarebbe sembrata una rissa da osteria. Per cui, allo scopo di fronteggiare le immani spese militari, i due Paesi stavano pompando e svendendo petrolio a rotta di collo, facendone, di conseguenza, precipitare le quotazioni per la prima volta dal 1973.
Dall’Unione Sovietica, non sarebbero, per il momento, venute grane; il Paese era troppo impegnato a rimettere in sesto la propria economia, devastata da vent’anni di immobilismo brezneviano e da spese militari dissennate.
Per questi motivi, Gianmarco ed i suoi consulenti prevedevano per tutta la durata del 1986 un’espansione sostenuta dei corsi azionari. I pericoli semmai, si sarebbero palesati entro il 1987: elezioni in Gran Bretagna, probabili elezioni anticipate in Italia, attenuazione dell’euforia a causa del mancato “boom”, seguito al ribasso dei prezzi del petrolio.
Se avesse visto giusto, Gianmarco calcolò di poter raggiungere entro il 1986 un patrimonio stimabile approssimativamente in quattrocento milioni di sterline. Soltanto se fosse riuscito a realizzare ed a mettere al sicuro quanto guadagnato entro la prima metà del 1987, avrebbe potuto dire d’esser diventato ricco. Infatti, fino a quel momento, quei guadagni, anche se enormi, sarebbero rimasti soltanto sulla carta.
Verso la fine del 1987, previde ancora, le borse mondiali si sarebbero sgonfiate. Sarebbe stato quello il momento di tirare le somme; solo allora infatti, si sarebbero visti i veri vincitori della partita in corso, chi era veramente ricco e chi invece sarebbe rimasto seduto su di un mucchio di carta straccia.
Roberto lavorava come un forsennato, sarebbe stato quindi inutile domandargli qualche consiglio. Ormai spessissimo rispondevano le segretarie alle sue telefonate dirette.
- Te la devi sbrigare da solo, per questa volta o forse… per sempre – gli ripeteva sovente Matteo, ridacchiando dall’altro capo della scrivania, dove soleva appoggiarsi con i gomiti quando lo vedeva preoccupato – Avevi per le mani un lavoro, forse ingrato, forse pericoloso, ma che avrebbe potuto darti tante di quelle soddisfazioni! Hai voluto diventare finanziere, che fa rima con avventuriere, ed ora ti trovi ad amministrare un patrimonio immenso, però hai paura di perderlo in un battibaleno. Basterà che un computer o qualche altra diavoleria, si guastino e… plaff: tutti con il sedere per terra, compreso tu. Te la sei voluta! –
Gianmarco fu più volte tentato di rispedirlo a Milano perché tornasse a svolgere il suo vecchio lavoro di barelliere (anche quello faceva rima con finanziere!), ma poi le arrabbiature gli passavano, non così le preoccupazioni per un imprevisto tracollo dei mercati prima del previsto.
Alla fine del marzo 1986, prese le decisioni strategiche definitive: avrebbe puntato al rialzo per tutto il 1986 ed almeno per la prima metà del 1987, le occasioni di guadagno non sarebbero venute a mancare, Il mercato dei “futures” e dei derivati gliene avrebbe certamente fornito lo spunto. Nella seconda metà del 1987 avrebbe, con alcuni soci inglesi ed italiani, costituito un fondo chiuso per gestire al meglio il periodo delle vacche magre, cui tutti sarebbero prima o poi incappati.
Il problema era dunque di costituire un portafoglio titoli dinamico per tutto il 1986 e parte del 1987. Da Londra, quindi da un osservatorio privilegiato, Gianmarco poteva spaziare a piacimento su tutti i mercati internazionali. L’unico handicap era di non disporre ancora di collaboratori esperti. Aveva assunto come segretaria la signorina Rose, una ventenne che era riuscito a scovare presso uno studio di commercialista, Samuel, un ex impiegato di banca, stufo, dopo dieci anni, di timbrare il cartellino presso la Barclays di Londra, a trent’anni era desideroso di sensazioni “forti”. Nel ruolo di factotum c’era sempre il fido Matteo che non aveva rivali ed infine lui, Gianmarco. Se era vero che Napoleone fosse solito ripetere: “Io e cinquantamila uomini ai miei ordini, facciamo come centocinquantamila uomini”, la sua, era un’ottima compagine, tanto per incominciare.
Lasciata la redazione del “Giornale” a Fleet Street, s’era trasferito in un’altra via famosa, Lombard Street, la strada degli affari, in un ufficio che aveva attrezzato con terminali di computer e PC. In quella via, fin dal tardo medioevo, avevano impiantato quartiere e sede i banchieri e i mercanti italiani, che gl’inglesi di allora chiamavano appunto genericamente Lombard (Longobardi).
Entro novembre di quell’anno, la borsa di Londra sarebbe stata completamente informatizzata, niente più “corbeilles”, niente più operatori che urlavano ordini d’acquisto o di vendita intorno ad esse, niente più tabelloni con le quotazioni. Un mondo che scompariva, tutto ciò sarebbe stato sostituito dai terminali. Gli acquirenti o i venditori, dal loro ufficio, dopo aver dato un’occhiata alle quotazioni, avrebbero impartito gli ordini attraverso il loro computer, determinando così, in tempo reale, le oscillazioni della giornata. La trattazione sarebbe diventata continua, senza più chiusure o “fixing”. In un secondo tempo, gli ordini sarebbero stati dati automaticamente dai computers stessi. Quando le quotazioni avessero raggiunto un valore predeterminato, gli ordini d’acquisto o di vendita si sarebbero stabiliti senza alcun intervento umano. Una cosa fantastica, inconcepibile fino a pochi anni prima. Nessuno immaginava che nell’ottobre del 1987, il crack delle borse internazionali, in parte, sarebbe stato causato anche da quegli automatismi, concepiti proprio per evitare cadute rovinose o rialzi esagerati.
Gianmarco pensò a ciò che lo stava aspettando, gli vennero i brividi:
- Il mondo sta per spiccare il volo, caro Matteo – gridò in faccia all’amico – E noi, siamo sulla pista di rullaggio, ai comandi di un caccia a reazione, che presto diverrà un “Jumbo”, aspetta e vedrai! –
- Metafora per metafora: forse il tuo caccia a reazione riuscirai anche a farlo decollare, stai soltanto attento a tornare a terra dopo il volo. Non vorrei vederti scendere con il paracadute, oppure senza nemmeno quello –

- Hallo, Ghiamma? Ci possiamo vedere questa sera al “San Lorenzo?” –
Quante volte s’era raccomandato con Diana di non usare il telefono per chiedere appuntamenti privati. Gianmarco fu sul punto di riattaccare senza risponderle, ma Diana lo prevenne:
- Sto chiamando da una cabina telefonica, non ci sono pericoli d’intercettazione –
- Dal tuo telefono no, ma dal mio sì, Diana, anch’io sono intercettato –
Lei restò interdetta per un momento, poi mormorò
- Oh… scusa, non ci avevo pensato –
- Non fa niente, ormai la frittata è fatta, d’accordo questa sera al “San Lorenzo” –
Diana riattaccò immediatamente senza neppure salutare. Gianmarco rimase pensieroso, la voce di lei gli era parsa angosciata, almeno, a giudicare dalle poche parole che aveva pronunciato.
Da quell’ultima serata dell’ottobre 1985, non s’erano più visti, se non in un’occasione: alla vigilia di Natale di quell’anno, quando lei ed il Principe di Galles furono invitati in casa di Sophie Kimball, a quella festa fu invitato anche Gianmarco. Allora, il Principe e la Principessa di Galles si sopportavano appena a vicenda, era come se tra loro si fosse calata una paratia stagna trasparente. Gianmarco, poco dopo, notò che Carlo si intratteneva affabilmente con una donna bionda, che doveva avere pressappoco la sua età. Diana, ogni tanto, lanciava un’occhiata d’inquietudine verso suo marito e la donna.
Ad un certo punto i due si alzarono dal divano dov’erano seduti e si diressero verso lo studio dell’appartamento, meno frequentato, si misero quindi di nuovo a tubare, lontani da orecchi indiscreti.
La cosa era imbarazzante per tutti, figuriamoci per Diana, la quale, vista la scenetta, le venne vicino ed incominciò a parlare con Gianmarco dei figli, della vita di Buckingham Palace, della Regina, degli sgarbi alla quale era soggetta: tutte cose risapute, Diana parlava tanto per parlare.
Gli avevano confidato che per combattere la bulimia nervosa, i medici l’imbottissero di psicofarmaci. Ogni tanto, la servitù la vedeva vagare per i giardini di Kensington Palace come un automa, magari sotto la pioggia, come se avesse voluto stordirsi e contemporaneamente tirarsi via da uno stato di profonda prostrazione.
Ed ora si trovava lì, di fianco a lui mentre parlava e parlava senza quasi tirare il fiato, poi, lanciata di nuovo un’altra occhiata verso lo studio della casa, tacque di colpo, si coprì la bocca con una mano e chinò la testa, come se volesse ricacciare in gola una crisi di pianto, inutilmente. Dopo qualche istante gli domandò:
- Mi sto comportando in modo strano, vero? –
- Non più delle persone che vedi attorno a noi. Chi è quella donna, se è lecito? –
- Quale donna? –
- Non far la finta tonta, Lady Di, sto alludendo alla donna che sta parlando con il principe –
Gli occhi di Diana ebbero come un lampo d’ira: qualcosa che lo raggelò.
- Lasciamo stare, ti prego – gli sussurrò alzandosi – Vuoi ballare? –
- Però stai attenta ai piedi – esclamò lui con un sorriso.
Tutto il resto della serata trascorse tra un ballo ed il silenzio “assordante” di Diana. Gianmarco non era mai stato il tipo da party, dopo mezzanotte, spesso anche prima, incominciava a sbadigliare come un ippopotamo. Quella sera aveva accettato l’invito di Sophie, perché sperava di trovarci Diana, o forse, era stata Diana stessa a suggerire alla padrona di casa di invitarlo. In ogni caso, vedendo che il suo amico era annoiato dalla compagnia, Diana cercò di ravvivare la conversazione con argomenti che lo interessassero:
- Tuo fratello è diventato una potenza, portagli i miei complimenti, qui in Inghilterra è sulla bocca di tutti –
- Sulla bocca di tutti lo è senz’altro, ma non sempre belle parole escono da quelle bocche, quando parlano di lui. Ciò vale anche per me, che sono sempre sotto i loro occhi –
- Tutta invidia, sono i tipici commenti degli inglesi spocchiosi. Perché cent’anni fa i loro avi hanno fatto i soldi con i metodi più sporchi, loro oggi, con il sedere nella bambagia, grazie a quei quattrini, si sentono autorizzati a dare addosso a tutti quelli che domani potrebbero far loro ombra. Io giudico le persone per quello che sanno fare, non certo per il loro titolo nobiliare o dal fatto che nascano bene o no –
- Questo vale anche per la tua famiglia, principessa? –
- Che c’entra la mia famiglia? Io…io, uno di questi giorni ti racconterò tutto –
- Perché non lo racconti adesso? –
- Perché è quasi l’una del mattino e domani è Natale, anzi, siamo già a Natale, Merry Christmas, Ghiamma! – e lo baciò su di una guancia.
- Se anch’io ti baciassi sulla guancia, credi che il Principe di Galles … -
- Che vada a farsi…. il Principe di Galles! –
Niente male, come augurio di Natale per il proprio consorte.
Gianmarco, nel suo ufficio ripensava a quel piccolo episodio di sei mesi prima. Dopo allora, aveva veduto Diana soltanto sui rotocalchi mentre tagliava qualche nastro o visitava ospedali. Qualche biglietto di circostanza, un invito ad un pranzo ufficiale cui lui non aveva potuto presenziare per altri impegni, un paio di telefonate nelle quali Diana gli chiedeva consigli d'ordine finanziario e nient’altro; ora quell’appuntamento al “San Lorenzo”, fissato imprudentemente per telefono con voce concitata. Questa volta non poteva mancare, anche se correva il rischio di farsi spiare da mezzo servizio segreto.

Quando lo videro entrare, Mara e Lorenzo Berni per poco non fecero salti di gioia.
- Il solito séparé – ordinò
- Due persone, vero? – chiese Mara con un sorriso complice.
- Non faccia quell’espressione, non sono venuto qua per divertirmi, tanto più che ormai Diana è una cliente più assidua di me –
- Lei è sempre così occupato con la sua finanza, a proposito, vorrei chiederle se fosse possibile acquistare… -
Gianmarco la zittì immediatamente:
- Degli affari personali se ne parla dopo, a proposito, come stiamo a bulimia? –
Mara fece una smorfia, poi scosse il capo:
- Non molto bene, dottor Demattei, è un periodo molto critico per la principessa. Avrà saputo dell’incidente capitatole in Canada, qualche settimana fa –
Gianmarco annuì. Era infatti successo che Diana fosse improvvisamente svenuta davanti a tutti, mentre stava presenziando insieme al Principe di Galles all'inaugurazione della fiera di Toronto. Per quell’incidente, tutti i presenti pensarono ad una nuova gravidanza della principessa, in realtà Diana era spossata da un’altra crisi bulimica particolarmente lunga. A quanto dicevano, il Principe di Galles, dopo che la moglie era stata trasportata in una saletta appartata, le fece un cicchettone perché non era stato molto educato da parte sua svenire in pubblico: i re ed i principi, come tutti sanno, in pubblico possono anche morire, ma stando in piedi.
Mara e Lorenzo lo accompagnarono al séparé in fondo al locale, Gianmarco ordinò un analcolico come aperitivo, in attesa che Diana arrivasse. Quando fu lasciato solo, estrasse dalla tasca della giacca il dispositivo che era riuscito a procurarsi (pagandolo un occhio della testa): l’apparecchio, grande come un pacchetto di sigarette, segnalava la presenza d'eventuali microspie in funzione nei dintorni. Quel genere di apparati, non era mai sicuro al cento per cento, però le precauzioni non erano mai troppe, visti i precedenti. In effetti, l’apparecchio non segnalò alcunché di anormale, batté le mani e fece tintinnare una posata contro un bicchiere: alcuni tipi di microspia si attivavano soltanto in presenza di rumori ambientali, ma nemmeno con quell’espediente il segnalatore rilevò orecchie nascoste. Tranquillizzato, Gianmarco si dispose a sorbirsi l’analcolico, quando, un brusio nel locale, seguito dall’argentina voce di Diana, lo avvertirono che forse di aperitivi avrebbe fatto meglio ad ordinarne due.
La principessa entrò nel séparé. Indossava un abito lungo di velluto blu notte, aveva per l’ennesima volta cambiata pettinatura, ora portava i capelli arricciati. Due ombre sotto gli occhi gli confermarono, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il suo stato di salute non era dei migliori. Gianmarco si alzò, era sempre imbarazzato sul come comportarsi con lei. Fosse stato in Italia, l’avrebbe baciata su una guancia (sulla fronte sarebbe stato un po’ comico, lei era più alta di lui); in Inghilterra, dal momento che non si usava il baciamano, per una donna del rango di Diana, sarebbe occorso un leggero inchino, ma Gianmarco, in privato non l’avrebbe fatto nemmeno con una pistola puntata alla tempia. Per sua fortuna, Diana lo prevenne allungandogli la mano, il finanziere gliela strinse.
- Sicuramente, l’etichetta non è la tua specialità, dear Ghiamma–
- Quante volte debbo ripeterti che sono un plebeo –
- Un plebeo molto fortunato – osservò Diana, sedendosi a tavola, poi, rivolta a Mara:
- Questa sera non ho molto appetito, mi affido al tuo buonsenso –
Anche Gianmarco si accomodò; fece un cenno a Mara che pure lui si sarebbe fidato della padrona, poi guardò Diana, dritto negli occhi. Non lo faceva abitualmente con nessuno, anche perché, timido com’era, li avrebbe abbassati lui per primo. Ma questa volta fu Diana ad abbassare lo sguardo, anzi, abbassò il capo e si mise a fissare la pochette che stringeva ancora tra le mani.
- Volevo chiederti se potevi… consigliarmi su un investimento per conto di Harry, il mio secondo figlio. Mio padre ha intenzione di intestargli più di un milione di sterline, io vorrei investirli in azioni o titoli, insomma, non sono molto pratica per queste cose, tu invece sei ormai nella finanza –
- Sono soltanto un principiante con parecchi quattrini; finora sono stato fortunato, come tu stessa hai notato, però, qui a Londra potrai trovare almeno un migliaio tra finanziarie e fiduciarie che possano fare al caso tuo, io non sono ancora autorizzato ad operare direttamente sulla borsa di Londra, ho anch’io bisogno d’intermediari; a novembre però, con il “big bang”… -
Diana gli fece cenno di tacere, afferrò il tovagliolo, lo appallottolò e lo strinse tra le dita. Era imbarazzata, ma non aveva ancora il coraggio di sputare il rospo.
- Gettiamo la maschera, non volevo parlarti di questo, non solo … -
- Me n’ero accorto, dimmi tutto Diana, vuoi parlarmi della Royal Family? –
Diana si sporse verso di lui e sussurrò:
- Chissà se siamo spiati? –
- No, non credo, ho controllato con questo – e le mostrò il rilevatore – Stando a quest’aggeggio, non ci sono microspie–
- Qui, anche i muri … - osservò Diana – Ma sì! Parliamo della Royal Family –
Gianmarco si dispose ad ascoltare.
- Il mio matrimonio va a rotoli –
- Sei finalmente riuscita ad ammetterlo con te stessa –
- In effetti non è mai facile ammettere di aver fallito come moglie e... come futura regina –
In quel momento entrò la signora Mara con la prima portata, scoperchiò la zuppiera, intinse il mestolo e vuotò nel piatto di Diana un densissimo minestrone all’italiana con… trippa.
- Alla faccia del poco appetito! – esclamò Gianmarco rivolto alla padrona.
- Assaggi principessa, mi dica come lo trova –
Diana assaggiò quel variopinto intruglio di verdure, pasta e carne, con l’aggiunta di brodo.
- Buono, squisito, ottimo! Ma cosa sono questi pezzi di carne?–
Gianmarco non ebbe il coraggio di dirle che si trattava di intestino di vacca, aveva paura che vomitasse tutto sul tavolo.
- Mangi, dopo le spiegherò di che si tratta – le suggerì Gianmarco.
Diana guardò entrambi con sospetto.
- Meglio non indagare –
Dopo che Mara si fu di nuovo ritirata, riprese il filo del discorso.
- L’altra settimana, Carlo si è trasferito a vivere a Hightgrove, quella vecchia villa che ha acquistato poco prima di sposarmi. E’ diventata la sua garçonniere, l’ha ristrutturata e riammobiliata, ha messo a dimora delle piante nuove nel parco. Le piante ed i fiori sono sempre stati la sua mania, trascura me ed i figli per curare il giardino. Quella villa ed il suo parco sono diventati una specie di ossessione; figurati che una volta, durante un’intervista televisiva ha persino detto che “Con le piante bisogna anche parlare” – le scappò una risatina.
- Così lo prenderanno pure per matto! – osservò Gianmarco – Anche mio fratello, quando acquistò la villa di Arcore, rimase incantato dal giardino all’italiana di quella dimora: ci ha speso un patrimonio per rimettere in sesto soltanto il parco. Ma se avesse dovuto trascurare gli affari e la famiglia per curare l’orto di casa, a quest’ora saremmo ridotti a dei pezzenti –
- Ti giuro che per lui esiste soltanto la tenuta di Hightgrove, ormai siamo praticamente separati in casa. Io e i figli siamo diventati soltanto una parte dell’arredamento. In cima alla scala dei suoi interessi si trova solamente la sua tenuta di campagna, i cavalli da polo, l’architettura, i musei ed infine, quella… quella donna –
- Tutti i salmi finiscono in gloria – pensò, poi domandò, pur conoscendo la risposta:
- Quale donna? –
- Ricordi quel party alla vigilia di Natale dello scorso anno? –
- Certo che me lo ricordo – rispose il finanziere - ti domandai anche chi fosse quella donna, tu non volesti rispondermi –
- Ti rispondo ora: è l’amante di mio marito, una sua vecchia fiamma, con la quale non ha mai rotto i ponti, nemmeno quando ci siamo fidanzati. Due giorni prima del matrimonio, ha trascorso la notte insieme a quella sgualdrina; quando è nato William è venuto all’ospedale a trovarmi, direttamente da casa di lei. Quando avevo le doglie per Harry… non è venuto neppure a trovarmi, subito dopo il parto, tra una partita di polo ed una battuta di caccia, ha finalmente trovato il tempo per venire a vedere come fosse fatto il suo secondogenito. Gli ha gettato un’occhiata, lui sperava fosse femmina, ha fatto un commento sul colore dei capelli, poi è ritornato dalla sua amante –
- Camilla Parker, vero Diana? –
Diana rimase per un momento interdetta, poi si rese conto che quello dell’amante del Principe di Galles, era per tutti, un segreto di Pulcinella –
- Da quanto tempo lo sai? –
- Da prima che tu sposassi Carlo. La conoscevo soltanto di nome… e di fama, l’anno scorso, grazie a te, ho finalmente potuto vederla in faccia e, se la cosa può farti piacere, non è stato proprio un gran bel vedere –
- Io la chiamo il “rottweiller” –
- Purtroppo, i gusti del Principe non coincidono con i miei, il meno che si possa dire è la solita frase di circostanza: “Ma che cosa ci troverà?” –
Diana, che nel frattempo aveva vuotato il piatto, da sola si servì di un’altra porzione di minestrone e trippa, quindi riprese con tono irato:
- Non l’ha mai mollata. Solo adesso che mi ha lasciata me ne rendo conto. Naturalmente come moglie, sono stata l’ultima a sapere, il nostro matrimonio è stato combinato anche da lei. Lei ha indotto Carlo a sposarmi. Ero la moglie ideale anche per Camilla: ero una ragazzetta, quindi plasmabile, mi credeva un'emerita cretina, temeva che Carlo sposasse mia sorella Sarah. Mia sorella non è mai stata tipo che si facesse mettere sotto i piedi –
- In che senso? – domandò Gianmarco.
- Nel senso che Sarah di come andava il mondo, era al corrente più di me, che allora aveva appena compiuto diciott’anni, le avrebbe rotto le corna, a quella… -
- Non vedo come, non capisco proprio in virtù di quale ragione, avrebbe potuto imporre al Principe di Galles una fedeltà coniugale, che in ogni caso, lui non aveva nessuna intenzione di rispettare –
- Sei proprio un plebeo italiano! – Lo schernì Diana – glielo avrebbe fatto mettere nero su bianco: io lascio Camilla Parker Bowles e sposo Sarah Spencer. Dopodiché, se anche soltanto la signora Camilla si fosse azzardata a fare gli occhi dolci a Carlo, puoi star certo che quel documento sarebbe saltato fuori. Così, tutti gli inglesi avrebbero potuto sapere che il loro futuro re è uno spergiuro –
- Quel che si dice: “Un contratto di ferro” – osservò Gianmarco – Sempre che il matrimonio lo possiamo considerare un contratto. Vedi Diana, questi pezzi di carta che sostituiscono l’amore tra un uomo ed una donna, mi fanno ridere. Tu sei libera di pensarla come ti pare, ma nulla mi vieta di credere che se proprio il principe amava Camilla, nemmeno tua sorella avrebbe potuto farci niente –
- Spiegami perché – ribatté Diana - Carlo non l’ha sposata. Te lo dico io il perché: Sarah aveva una sorella più giovane che credeva ancora nelle favole e nei principi azzurri. Ha trovato me, che sapeva non avrei fatto storie –
Così dicendo, Diana finì di vuotare anche il secondo piatto, fortunatamente in quel momento arrivò Mara con la seconda portata: bollito misto in salsa verde con mostarda. Tre porzioni di minestrone, sarebbero stati micidiali anche per uno struzzo.
La principessa riattaccò a mangiare.
- Mi devi ancora spiegare cos’erano quei pezzi di carne che galleggiavano nella minestra, stufato di serpente? – scherzò Diana.
- No, budello di vacca – rispose brutalmente Gianmarco.
Diana spalancò gli occhi, rimase con una forchettata di lesso a mezz’aria, poi si alzò di scatto. Dove fosse il bagno ormai lo sapeva, inoltre, i proprietari del ristorante le avevano rilasciato una copia della chiave perché avesse, in qualsiasi momento, un wc a disposizione tutto per sé.
Mara lo fulminò con uno sguardo:
- Poteva risparmiarselo dottor Demattei, stava mangiando con tanto appetito! –
- Non m’immaginavo una reazione così rapida. Il fatto è che Diana non è ammalata di stomaco, è ammalata nella psiche. Non si guarisce dalla bulimia con le diete, ma curandosi da uno psicologo esperto –
- Mio Dio, allora è… fuori di testa? –
- Non esageriamo, però di questa malattia c’è chi è morto, per carenza di vitamine essenziali e di sali minerali che l’organismo non fa in tempo ad assimilare –
- Ma si può anche guarire? –
- Certamente, ma come in tutte le malattie di origine nervosa, non bastano gli psicofarmaci, occorre che il malato voglia guarire, e per voler guarire, servirebbe che un buon psicologo riuscisse a trovare il bandolo della matassa nei meandri della mente. Purtroppo, né lei né io né alcun altro, siamo in grado di aiutarla, senza magari far dei danni maggiori –
- Ma la Royal Family? –
- La Royal Family è troppo preoccupata che la cosa non si sappia in giro –
- Ma come si può fare per aiutarla? –
- Occorrerà sottoporla a sedute di psicoanalisi. Né io, né alcuno dei miei amici in Italia o qui abbiamo avuto problemi di questo genere. Dovrebbe avere degli impegni meno stressanti, dovrebbe essere convinta che non ha il cervello da gallina, che in fondo in fondo è convinta di avere. Insomma, le servirebbe una maggiore autostima ed in questo, né il marito, né la famiglia le sono d’aiuto –
In quel momento Diana rientrò dalla toilette. Senza dire una parola, si mise una mano davanti agli occhi, si appoggiò con il gomito al tavolo e cominciò a singhiozzare sommessamente.
- Aiutatemi, non ne posso più, è come essere sprofondati in un buco nero e non riuscire a vederne l’uscita –
- Davvero non puoi consultare uno specialista nei disordini alimentari? - le domandò dolcemente Gianmarco.
- E come faccio? Lavoro quattordici ore al giorno, spesso passano giorni interi senza poter vedere i miei figli –
Gianmarco gettò uno sguardo implorante a Mara, la quale, era rimasta impettita in piedi dietro la principessa, la donna comprese: mise una mano su di una spalla di Diana e si congedò silenziosamente.
- Dovresti riuscire a ritagliarti uno spazio maggiore all’interno della Casa Reale, dovresti curare meglio i tuoi rapporti con la stampa, o meglio, con quella parte della stampa che non ti è pregiudizialmente ostile. In questo, Andrew Morton ed io potremmo esserti d’aiuto: nei prossimi giorni ti farò avere un elenco di giornalisti e di fotoreporter di cui potrai fidarti. Potrai rilasciare loro dichiarazioni e confidenze e stai sicura che non ne abuseranno né scriveranno nulla che ti potrà mettere in cattiva luce presso l’opinione pubblica –
- Ma mio marito … -
- Tuo marito dovresti cercare di riconquistarlo, bada bene: solo tuo marito. Quanto alle altre cariatidi della Royal Family, lasciale correre. Trattale ovviamente con il rispetto dovuto al loro rango, ma, ti ripeto, non perder tempo con loro –
- Carlo ed io abbiamo ormai gusti ed interessi divergenti –
- Se è soltanto per quello, li avevate anche prima di sposarvi. Ora, quello che piace all’uno è detestato dall’altro e viceversa; questa è una patologia micidiale, che può mandare all’aria qualsiasi matrimonio, in questo caso però, quella che ci rimetterebbe maggiormente saresti tu –
- Non ho mai pensato di divorziare, od anche soltanto di separarmi, che diamine! Abbiamo due figli piccoli e gli occhi di mezzo mondo puntati addosso –
- Eccolo il tuo guaio, sei sotto i riflettori da troppo tempo. La cosa, per un po’ ti lusinga e ti esalta, poi te ne ritrai spaventata: hai paura di non essere adeguata. Quando te ne spaventi, riprendi a cadere nella bulimia –
Diana, nel frattempo, aveva rimesso mano alla forchetta: bollito di manzo e di vitello, pollo lesso, cotechino, salsa verde, mostarda, senape. Fece sparire tutto in un battibaleno, poi diede l’assalto direttamente ai piatti di portata. Divorava tutto il loro contenuto con una voracità che lasciò sbalordito anche Gianmarco, che alle folate abbuffatorie di Diana ci aveva quasi fatto l’abitudine.
- Levami una curiosità Ghiamma –
- Dimmi pure –
- Come stai a donne? –
- Che intendi dire? –
- Intendo la tua vita sentimentale. Ho preso qualche informazione e … -
- Da troppo tempo in qua, tutti brigano per prendere qualche informazione sul mio conto, senza naturalmente chiedermene il permesso, anche tu ti sei messa a spiarmi? – domandò risentito.
- Semplice curiosità femminile. Ti stavo dicendo che dalle informazioni in mio possesso, sono venuta a sapere che tu, per quanto riguarda il gentil sesso, sei piuttosto a terra, anzi sottoterra. Se lo desideri, potrei presentarti… -
Diana s’era accorta troppo tardi di aver toccato un tasto pericoloso: nelle faccende di cuore ed anche di sesso, Gianmarco era di un’intransigenza che rasentava il fanatismo. Anche nei suoi amorazzi giovanili, Gianmarco era sempre stato di una fedeltà assoluta nei confronti delle sue partner, nel senso che lui non le aveva mai scaricate, erano state le ragazze a mollare lui, dopo che s’erano stufate. Poi venne la storia con Diana, la quale non se ne rendeva tuttora conto, nel suo cuore aveva scavato una voragine difficile da colmare; se poi si aggiungeva anche l’umiliazione che Gianmarco subì, si sarebbe potuto facilmente convenire che con lui, le faccende di cuore Diana avrebbe dovuto lasciarle stare.
La principessa, quando vide l’espressione torva che aveva assunto Gianmarco, allora e soltanto allora si accorse del passo falso che aveva compiuto e si mise a piagnucolare.
- Non ti rendi conto che, ci sono persone a questo mondo che non desiderano, non vogliono che altri si mettano a ficcare il naso nei loro affari, magari credendo di far loro del bene. Ti ho mai chiesto nulla in proposito? – domandò Gianmarco.
- No, ma… -
- Quindi, non toccare mai più questo tasto, siamo qui per discutere dei tuoi problemi, non dei miei. Quel giorno che vorrò esporti i miei problemi, non dubitare, te ne parlerò senza remore –
Diana prese dalla pochette un altro fazzoletto e si soffiò il naso:
- Sai, devi capire, la moglie del principe Andrea, quella Sarah Ferguson che sposerà tra qualche mese, gliel’ho presentata io. Così avevo pensato che anche con te avrei potuto … -
- Tu hai presentato “Fergie la Rossa” al principe Andrea? – Gianmarco si mise a ridere.
Questa volta fu Diana a risentirsi. Alzò la testa, lo fulminò con lo sguardo: due occhi che lanciavano fiamme, il viso arrossato, un’espressione che gli ricordava quella ugualmente furente di sette anni prima, quando stavano volando verso Milano. In quel momento, come allora, Gianmarco ne fu terrorizzato.
- Perché ridi? –
- Stavo pensando a quello che dicono della futura “Duchessa di York” tutti gli osservatori della Royal Family – Gianmarco si trattenne ancora dal ridere: Sarah era chiamata, per la sua rotondità, la “Duchessa di Pork”.
- Stanno pensando come le scimmie, sono degl’imbecilli disinformati. Sarah è una ragazza sensibile e spiritosa e molto più furba di me, vedrai che bella coppia formeranno lei e Andrea. E’ pure una mia carissima amica, se proprio vuoi saperlo. Non ti azzardare più a ridere, quando parliamo di lei! –
Adesso erano alla pari, la serata, incominciata in modo splendido, finiva con un litigio. Diana si calmò riprendendo a mangiare, di botto, gli domandò:
- Sabato prossimo, il mio amico Elton John darà un concerto all’Albert Hall, mi accompagneresti? Carlo, piuttosto che portarmi ad un concerto di musica Rock preferirebbe farsi tagliare le orecchie –
Gianmarco ne fu raggelato, doveva cercare qualche scusa, doveva prendere tempo:
- Se si facesse tagliare le orecchie, dimagrirebbe anche di qualche chilo –
Diana (dopotutto l’aveva provocato), scoppiò in una delle sue improvvise risate: evidentemente, quando si rideva di suo marito, diventava allegra con qualunque genere di battuta.
- Non sto scherzando Ghiamma, sempre con quelle guardie del corpo tra i piedi. Qualche mese fa, hanno allontanato Barry Mannakee, la mia guardia personale, per il semplice motivo che la sua presenza al mio fianco è stata giudicata da qualcuno troppo assidua. Lo stesso hanno fatto con il mio autista, Simon Solari. Capirai, se dipendesse da me, guiderei l’auto senza bisogno di autisti, ma giacché me ne hanno assegnato uno … -
Gianmarco si trattenne dal rivolgerle in proposito domande compromettenti, per esempio, quale genere di rapporti intercorressero tra lei e l’ispettore Ken Wharfe e soprattutto, tra Diana ed il maggiore Hewitt, l’insegnante di equitazione suo e dei suoi figli.
- Ci vieni o sei occupato? – insistette lei.
- Non sono occupato, per quel giorno sarò libero come l’aria, tuttavia non verrò –
- Perché non verrai? –
Gianmarco si appoggiò alla sedia, chiuse gli occhi per riordinare le idee:
- Perché sono uno straniero in un paese straniero, perché la moglie del futuro Re d’Inghilterra, quando va ai concerti Rock o ci va con suo marito oppure non ci va per niente. Perché questa moglie del Principe di Galles, un tempo l’ho amata e lei, in quel tempo, ha preferito sposare un altro ed infine, perché se vorrò aiutare questa donna, potrò farlo soltanto se avrò le mani libere da qualsiasi impegno che non sia quello inerente al mio lavoro ed a quello che so fare –
Diana lo guardò corrugando la fronte; era evidente che non aveva capito bene le sue giustificazioni.
- Per essere chiari – precisò allora – Non voglio dar luogo a chiacchiere da parte dei media, con un’esibizione pubblica al tuo fianco. Nel tuo interesse, per l’opinione pubblica tu devi comportarti sempre in modo irreprensibile e non devi… -
- E quando mai non mi sono comportata in modo irreprensibile? Cos’hai capito Ghiamma? Io ti ho solamente invitato ad un concerto, non ti ho proposto altro, ma ci mancherebbe! –
- “Qui lo dico e qui lo nego” – pensò Gianmarco.
Come modo per battere in ritirata, quello scelto da Diana era stato senz’altro uno dei migliori. Evidentemente, cinque anni a Buckingham Palace avevano affinato in lei le doti di diplomazia ed era anche diventata ipocrita e furbetta.
- L’ho detto tanto per mettere in chiaro le cose, dopotutto, sei stata tu ad incominciare –
- Con me – precisò Diana - non c’è alcun bisogno di mettere in chiaro niente, se desidero qualcosa, lo dico chiaro e tondo, non uso giri di parole e men che meno la prendo alla larga –
Gianmarco considerò invece che Diana l’avesse proprio presa alla larga ed usato dei giri di parole per corteggiarlo, ma ovviamente non stette ad insistere. La donna, per quella sera era già abbastanza alterata, non voleva peggiorare la situazione.
- Davvero mi hai amato sette anni fa? – domandò Diana, cambiando discorso.
- Mi pare d’avertelo già detto in un’altra occasione: quella festa per il battesimo di William –
Lo sguardo le si raddolcì di colpo, per un istante negli occhi della principessa credette di veder di nuovo brillare qualche lacrima.
- Non essere burocratico quando parli d’amore con le donne – gli suggerì dolcemente – Non metterti ad elencare noiosamente quante volte hai fatto questo o quant’altre volte hai fatto quest’altro: dillo e basta. Le dichiarazioni non sono una contabilità aziendale, neppure un archivio od una biblioteca. Credimi Ghiamma, sei l’uomo più buono e più onesto che abbia conosciuto. Sai perché quattro anni fa, ho voluto rivederti? –
- Me lo posso immaginare –
- No, tu non t’immagini niente. Perché volevo ritornare la Diana Spencer di diciott'anni, che ti conobbe in quel condominio a Coleherne Court. Quella ragazzetta che una mattina d’estate, dopo aver conosciuto quell’affascinante giornalista italiano, saltò sulla motocicletta di lui e si fece a duecento all’ora una cavalcata fino alla tenuta di suo padre, pur avendo una fifa tremenda. Me la ricordo ancora, quella corsa in motocicletta, è stato uno dei momenti più belli e più esaltanti della mia vita –
- E’ costata cara ad entrambi quella gita, vero Diana? – domandò Gianmarco, con un groppo in gola.
Diana fece di sì con il capo.
- Ma io la rifarei ancora adesso, da Principessa di Galles –
- Purtroppo io non guido più motociclette –
- Ed io non stiro più la biancheria agli amici. Allora, per far colpo su di me, mi rivelasti che m’avevi sognata la notte precedente. Ti capita ancora di sognare, tra un affare e l’altro? –
- Dal momento che guido una finanziaria da trecento milioni di sterline, ho tali e tante preoccupazioni, che la notte non sogno più, ho invece degli incubi –
- Se solo per questo… sei diventato avido, esibizionista ed anche un tantino stronzo –
- Principessa, che parole sulle sue labbra! –
- Dovresti sentire quelle che pronuncio quando litigo con il principe –
- Dovresti vedermi tra qualche anno, quando guiderò la holding di mio fratello: chissà che epiteti t’inventerai per quel giorno, nei miei confronti –
- Per quel giorno, la Regina Elisabetta mi avrà buttato fuori da Kensington Palace –
- Non succederà, lo sai benissimo, sei la madre del futuro re –
Diana fece un gesto vago, poi si guardò l’orologio da polso.
- Quasi l’una, debbo ritornare a palazzo. Non che lì sentano la mia mancanza in modo particolare, ma ho due figli da curare. Mi accompagneresti con la tua auto fino a Kensington Palace? –
Gianmarco, pur restando stupito per il fatto che la Principessa di Galles fosse costretta a chiedere un passaggio per tornarsene a casa, si alzò, aiutò Diana ad infilarsi il bolerino dell’abito da sera e l’accompagnò all’uscita del ristorante.
Diana, poco prima di uscire dal locale, gli fece cenno d’aspettare. Gianmarco, attraverso la vetrata, la vide fermarsi presso una Jaguar, parcheggiata dalla parte opposta della “Beauchamp Place”. Dall’auto scesero due uomini, probabilmente un autista ed una guardia del corpo, l’avevano aspettata fino a quel momento. Diana parlò con uno degli uomini, poi i due ripresero posto sulla vettura mentre Diana ritornava verso il “San Lorenzo”.
- Non ho scorte armate per proteggerti, principessa – le fece notare Gianmarco, quando fu rientrata nel locale.
- Con me non ce ne sarà mai bisogno, ma tu vallo a spiegare ai funzionari di corte –
- Matti, disposti a tutto purché si parli di loro, ce ne saranno sempre. Pensa soltanto a mio fratello e a me –
- Per rendere innocui quelli come te, non sono necessarie scorte armate, bastano soltanto quelle come me – gli rispose Diana con un sorriso divertito – Adesso, per favore, portami a casa. Quelli della scorta che hai visto, ci seguiranno senza darci alcun fastidio. A proposito, spero che la tua macchina sia abbastanza di lusso per una persona del mio rango – ironizzò.
- Ti basta una Maserati? – le domandò.
- Santo cielo! Si vede che hai fatto carriera –
- Non posso lamentarmi, almeno dal punto di vista delle automobili – le rispose Gianmarco, mentre le apriva la porta del locale facendola uscire.
Diana s’incamminò lungo il marciapiede. Gianmarco, un passo dietro, indicandole a voce da che parte dovesse dirigersi per arrivare al punto dove aveva parcheggiato la Maserati. Dopo qualche metro, Diana si voltò verso di lui.
- Pensi sia già diventata regina, per camminare un passo dietro? –
Lui la raggiunse e le si affiancò.
- Va bene così? –
- OK, ma si ricordi sempre quali sono le nostre distanze di classe, si ricordi anche che io sono … -
- …Una principessa, mentre io sono un… -
Diana si fermò all’improvviso, gli fece cenno di tacere poi terminò:
- Tu sei la mia roccia, il mio alfiere, l’uomo che per me si batterebbe contro tutti i draghi del mondo e questo, caro Ghiamma, non lo potrò mai dimenticare –
- Ne sei sicura principessa? –
- Ne sono sicura. Ormai le persone ho imparato a giudicarle. Se vuoi un consiglio: smetti, ogni tanto, di contare i soldi che guadagni, impara di nuovo a sognarmi una di queste notti, come facevi una volta –
Gianmarco, stordito da quelle parole, si augurò che la principessa avesse smesso finalmente di credere nelle favole.
- Sai che ti dico? Quasi quasi, la settimana prossima ci verrò davvero a quel concerto di Elton John –
- Non ne ho mai dubitato – gli rispose Diana.


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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 7:49 pm

Capitolo XVI


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil14


SBANDATE E INTERLUDI






Finalmente, Roberto gliel’aveva fatta, era riuscito a conquistare anche il Milan, dopo due tentativi infruttuosi. Il primo nel 1978, quando fu letteralmente buttato fuori dall'ufficio dell'allora presidente Colombo al quale Roberto aveva offerto di acquistare la squadra, purché il vecchio presidente levasse l’incomodo; il secondo tentativo nel 1983, quando un gruppo di consiglieri della squadra gli offrì la presidenza. In quest’ultimo caso fu Roberto a rifiutare; infatti, essendo, le sue televisioni, ancora in fase di lancio, temeva che i tifosi di altre squadre le boicottassero per ripicca. L’occasione si ripresentò per la terza volta nel 1986; a fine campionato la squadra rossonera era di nuovo nei guai, piena di debiti, con un presidente squattrinato che si apprestava a smembrarla, vendendo i giocatori migliori ed imbastendo persino una speculazione, tesa a lottizzare la sede degli allenamenti della squadra, Milanello.
Era davvero l’ultima chanche, Roberto non se la lasciò scappare. Alla fine di luglio il Milan era suo e ne divenne presidente. Gianmarco aveva seguito le trattative per l’acquisto attraverso i giornali, non ne aveva avuto parte alcuna, s’era soltanto limitato a fare il tifo per Roberto. Non era però del tutto sicuro che la sbandata calcistica del fratello fosse delle più opportune. Rimettere in sesto una squadra blasonata ma decaduta come quella, avrebbe richiesto tempo e quattrini. Di questi ultimi, Roberto ne aveva ormai parecchi, di tempo invece, mai abbastanza; inoltre, quando un tifoso, dopo qualche partita, non vede la sua squadra girare come vorrebbe, per prima cosa, se la prende con l’allenatore, poi con la dirigenza, alla fine, è sempre il presidente a finire sulla graticola, come avevano imparato a loro spese, i vari presidenti che avevano preceduto Roberto.
Ripensando a questi ultimi, a Gianmarco venne un colpo: Rizzoli in galera e fallito, Duina in galera e fallito, Colombo in galera e fallito, Riva fallito e latitante in Libano, Farina sull’orlo del fallimento, ma non ancora in prigione.
Roberto s’era preso ancora una volta, una brutta gatta da pelare, su questo non v’erano dubbi; d’altro canto, se sotto la sua guida la squadra fosse risorta, ne sarebbe sortito anche un ritorno d’immagine che avrebbe decuplicato il suo prestigio. Quello che neppure Gianmarco immaginava era che ormai Roberto si portava appresso, a mo’ di strascico regale, la fama del vincente, dell’uomo che non sbaglia mai una mossa. Questa nomèa avrebbe svolto nel Milan la funzione di moltiplicatore d'energie per i giocatori, indipendentemente, o quasi, dal loro valore.
Da quando Roberto Demattei assunse la guida del Milan, una vittoria della squadra diventava un fatto scontato, quasi ordinaria amministrazione; una sconfitta, un avvenimento, specialmente per la squadra che l’aveva battuto.
In dieci anni di presidenza Demattei, il Milan avrebbe collezionato cinque scudetti e tre Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali: la squadra di club più forte del mondo. Ma, come s’era detto, non erano queste le considerazioni che passavano, in quei momenti, per la testa di Gianmarco, bensì su come Roberto avrebbe potuto impegnare meglio i suoi quattrini, invece di gettarli sui campi di calcio.
- Questa volta, tuo fratello farà uno di quei buchi nell’acqua, che ne parleranno gli storici fino alla fine dei secoli – commentò Matteo, sfogliando la pagina sportiva del “Giornale” - Quasi quasi, mi faccio trasferire di nuovo a Milano. Non voglio perdermi neppure una partita del Milan, per quando le buscherà anche dall’ultima in classifica. Poiché le partite a San Siro io potrò seguirle soltanto dalle curve, mi comprerò un cannocchiale, per vedere bene la faccia di tuo fratello nella tribuna VIP –
- Io t’accontento subito – rispose Gianmarco – ti rispedisco a Milano a fare il barelliere, ma non più alla clinica, bensì allo stadio di San Siro, per portar fuori i giocatori della tua Inter, quando ci sarà il prossimo “Derby della Madonnina “ –
- Ma va là! Pensa ad investire meglio i soldi di tuo fratello, perché da questo momento incominceranno i tempi grami –
Per quello, non aveva da lamentarsi: il capitale si stava rapidamente avvicinando a quota 400 milioni di sterline; per la fine dell’anno, probabilmente avrebbe sfiorato o superato i 500, grazie al boom della borsa:
- E questo coyote d’interista, insinua pure che non so investire i soldi! – Gli urlò dietro Gianmarco, mentre Matteo se ne usciva, come al solito sghignazzante, dal suo ufficio.
Anche in Italia le cose andavano bene. Craxi era sempre più saldo in sella, Roberto guadagnava cifre colossali con la TV commerciale, ora si stava lanciando nella produzione in proprio di film e fiction. Allo scopo di poter meglio distribuire i film che avrebbe prodotto, aveva acquistato una catena di sale cinematografiche in tutta Europa. La RDC era ormai un colosso della comunicazione multimediale: spaziava in tutti i campi dell’informazione e dell’intrattenimento.
Mancava però un tassello molto importante per completare, in ogni suo aspetto, il complesso puzzle che stava componendo: una casa editrice. Solo con i libri, infatti, la panoplia degli strumenti a sua disposizione si sarebbe completata.
Fino ad allora la battaglia dei Demattei era stata rapida, basata più sul movimento e la determinazione, che sulla ponderatezza delle scelte. Queste ultime poi, erano state compiute d’istinto, in base al fiuto, dote innata in ogni vero imprenditore, ma che, alla lunga, avrebbero potuto dimostrarsi controproducenti.
Roberto era quindi alla ricerca tenace ma silenziosa di una casa editrice. Aveva già ricevuto numerose offerte di vendita da questo o da quell’altro editore, ma come suo solito, voleva il meglio. Negli ambienti dell’editoria, tutti sapevano che Demattei stava puntando alla “Morandi Editore“. Quest’ultima, per quanto finanziariamente malmessa (anche a causa delle precedenti avventure in campo televisivo, cui l’aveva tirata fuori proprio Roberto), era pur sempre la più grande ed importante casa editrice italiana ed una delle più influenti, nel pur rachitico panorama editoriale della Penisola. Per conquistarla, Roberto ci mise quattro anni, a partire da quel 1986, in cui vi entrò come socio di minoranza. Vi spese una valanga di quattrini, acquistò un’azienda pesantemente indebitata, soprannominata “Il cimitero degli eleganti”, per via della compassatezza un poco demodée del suo management. In compenso, oltre ai debiti, acquisì in modo permanente anche il rancore degli ambienti intellettuali italiani, i quali, abituati fino ad allora ad avere a che fare con editori che acquistavano a scatola chiusa tutte le loro opere, anche nel caso si trattasse d'autentiche nefandezze, si trovarono, da quel momento, a tu per tu con un signore che pretendeva di giudicare i loro parti letterari per quel che riteneva valessero, non certo per il blasone del loro autore.
L’entrata nel grande giro editoriale della RDC fu un’autentica rivoluzione nel contesto del panorama letterario, anche se in forma meno rutilante di quella nella televisione. Avrebbero dovuto correre tutti gli anni novanta, prima che se ne vedessero gli effetti positivi. Ugualmente, avrebbe dovuto correre molto sangue, anche se soltanto in senso metaforico; infatti, nel decennio successivo agli ottanta, parecchi autori di mezza tacca, andati per la maggiore nei giornali e nelle librerie, grazie ai loro protettori politici, dovettero cambiar mestiere, oppure decidersi finalmente a comporre qualche opera valida. Roberto, ormai tutti lo stavano capendo, era disposto solamente a pagare le sue vaccate, non certo quelle degli altri.
Gli anni ottanta avevano ormai superato la boa e si stavano avviando a divenire l’epoca più ricca di progresso morale e civile del ventesimo secolo. Un secolo che, dai posteri, sarà ricordato più per le conquiste della scienza e della tecnica, che per la supremazia morale e civile. Il novecento, si è contraddistinto per materialismo, non certo per civiltà, pieno com’è stato di stragi e di guerre mondiali, camere a gas, lager e bombe atomiche, macchine per la distruzione e poco rispetto per l’uomo.
Gli anni dal 1980 al 1990 furono un’eccezione a questa regola, e in quegli anni, in Italia ed in Europa, due sole persone, ne fossero coscienti o meno, testimoniarono al meglio lo spirito di questa eccezionalità: Roberto Demattei e Diana Spencer. Gianmarco li conobbe e li amò entrambi.
Tutti, hanno indicato in Papa Wojtyla, in Ronald Reagan, in Margareth Tahtcher, In Gorbaciov, in Mitterandt, in Helmut Kohl e Bettino Craxi, le persone che maggiormente incarnarono quest’epoca; ma si tratta di un grosso equivoco, anche se scusabile. Questi personaggi giganteschi, sono stati attori, non testimoni.

Il “FALCON 10” con il logo della RDC, percorse la pista dell’aeroporto e si fermò con un ultimo sibilo davanti all’aerostazione. Gianmarco guardò il cielo terso ed i pini mediterranei, che s’intravedevano aldilà dei fabbricati dell’aeroporto di Olbia, attraverso i vetri della cabina di pilotaggio.
Quell’estate dopo-Cernobyl del 1986, incominciava, da parte di Roberto, con l’inaugurazione della sua nuova villa in Sardegna. Gianmarco, come rappresentante del “ramo inglese” della famiglia, era stato invitato ai festeggiamenti ed al taglio del nastro della nuova magione. Quello che stava diventando uno dei più ammirati e temuti finanzieri della City di Londra, afferrò la “24 ore”, con lo striminzito bagaglio che poteva contenere e si ritrovò, poco dopo, sul suolo patrio. Attraversò quasi di corsa il piazzale che separava il parcheggio degli aerei dall’entrata all’aerostazione; percorse quel breve tratto sotto ad un sole africano e con un’afa alla quale non era più abituato.
L’aria e l’atmosfera mediterranee, lo stavano di nuovo catturando, Gianmarco si domandò se e quando l’avrebbero riacchiappato per sempre. La sottile melanconia di Londra e dell’Inghilterra lo avevano ammaliato, ma il ricordo di luoghi dov’era nato e vissuto, il piacere familiare di risentire la lingua che aveva sempre parlato, lo riportavano, ogni volta che ritornava, alla sua dimensione naturale.
No, un giorno non sarebbe più ripartito e, ripiantate le radici sulla sua terra, non le avrebbe rimosse.
- Eccolo arrivato, finalmente, il nostro Lord Brumel! –
Gianmarco sussultò; era Marcello Geraci che l’aveva, ancora una volta, sorpreso alle spalle.
- Marcello, ogni volta che vieni ad accogliermi al posto di Roberto, rechi sempre qualche novità, il guaio è che non so mai se si tratti di una buona o di una cattiva nuova –
- Nessuna novità, per questa volta, sono venuto a prenderti per accompagnarti alla nuova villa, tanto, tu non avresti saputo trovarla; non l’hai mai vista vero? –
- No, neppure in fotografia; chi l’ha vista, mi ha però riferito che si tratta di una versione moderna delle ville medicee, di buona memoria –
- Il solito esagerato! Niente di tutto questo, si tratta di una grande villa costruita per un uomo ricco, qual è diventato oggi Roberto. Intendiamoci, niente in stile Hollywoodiano, comunque, vedrai da solo –
Nel parcheggio fuori dell’aeroporto, li stava aspettando una Mercedes con autista; Marcello e Gianmarco vi si accomodarono sui sedili posteriori.
Poco dopo, l’automobile correva lungo la litoranea della Costa Smeralda, tra rocce e macchia mediterranea, punteggiata qua e là da ville e villaggi turistici, tra i quali, ad un certo punto, sarebbe pure comparsa la nuova dimora di Roberto Demattei. La villa, in effetti, non era visibile dalla statale che percorrevano, ben mimetizzata com’era tra le rocce e la rada vegetazione circostante, sopra uno sperone roccioso, quasi a picco sul mare. Gli architetti dello studio di progettazione della EDILDIM, l’immobiliare della RDC, avevano svolto un buon lavoro. La casa, era rivestita in pietra locale e, per quanto grande, a stento riusciva a distinguersi dalle rocce sulle quali era stata edificata.
Dopo una delle tante curve, comparve un cancello di ferro battuto, sorretto da un porticato in mattoni, intonacato a calce. L’autista aprì l’inferriata per mezzo d’un radiocomando. Il mezzo imboccò la strada d’accesso. Il viale s’inerpicava con alcuni tornanti, sul rilievo roccioso, punteggiato da eucalipti, il selciato era lastricato con “sampietrini”.
Gianmarco non vide ombra di guardiani né altro personale addetto alla sorveglianza, tuttavia, qua e là, tra gli arbusti, si vedevano brillare al sole le lenti di alcune telecamere, disposte in modo da non perdere mai di vista chi fosse entrato dal cancello principale.
- Niente e nessuno ci potrebbe scappare; chiunque entrasse in questo recinto, puoi star certo che non ci sfuggirebbe. Anche un topolino sotto al muro di cinta – fece notare Marcello, quasi leggendogli nel pensiero.
- Uhm! Non sarebbe stato meno costoso, ed anche più sicuro, mettere due bravi guardiani in carne ed ossa, davanti all’ingresso? – domandò Gianmarco – Dopotutto, le macchine non sbaglieranno come l’uomo, ma si guastano facilmente –
- Abbiamo dispositivi elettrici ed elettronici dentro, fuori, sopra e sotto il muro di cinta ed una centrale che li controlla all’interno della villa. Questi dispositivi sono sorvegliati giorno e notte da ben sei guardiani, che si danno il cambio ogni otto ore. Caro Giamma, forse non ti rendi conto che tuo fratello, per quanto buono e caro, ha ormai anche troppi nemici. Non bastano più un paio di guardiani davanti al cancello di casa, come accadeva fino a una decina d’anni fa, occorrono sistemi più sofisticati –
- Ho capito – osservò Gianmarco – Invece di avere due guardiani a sorvegliare la villa di Roberto, ne abbiamo sei per sorvegliare i sistemi di sorveglianza della villa di Roberto. E Roberto con la sua famiglia, chi li sorveglia? –
Marcello sorrise per quel gioco di parole, ma non rispose al suo rilievo.
Erano nel frattempo arrivati alla villa vera e propria. L’auto parcheggiò in uno spiazzo, davanti ad un muraglione di blocchi di pietra. Sopra al muraglione la villa: una costruzione in pietra, mattoni e calce, con archi, finestre e balconi disposti in modo tale che il sole ne inondasse almeno uno, a qualsiasi ora del giorno ed in qualunque stagione.
Altre auto erano parcheggiate nello spiazzo, quelle degli invitati all’inaugurazione. Gianmarco e Marcello salirono una gradinata a fianco del muraglione e si ritrovarono in mezzo ad un altro spiazzo erboso, davanti al porticato d’ingresso alla casa. Lì si sarebbe tenuto il party. In mezzo al prato, era stata imbandita una mastodontica tavolata; sparsi per tutto lo spiazzo, molti tavolini dov’erano già seduti gli invitati. Quel ricevimento, Gianmarco se l’era proprio immaginato così; al solito, il vecchio fratellone aveva fatto le cose in grande.
I padroni di casa, Roberto e Flavia, corsero incontro ai nuovi arrivati: baci e abbracci al fratello “inglese”. Flavia, sua cognata, una bella donna di quarantaquattro anni, se lo mangiava con gli occhi. Dall’espressione, si vedeva che moriva dalla voglia di chiedergli di Diana: alla prima occasione l’avrebbe anche fatto. Per sua fortuna, Roberto lo tenne letteralmente sotto la sua personale sorveglianza per tutto il pomeriggio, lo presentò e ripresentò ai numerosi ospiti, facendo in modo che Gianmarco non restasse mai solo.
- Se Flavia riesce ad arpionarti per più di cinque secondi, sei fritto; ti terrà sotto sequestro, finché non avrai sputato tutto sulla Principessa di Galles –
- Appunto per questo, cerco di evitarla –
- Appena avremo un attimo di tempo, ti illustrerò i progetti: grandi cose, grandi eventi! –
- E capirai! – esclamò Gianmarco – Quando mai, tu non hai grandi progetti per il futuro e quando mai, hai un attimo di tempo per illustrarli a me o a chiunque altro? Se non ti fermi per un momento, corri il rischio di tenerli per te e di non poterli mai realizzare –
Roberto sfoderò uno dei suoi famosi sorrisi a trentadue denti. Infatti, tra i tanti nomignoli che gli avevano appioppato, c’era anche quello di “dentiera elettrica“:
- Questa volta te ne renderò partecipe, per l’esattezza, i progetti sono tre. Intendo entrare nella grande editoria, acquisendo la “Morandi Editore”, successivamente acquisterò, tramite quest’ultima, altre case editrici più o meno in cattive acque; in tal modo, costituirò il più grosso polo editoriale italiano ed uno dei più grandi d’Europa. Questo è il primo progetto; il secondo, è che sono in trattativa per l’acquisto dei grandi magazzini OMNIA –
Gianmarco fece un fischio:
- Di questo, non sapevo niente. Ma è un grosso rischio; l’attuale proprietario l’ha spremuta come un limone per finanziare le sue scorribande speculative. Ci sarebbe da stupirsi se la gente andasse ancora a fare acquisti alla OMNIA, visto e considerato che sono cronicamente in passivo da dieci anni, se non vado errato. Nel nostro Paese, la grande distribuzione è ancora all’ABC. La OMNIA è per volume d’affari, la seconda rete distributiva italiana, ma se la paragoniamo a qualsiasi catena di grandi magazzini francese, tedesca o inglese, fa la figura di un rigattiere –
- Anche in questo caso, una volta che ne sarò diventato proprietario, attorno ad essa costituirò, con altre acquisizioni, un polo distributivo molto più grande –
- La terza “pentola”? – Domandò Gianmarco.
- Intendo trasformare, sia pur gradualmente, la “Lombarda Assicurazioni” in una banca d’affari –
- Tu sei matto! Non ce ne sono già troppe di banche e banchette in Italia? –
- Di banche, ce ne sono effettivamente troppe, ma di banche come le intendo io, no, non ce ne sono, né in Italia né altrove –
Roberto s’interruppe e lo guardò con il solito sorriso furbesco, evidentemente voleva che ci arrivasse da solo.
In effetti, Gianmarco incominciò a scavare nella propria memoria, alla ricerca di una traccia, di un ricordo che gli potessero indicare a cosa stesse alludendo suo fratello.
- Aspetta, aspetta …. Qualche mese fa, ti ho parlato di una banca telefonica, che è stata appena varata in Inghilterra: i clienti, invece di andare al solito sportello bancario, sollevano la cornetta, compongono il numero della banca e dettano per telefono tutte le loro operazioni. Ma noi non abbiamo … -
Gianmarco osservò ancora la faccia di Roberto.
- Fuochino! Per aiutarti, ti faccio osservare che sono ormai l’uomo delle televisioni…. – esclamò il fratello.
- Il televideo! Sicuro, il televideo: tu vuoi mandare i conti correnti di ciascun cliente, ognuno provvisto di un codice d’accesso, attraverso il televideo delle reti televisive RDC. Così, in tempo reale, ciascuno potrà sapere qual è la sua posizione, senza andare in banca a romper le scatole a qualche cassiere maleducato –
- Centrato in pieno! – si complimentò Roberto: sembrava Mike Bongiorno.
- Naturalmente questo sarà l’obiettivo finale; le tecnologie per mettere in pratica un simile progetto, non sono ancora state compiutamente sviluppate, ma i miei consulenti mi assicurano che lo saranno tra sei, sette, otto anni al massimo. Per quel periodo, dovremo essere pronti e naturalmente…-
- I primi! – completò Gianmarco.
- Sempre per primi, detesto arrivare secondo, Giamma, dovresti ormai averlo capito –
- Cambiando discorso, per il prossimo anno, come credi si piazzerà il Milan? –
- Per quest’anno cercheremo di galleggiare al centro-classifica, ma a partire dal campionato 1987–1988, dovremo essere i primi. Il discorso che ti ho fatto in precedenza, vale anche per il Milan, naturalmente. Non spendo una pila di miliardi per vedere la mia squadra sul secondo o sul terzo gradino; se arrivi anche soltanto secondo, nel gioco del calcio, come negli affari o nella vita, è perché qualcuno è stato più bravo di te –
- O più furbo… o più disonesto – osservò Gianmarco.
- Machiavelli ci ha insegnato che a questo mondo, non si commettono grandi delitti, ma grandi errori. Gli errori, a differenza dei delitti, si pagano tutti e soprattutto, si pagano sempre –
Roberto prese il fratello sottobraccio, attraversarono insieme il prato affollato, lo condusse al lato opposto, dove il giardino finiva con una balaustra a picco sul mare.
- Guarda qui! – lo esortò Roberto.
Gianmarco si sporse ad ammirare dal balcone, a strapiombo sulle rocce dove, cento metri più sotto correva la strada litoranea, percorsa poco prima da lui e da Marcello, poi il mare, un mare cristallino, che si confondeva con il cielo all’orizzonte.
- Dove lo trovi uno spettacolo così a Londra? –
- Uno dei tuoi sfoggi di ricchezza? –
- Sei sempre così pessimista! Forse le nebbie e le brume del Nord Europa, ti hanno reso malinconico? –
- No Roberto, è che… in momenti come questo, davanti a spettacoli così superbi, ho sempre la certezza che tutto ciò dovrà finire: io, tu, tutti noi, in fondo, siamo soltanto degli ospiti su questa terra. Tu cammini, tu corri, tu superi e abbatti ogni ostacolo; tu prendi, anzi afferri e porti via. Io, non riesco a camminare che in punta di piedi ed a toccare, sfiorando con le dita. Tu gridi e sghignazzi, io sussurro e sorrido. Chi di noi due ha ragione? –
Roberto lo guardò incuriosito, poi gli allungò un buffetto:
- “Semel in anno licet insanire”, se ben ricordo il latino del liceo: una volta all’anno è lecito far pazzie. Falle anche tu, per una volta. Dài, che ce lo siamo meritato! –
Inguaribile Roberto! L’uomo che liquidava tutti i problemi con un sorriso e con un motto. Ma Gianmarco sapeva che dietro quell’apparente bon ton si nascondeva una volontà di ferro ed una mente calcolatrice, che sapeva soppesare i pro e i contro, con il bilancino da farmacista.
Errori, ne commetteva tanti anche lui, naturalmente, ma mai di irreparabili. Roberto aveva per tutto una via di fuga, un passaggio segreto sotto al suo castello incantato, che, nei momenti più critici, gli permetteva sempre di mettere in salvo se stesso e quelli intorno a lui. Sapeva colpire duro, il dottor Demattei, sapeva anche essere spietato con gli avversari, sapeva legarsele al dito, sapeva aspettare, poi, quando l’avversario pensava che tutto fosse dimenticato, immancabilmente, sapeva anche stenderlo al tappeto. Così era successo, tempo prima, con gli immobiliaristi milanesi, con i concorrenti per l’acquisto del “Giornale”, con i concorrenti televisivi, con gli agenti teatrali, con cineasti e registi. Domani, chissà? Anche con l’editoria, i supermercati, il calcio, le banche, poi, che altro?
- Vedi Roberto, non vorrei essere frainteso. Ci sono molte cose…poco pulite dietro tutto ciò. Tu mi hai citato Machiavelli, per giustificarti ed anch’io, forse, dovrò giustificarmi, un giorno e lo farò. Ma se ho fatto tutto ciò che ho fatto, credo che sia stato per una causa più grande, anche più grande di noi –
- Ho voluto costruire qualcosa che lasci il segno – gli rispose Roberto, fattosi serio tutto d’un tratto - Ma nella coscienza degli italiani; tanto, di opere insigni, l’Italia ne è già piena. L’opera che ho in mente, se riuscirò a realizzarla, sarà molto meno effimera e resterà per sempre. Non m’importa più niente di quattrini, quel che ho, ne converrai, basta ed avanza per tre generazioni almeno. Voglio l’anima della gente: che sia mia per sempre! –
- Se ho ben capito le tue intenzioni – soggiunse Gianmarco – Vorresti diventare una specie di Gramsci della borghesia. Solo che il povero Antonio Gramsci, quel che ha scritto, lo ha scritto in una cella di prigione, non in una splendida villa sulla Costa Smeralda –
- Perché, che ha scritto Gramsci? Inoltre, chi ti dice che uno di questi giorni in prigione non ci finisca anch’io? –
- Se questo dovrà succedere, promettimi, anzi, giurami che non rinnegherai ciò che hai fatto, giurami che non farai il pentito per evitare di pagare il dazio, giurami che mai e poi mai, coinvolgerai le persone che ti hanno aiutato a diventare quello che sei. Solo così accetterò di continuare al tuo fianco. Non per il denaro od il potere, ma per fare qualcosa che andava fatto e che, in altre epoche, è stato fatto da altri come noi –
- Te lo giuro, non rinnegherò mai me stesso, mi dovresti conoscere ormai. Ora però mi dovresti spiegare cosa c’entra Gramsci con tutto ciò che secondo te avrei in mente di compiere –
Gianmarco sorrise rassicurato, poi come suo solito, quando si esibiva in voli pindarici, cercò di spiegare al fratello quella che era la strategia gramsciana di acculturazione delle masse:
- Antonio Gramsci, dovresti averlo studiato al liceo, fu il fautore dell’egemonia del proletariato sulla borghesia di formazione liberale, attraverso la cattura dei mezzi di comunicazione di massa, senza ricorrere alla violenza fisica. La violenza fisica, la lasciò praticare ai socialisti della vecchia scuola massimalista ed ai fascisti, che come ben sai, a cominciare dallo stesso Mussolini, provenivano dal vecchio Partito Socialista. L’egemonia del proletariato, come ti dicevo, si sarebbe potuta realizzare…. –
- Bastaaaa! – gli urlò Roberto – Non è possibile che mio fratello, mentre festeggiamo l’inaugurazione di una villa da miliardari, si diverta a rompermi i cosiddetti con l’esposizione di lambiccate teorie di filosofi che passarono il resto dei loro giorni in una cella, dandosi dello stupido l’uno con l’altro per essersi fatti fregare da Mussolini. Se non la pianti immediatamente, ti consegnerò alle grinfie di Flavia! –
- Dopotutto sei stato tu a volere delucidazioni su Gramsci – mormorò Gianmarco costernato - Allora, davanti a questo panorama, farò quel che fece Bernardo da Chiaravalle –
- Che fece Bernardo da Chiaravalle? – domandò paziente Roberto.
- Si dice che quel sant’uomo, passando lungo le sponde di un lago svizzero illuminato dal sole, si tappò gli occhi con la mano per non cedere al piacere sensuale di quello spettacolo, che gli pareva un peccato –
- Ma vai a farti frate, coyote che non sei altro! –
- A volte, ne sono tentato – gli rispose il fratello ridendo.
Schivando abilmente gli ospiti del party, i due fratelli entrarono nella villa, affinché Gianmarco potesse vederne gli interni e l’arredamento. Non mancava proprio nulla: sauna, massaggi, minipalestra, sala di proiezione, piscina coperta, biblioteca. Le camere da letto per i padroni di casa e per gli ospiti, sembravano "imperiali” di grand'hotel.
- L’arredamento l’ha scelto Flavia? –
- Naturalemente – rispose Roberto – Se fosse dipeso da me… conosci i miei gusti, mobilia di pregio, se non d’epoca, quadri d’autore alle pareti, tappeti persiani. Però, forse le mani riuscirò a metterle anch’io –
- Dopotutto, in questa villa ci dovrai passare pochi giorni l’anno –
Gianmarco sapeva che la sua ultima affermazione era perfettamente inutile. Roberto, la villa in Sardegna, come quella di Arcore, come la villa di Macherio e l’appartamento megagalattico in Piazza del Duomo a Milano, li aveva costruiti od acquistati, per il solo scopo di possederli, non certo per goderseli. A giudicare dal disinteresse riservato ai numerosi ospiti di quel party, era pure evidente che quella villa, come tutti gli altri suoi immobili, Roberto non ci teneva più di tanto ad esibirli.
- So quello che stai pensando, Giamma – esclamò Roberto tutto d’un tratto – L’espressione del tuo viso parla in tua vece. No, quando tirerò le cuoia, non mi porterò dietro tutto questo, naturalmente, ma desidero, anzi, voglio, che di quel che ho fatto, resti una traccia. Voglio che chiunque venga dopo di me, abbia, in ogni momento, sotto il naso quello che sono stato capace di fare e se ne ricordi, magari, cerchi di emularmi –
Poi, soggiunse con il suo solito ghigno:
- Anche se, credo, sarà un po’ difficile –
- Finalmente, vi ho scoperti, sempre a confabulare, sempre a parlare d’affari! –
I due fratelli si voltarono; sulla soglia della camera che stavano visitando, era comparsa Flavia. Pure lei, evidentemente, era riuscita a svicolare dagli ospiti, ora, per Gianmarco non c’era più scampo:
- Giamma, finalmente potrai raccontarmi delle tue follie londinesi con la principessa –
- E ti pareva! – mormorò Gianmarco all’indirizzo della cognata.
- Si dice che siate… ehm! … molto intimi –
- Se vogliono dire che siamo amanti, dicano che siamo amanti, accidenti agli eufemismi! –
Flavia, venne sorridendo verso di loro, quando fu vicina a Gianmarco gli sparò la domanda:
- Ebbene, siete amanti? Andate a letto insieme? –
- No Flavia, non siamo amanti, se fossimo amanti andrei incontro a parecchi guai. Non dimenticarlo, in Inghilterra, Diana è considerata dal popolo come una specie di Madonna Pellegrina. Per la gente comune, la Principessa Diana non può avere degli amanti, perché la moglie di Cesare … -
Flavia rimase piuttosto delusa, Gianmarco cercò di rincuorarla:
- Il fatto che ci frequentiamo, non appena gli impegni di entrambi lo consentono, cioè molto di rado, non significa che andiamo a letto insieme. E’ vero, corrono parecchie voci di dissidi con il marito, di amanti dell’uno e dell’altra, potrei fartene anche i nomi, ma fra quei nomi, credimi, il mio non c’è mai stato –
- Però vi frequentate ancora, in quel ristorante, il “San Giovanni” –
- Il “San Lorenzo” – corresse Gianmarco – E’ il locale italiano che va per la maggiore a Londra, anche e soprattutto perché è frequentato da Diana. Io là faccio ormai soltanto da contorno –
- Tu l’avevi scoperto quel locale, vero? Se non sbaglio, quando sono venuto a Londra l’anno scorso, siamo andati a cena proprio in quel ristorante – osservò Roberto.
Gianmarco annuì.
- Meglio per i padroni; Lorenzo e Mara Berni, sono due brave persone, dopotutto se lo meritano –
- E di che parlate, quando siete insieme? – insistette Flavia.
- Di bulimia, dei figli, di corna… della Regina –
- Me la stai raccontando giusta? –
Decisamente, la curiosità da “Novella 2000” di Flavia lo stava irritando. Erano affari suoi, dopotutto. Fortunatamente Roberto intervenne per trarlo d’impaccio:
- Flavia, ci sono dabbasso un centinaio di ospiti; se i padroni di casa spariscono tutti insieme il giorno dell’inaugurazione, cosa potranno pensare?
- Penseranno che la cognata vuol sapere tutto delle avventure del giovane Demattei. Tutti quelli che sono là sotto, sono persuasi che Giamma e Diana … -
- E tu cerca di dissuaderli! – Rispose Roberto, questa volta decisamente irritato per l’interesse morboso della moglie.
Flavia lanciò un’ultima occhiataccia in direzione del marito, poi, senza dire altro, ritornò dagli ospiti.
- Vogliamo scendere anche noi? – chiese Roberto al fratello, poi, con lo stesso tono che Flavia aveva usato poco prima - Come va veramente con quella benedetta ragazza? –
- Da quest’anno lei ed il marito vivono da separati in casa, se di casa si può parlare. Diana, come del resto tutta la famiglia reale, svolge un lavoro di public relations molto impegnativo, non ha molto tempo a disposizione, capirai, è “in pista” a volte anche per quattordici ore al giorno –
- Io invece, nel mio lavoro, sono impegnato sempre dalle quindici alle sedici ore, comprese le domeniche. Anche tu, se le informazioni che ricevo sono giuste, sei su quella media–
- Per questa volta, devi aver ricevuto delle informazioni errate – mentì Gianmarco – Io mi diverto nel fare quello che faccio, Il giorno in cui non mi divertirò più, allora smetterò anche di lavorare ed incomincerò a mangiarmi tutti i soldi che hai guadagnato –
- Ci vorrà parecchio tempo –
- Meno di quanto si creda comunemente, se mi ci metterò d’impegno –
- Per autodistruggerci, può quindi essere in qualche modo d’aiuto la Principessa di Galles?–
Il fratello scosse la testa:
- Se tu hai intenzione di acquistare la “Morandi Editore”, con tutto il suo ricco schieramento di periodici femminili e di riviste patinate, ho l’impressione che, per quelle riviste, avremo trovato una fonte di pettegolezzi praticamente inesauribile, autorevole ed anche di prima mano, roba da mandare in malora tutta la concorrenza –
- Meno male! – esclamò Roberto, visibilmente sollevato – Incominciavo a credere che Diana sarebbe stata la causa della nostra rovina, una specie di Pandora anglosassone, se mi hai ben capito –
Gianmarco aveva ormai imparato a prendere il fratello per la gola. La storia delle spifferate di Diana ai giornali del gruppo “Morandi”, se l’era inventata lì per lì, però, ripensandoci, non era dopotutto un’idea malvagia. Se Diana avesse potuto sfogarsi con una stampa sicuramente amica, anche se straniera, ne avrebbe tratto giovamento. Gliene avrebbe parlato alla prima occasione. Doveva solamente stare attento e prendere anche la principessa per il verso giusto. L’elenco di giornalisti che a suo tempo le aveva passato, affinché ne ritoccassero l’immagine pubblica piuttosto appannata, aveva indubbiamente giovato alla sua reputazione.
Praticamente tutti i giorni, Diana, da una cabina telefonica, chiamava questo o quel cronista mondano o fotoreporter e vuotava il sacco, con chilometriche dichiarazioni che il giorno dopo finivano, debitamente truccate da inchieste, su tutti i tabloid e le riviste del Regno Unito, del Commonwealth ed infine, di tutto il mondo. Se fosse riuscito ad attrarla anche dalla parte dei Magazine illustrati italiani, che erano e sono tuttora i migliori del mondo dal punto di vista grafico, estetico e dei contenuti, Diana avrebbe potuto celebrare il proprio trionfo.
Tuttavia, come s’è detto, le trattative per l’acquisto della “Morandi Editore” si rivelarono più ostiche, burrascose ed onerose del previsto; tra alti e bassi, manovre e contromanovre, offerte e controfferte della concorrenza, la RDC riuscì ad acquisire completamente la casa editrice, solamente all’inizio del 1991, dopo più di quattro anni di un logorante tira e molla con la proprietà e la concorrenza. Per allora, gli effetti della campagna di stampa volta ad ispessire l’immagine di Diana, si erano esauriti, anzi, era in corso una poderosa controffensiva da parte dei cosiddetti lealisti di Carlo e della famiglia reale, con lo scopo di sminuire la sua figura.
L’una e l’altra campagna furono svolte senza esclusione di colpi, con mezzi poderosi e con risultati pratici piuttosto deludenti per entrambe le parti in lotta.
Il gruppo RDC, a motivo delle lungaggini per l’acquisto della casa editrice e per il ritardo nell’approvazione della legge che autorizzava le trasmissioni in diretta, non poté dare un grande contributo alla causa di Diana. Almeno, non poté darlo come Gianmarco avrebbe desiderato, anche se, nel periodo conclusivo del matrimonio, il 1992, fu finalmente in grado di limitare, per parte sua, i danni d’immagine che Diana stessa si procurò, durante un momento cruciale dello “scontro”.
In quell’estate 1986, con le particelle radioattive di Cernobyl sospese nell’aria, con la guerra Iran – Irak che non accennava a placarsi, con i prezzi del petrolio che scendevano, facendo, di conseguenza, esplodere le borse di tutto il mondo in attesa di un boom (che poi non ci fu), con Craxi che governava l’Italia con piglio ducesco, queste cose erano ancora di là da venire. Nessuno poteva immaginare che di lì a qualche anno, gli avvenimenti avrebbero preso una piega imprevista, ma che proprio allora, silenziosamente, stavano giungendo a maturazione. I Demattei, per quanto colti anch’essi di sorpresa, avrebbero saputo farvi fronte, tanti altri no.
In quel giorno si inaugurava una splendida villa in un luogo da VIP, un altro gioiello della già di per sé ricca corona di Roberto Demattei, forse per lui nemmeno tanto importante, ma sempre qualcosa in più.

- E’ così importante per te? – domandò Gianmarco.
Diana, come suo solito, abbassò lo sguardo sul piatto che aveva davanti, ci pensò per qualche secondo, poi rispose con un filo di voce:
- E’ importante Ghiamma, credimi, fallo per me! –
Gianmarco si abbandonò sconsolato contro lo schienale della sedia: guai grossi in vista, Diana ne aveva combinata un’altra delle sue. S’era fatta pescare da un fotoreporter in compagnia dell’ufficiale David Waterhouse, mentre usciva dall’abitazione di quest’ultimo. Dopo lo scatto della foto, Diana aveva implorato, piangendo, il fotografo di consegnarle il rullino, pensando alle conseguenze. Il paparazzo, vecchia pantegana del teleobioettivo, non se n’era dato per inteso ed era filato via, piantando in asso la principessa disperata ed il suo accompagnatore.
- Così io, avvalendomi delle conoscenze nel campo dei media, dovrei rintracciare questo signore, che nemmeno tu hai mai visto prima, farmi consegnare quel rullino, costi quel che costi, e far sparire ogni traccia di eventuali altre copie di quelle foto. Spero ti renda conto che è una cosetta facile a dirsi ma … -
- So che non è facile, ma solo tu puoi aiutarmi, non conosco altri che possano fermare questa macchina infernale –
- Macchina infernale che tu stessa hai contribuito a costruire. Si può almeno sapere che razza di foto vi hanno scattato? –
- No! – rispose decisa Diana – Tu, quelle foto, se riuscirai a rintracciarle, non le dovrai neppure guardare, le devi soltanto distruggere, o consegnarle a me –
- Diana, perdio! Adesso stai pretendendo la luna. Se non mi dici, per una volta, tutta la verità, non potrò far niente, voglio conoscere la verità, altrimenti, dovrai rivolgerti al SIS, e quelli, come tutti sappiamo, quando decidono di agire, non fanno complimenti –
Gianmarco era davvero arrabbiato, anche un po’ geloso, ma Diana capì che non poteva tirare ulteriormente la corda.
- Ci ha sorpresi mentre ci davamo…un bacetto…della buona notte – confessò guardandolo di sottecchi, come faceva di solito.
- Sicura? Solo un bacetto sulla fronte? Te ne ho dati tanti anch’io, anche in pubblico, nessuno se n’è mai interessato –
- Mah… forse di baci ce ne siamo scambiati più d’uno, poi erano sulla bocca, non sulla fronte o su una guancia, come quelli che mi dai tu –
- E le mani dove le avevate? – domandò Gianmarco, sull’orlo delle convulsioni.
- Che c’entrano le mani? – fece Diana con voce offesa.
Gianmarco non aveva voglia di farsi prendere in giro, stava guardando la principessa con occhi socchiusi, tamburellando nervosamente con le dita sul piano del tavolo.
- Le mani dov’erano? – ripeté
- Le mie … sul collo del capitano Waterhouse –
- E quelle del capitano, dov’erano –
Diana arrossì, abbassò lo sguardo, poi farfugliò:
- Le aveva posate sulle mie natiche, si, insomma…sul mio sedere, se ben ricordo –
- Bacetto della buonanotte eh? Se vi esibivate al “Crazy Horse”, quasi quasi eravate più discreti. Tutto questo davanti al portone della casa di lui, insomma, all’aperto –
- No, dietro al portone, per chi mi hai preso? Se quello stronzo di fotografo non si fosse appostato all’interno dell’androne del palazzo, forse dietro alle scale non … -
- A Milano dicono: “Se mia nonna avesse avuto le ruote, allora io sarei sicuramente un tram” –
Gianmarco sperò che la traduzione in inglese di quella battuta dialettale meneghina, fosse altrettanto efficace come lo era dalle parti di Porta Ticinese.
Diana scoppiò a ridere come una sciocchina, ora però si trattava di passare all’azione e soprattutto, di metter mano al portafogli.
- Hai fatto altre cazzate come questa? –
- Se la metti su questo tono, allora arrivederci e grazie! –
- Non fare l’offesa proprio con me; se tra qualche giorno quelle foto fossero pubblicate, la Principessa Diana dovrà cercarsi un altro lavoro, ricordatelo –
Ennesimo esame di coscienza, per l’ennesima volta Diana abbassò gli occhi, per l’ennesima volta ci pensò ed infine, per l’ennesima volta si decise a sputare il rospo:
- Ho avuto…qualche scambio di effusioni…con un altro uomo –
- Sempre dietro ad un portone? –
- No, in una stalla, tra i cavalli delle scuderie reali. Mentre ci stavamo baciando, ci ha sorpresi uno stalliere, che poi è scappato via –
- Spero fosse sprovvisto di macchine fotografiche! –
- Per fortuna, ma se parlasse? –
- Ho l’impressione che passerebbe parecchi guai. Chi era quell’uomo con cui ti baciavi? –
- Non lo conosci, si tratta di un ufficiale della Life Guard –
- Il capitano James Hewitt, vero? –
Diana lo guardò stupita, poi si afflosciò sulla sedia, altre lacrime in vista.
- Cara principessa, non ti sei ancora resa conto che un personaggio come te, mai e poi mai passerà inosservato. Per quanti sforzi faccia, la cosa più banale, che so…soffiarsi il naso, tagliarsi un dito mentre affetti una pagnotta, per certa stampa, diventa un avvenimento di grande importanza, almeno fino a quando i lettori si berranno avidamente tutto ciò. Figurati una relazione extraconiugale, anzi due, come mi hai confermato. In ogni caso, ti darò una mano, rintraccerò quel fotografo e mi farò dare i rullini –
- Ti costeranno un occhio della testa – osservò lei costernata
- Una principessa non dovrebbe mai parlare di cose sconce come il denaro con un plebeo – ironizzò Gianmarco
s’alzò dal tavolino del ristorante, toccò Diana con la punta delle dita tra i suoi capelli, a mo’ di saluto, poi fece l’atto d’avviarsi verso la sala centrale, da Mara Berni, per saldare il conto. Sentì un leggero tocco sulla schiena, si voltò: Diana s’era alzata a sua volta e lo stava guardando in modo strano. Gli circondò il collo con le braccia poi lo baciò sulla bocca, mentre lo spingeva contro la parete del separé.
Dopo il bacio, Diana gli sussurrò all’orecchio:
- Questa volta, il conto lo pago io, non è giusto che sia sempre tu a metter mano al portafogli –
Gianmarco non aveva nessuna voglia di rispondere, in compenso aveva voglia di baciarla ancora e lo fece. Gianmarco, se ne rese conto subito dopo, aveva commesso un’imprudenza, non aveva controllato per quella sera, se là dentro ci fossero microspie, comunque era troppo tardi.
- Lasciami andare principessa, io non sono un ufficiale di cavalleria, sono soltanto un finanziere con parecchi nemici. Un giorno forse presenterò il conto anche a te –
Si staccò dall’abbraccio di Diana, uscì dal séparé, poi rimise la testa dentro, come se si fosse ricordato all’improvviso di qualche cosa:
- Ma ricordati, che sarà un conto molto, ma molto salato –
Diana gli sorrise: quel conto, sapeva di poterlo comunque pagare.

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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 8:01 pm

Capitolo XVII


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil20


I SABATI DI ARCORE








La situazione stava per sfuggire di controllo. Secondo gli osservatori più smaliziati, il “crash” di borsa si sarebbe verificato entro metà ottobre, tutti i sintomi erano ormai evidenti: al Dow Jones, da agosto, le quotazioni non riuscivano più a superare la quota tremila, il massimo storico. Gianmarco era del parere che non appena fossero stati pubblicati dal governo americano i dati sull’andamento della produzione industriale per il terzo trimestre 1987, la borsa avrebbe fatto un bel tuffo all’ingiù. Dall’inizio di quell’anno, era evidente che il ciclo economico degli Stati Uniti aveva imboccato una curva recessiva; tuttavia, la borsa, per qualche mese ancora, aveva continuato imperterrita a salire, incurante delle esortazioni alla prudenza di tutti gli analisti più attenti. Allo scadere del terzo trimestre però, quando le linee di tendenza del ciclo economico americano e, di conseguenza, mondiale, si sarebbero manifestate, non ci sarebbero stati più dubbi: per un certo periodo, quattro o cinque anni, l’economia sarebbe ristagnata e le borse di tutto il mondo ne avrebbero preso atto.
Anche Gianmarco, dall’inizio dell’anno, aveva incominciato a smobilizzare alcune delle posizioni più critiche, per riversare la liquidità ottenuta sui titoli di debito pubblico. Da agosto, con l’aiuto dei suoi collaboratori, aveva varato una radicale trasformazione del portafoglio titoli.
Fino al 1987, il suo portafoglio era costituito per la quasi totalità da azioni americane, britanniche, tedesche e svizzere. Per qualsiasi operatore, un simile mix sarebbe stato considerato troppo rischioso, ma Gianmarco poteva disporre d'informazioni riservate che gli consentivano di agire con un margine di sicurezza impensabile ad altri operatori, anche più grossi di lui. Ora però, occorreva maggior prudenza, per questa ragione dispose affinché una bella fetta delle azioni possedute fossero cedute, per far posto ad obbligazioni. Per la fine dell’anno, il suo mix di portafoglio sarebbe stato molto più variegato, allo scopo i bilanciare meglio i rischi per il periodo di “stanca” che si stava profilando. Agli inizi di ottobre, completata questa trasformazione, si mise ad aspettare gli eventi.
Certamente, qualche penna gliel’avrebbe rimessa, ma i suoi informatori gli avevano assicurato che, dopo il crollo, sarebbero intervenuti gli investitori istituzionali per pilotare la discesa dei corsi e la loro successiva risalita, onde non provocare una crisi esplosiva, come quella del ’29. Entro la fine dell’88 era previsto un riallineamento delle borse mondiali ai valori medi del periodo 1987, dopodiché sarebbero tutti stati “in campana” per qualche anno; con una differenza: i soggetti che fossero riusciti a sopravvivere senza scottarsi troppo nell’87, per la fine dell’88 si sarebbero trovati con molti meno concorrenti. Era l’applicazione della teoria di Darwin anche al mondo finanziario.
Gianmarco ormai amministrava, sulla carta, un patrimonio di circa settecentocinquanta milioni di sterline, se fosse riuscito per quel 1987, a conservarne almeno seicento, sarebbe potuto arrivare a fine ’88 con gli stessi valori raggiunti poco prima del “crash”. Sul medio periodo poi, aveva in mente altro. Agli inizi del 1988, avrebbe varato, insieme con altri soci, due fondi d’investimento: uno cosiddetto “chiuso” ed un secondo, immobiliare.
I fondi chiusi, a differenza dei fondi comuni d’investimento, si dicono così in quanto, il numero delle quote-parti è stabilito al momento della loro costituzione e non varia nel corso della vita dei fondi stessi. Il fondo chiuso investe prevalentemente in titoli non quotati emessi da piccole e medie imprese.
Assimilabili ai fondi chiusi, i fondi immobiliari hanno come oggetto dell’investimento i beni immobili, con l’esclusione dell’attività diretta di costruzione. Il mercato immobiliare inglese si stava afflosciando; se la borsa fosse crollata nel 1987, parecchi proprietari si sarebbero ben presto trovati con grossi investimenti praticamente invendibili, a causa della conseguente scarsità di liquidi da parte degli eventuali compratori. I fondi immobiliari sarebbero quindi intervenuti, rilevando in parte o tutti quei fabbricati. I gestori di tali fondi, prima di vendere, avrebbero atteso qualche anno, affinché i prezzi tornassero a salire.
Gianmarco prevedeva che gli immobili si sarebbero ripresi soltanto tra la fine del ’92 e l’inizio del ’93; fino allora sarebbe occorso stringere i denti e resistere.
- Speriamo che, nel frattempo, Roberto non entri in crisi in Italia – disse a Matteo, mentre gli illustrava i dettagli del suo progetto.
- Altrimenti? –
- Altrimenti dovrò vendere tutto per correre in suo soccorso–
- Ed io dovrò tornare a fare il barelliere – poi, facendosi serio all’improvviso:
- Quello che più mi lascia perplesso è il fatto che, se il mercato non crolla, il tuo progetto a medio-lungo termine, finisce a gambe all’aria ed a fallire sarai tu. Insomma, in questo caso, solo se gli altri si rovinano, tu prosperi –
- Non essere così drastico. Se il mercato non crollerà, sarà meglio per tutti; se il mercato crollerà, nulla è eterno dopotutto, io potrò salvarmi, altri potranno salvarsi, molti altri no. Così, il ciclo potrà riprendere, ma con nuovi attori, noi saremo tra questi –
- Questo sulla carta –
- Guarda che anche i nostri guadagni realizzati finora, sono sulla carta –
Matteo stette a pensarci, poi sbottò:
- Dovevamo seguire il consiglio di Lenin: comprare tanta corda dai capitalisti, poi impiccarli tutti –
- Un’altra metafora fuori luogo. Forse i capitalisti gli avrebbero venduto anche la corda per essere impiccati, solo che questi non sono tutti così fessi, gli avrebbero venduto, a caro prezzo, della corda avariata, in tal modo, quando ce li avrebbe appesi …–
- La corda si sarebbe rotta – completò Matteo.
- Proprio così! –
Matteo si alzò dalla poltroncina: tra un momento sarebbe arrivata la stoccata.
- Se acquisterai azioni di qualche industria di cordami e affini, fammi un fischio, la cosa potrebbe interessare anche me –
- Non mancherò, non dubitare! –
Scherzi a parte, Matteo aveva ragioni da vendere. Se i responsabili dell’economia mondiale, non avessero avuto i nervi più che saldi, quella fase critica avrebbe potuto generare una reazione a catena dagli effetti devastanti.
Sette anni prima, negli Stati Uniti, la nuova amministrazione Reagan, aveva varato un grosso programma di sgravi fiscali, unito ad un altrettanto imponente piano di riarmo al fine di contrastare l’espansionismo dell’Unione Sovietica. L’economia mondiale, con quegli stimoli provenienti dall’America, sul medio periodo, reagì positivamente. Il prodotto interno lordo dei paesi occidentali, che negli anni settanta era progredito, in media, dell’uno o due percento, crebbe invece, negli anni ottanta, di quattro o cinque punti percentuali, consentendo di riassorbire gran parte della disoccupazione. Ma ora, sul finire del decennio, gli effetti positivi di questa politica espansiva, si stavano esaurendo.
Infatti, non tutti gli sgravi fiscali, com’era naturale accadesse, s’erano trasformati in investimenti. Una parte era stata consumata, un’altra era stata sprecata, una fetta considerevole se n’era andata per pagare i debiti accumulati negli anni settanta ed infine, la parte più consistente, quella che si sarebbe dovuta dedicare agli investimenti produttivi, era…in corso di esecuzione. I risultati concreti si sarebbero visti di lì a quattro o cinque anni, nel frattempo, circolava per il mondo una marea di titoli di debito, che da un istante all’altro, potevano trasformarsi in cartastraccia.
Anche le cose di casa RDC, non andavano come si sperava. Le televisioni continuavano a guadagnare bene, ma prima o poi, il Governo avrebbe imposto dei “tetti” alla trasmissione di pubblicità. Il ramo edile si stava sgonfiando: Roberto stentava a vendere gli immobili che aveva realizzato all’inizio degli anni ottanta. Il Milan, nel campionato 86-87, era andato maluccio, nonostante le somme spese. La “Lombarda Assicurazioni”, con gli anni sarebbe cresciuta, ma in quel periodo era ancora troppo gracile e costava più di quanto non rendesse. In Francia, il nuovo governo di centrodestra, presieduto da Chirac, aveva estromesso la RDC dalla gestione della rete televisiva commerciale. Roberto se l’era legata al dito; a tempo debito, gliel’avrebbe fatta pagare.
Ma era stato l’acquisto dei grandi magazzini OMNIA il vero buco nell’acqua. Roberto già sapeva che quell’azienda, un tempo prospera, era stata ridotta ad un colabrodo dai precedenti proprietari. Una volta acquisita la società, dopo averci guardato dentro, scoprì che la realtà superava di gran lunga le più fosche previsioni. Trovò debiti e scoperti di cassa in tutte le filiali, ruberie sia da parte dei dipendenti che dei clienti, fornitori che reclamavano i pagamenti arretrati da mesi, gestione di magazzino nel caos più completo. Un’azienda allo sfascio, neppure con i trucchi contabili più osceni, la precedente proprietà sarebbe riuscita ad imbellettare ulteriormente i bilanci. Se non fossero riusciti a rifilarla a Roberto, l’avrebbero chiusa nel giro di un anno.
Infine, l’eterno capitolo della “Morandi Editore”. Suo fratello vi era entrato tre anni prima, come azionista di minoranza, successivamente aveva rastrellato un altro consistente pacchetto, portando la sua quota ad oltre il quaranta percento del capitale. Per tirare sul prezzo, i Morandi deliberarono ed attuarono un aumento di capitale che fece scendere la partecipazione di Roberto sotto al trenta percento. Successivamente, una parte della famiglia Morandi si alleò con un concorrente, il quale, di suo, aveva rastrellato un altro quindici percento delle azioni, assieme ai Morandi alleati, arrivava così al quaranta percento. La partita era ancora tutta da giocare; Roberto ci teneva moltissimo ad acquistare quella casa editrice, solo avrebbe impiegato molto più tempo e soprattutto, molti più quattrini del previsto.
Gianmarco, negli ultimi mesi, non aveva avuto modo d’incontrare de visu il fratello, ma dal tono della voce, nel corso delle rare telefonate che si scambiavano, aveva percepito la sua preoccupazione. Lui e la sua azienda si trovavano in una fase delicata di transizione, che s’era rivelata molto più lenta e tribolata del previsto.
- Ho bisogno di collaboratori, Giamma, ormai non posso più fare tutto da solo – gli aveva confidato pochi giorni prima, in un momento di sincerità.
- Alla buonora, finalmente te ne sei reso conto, ma se alludi a me, non sono pronto, ho ancora qualche lavoretto da completare, qui a Londra, tra qualche tempo … -
- Quanto tempo? – lo incalzò Roberto.
- Diciamo… tre o quattro anni, se la situazione maturerà come io prevedo –
- Buonanotte! Dovrò rivolgermi a qualche manager preso da fuori –
- Fai come ti pare, l’unico lato buono dei manager, è quello di poterli cacciar via dalla sera alla mattina, purché ci si accorga per tempo delle loro vaccate –
- OK, tu non sei disponibile, mi avrai sulla coscienza – concluse scherzando.
Fu l’ultima telefonata di Roberto, prima della tempesta che in quei giorni s’andava addensando sul capo di tutti i capitalisti del mondo.
Ma c’era stata, poco prima, un altro genere di tempesta, scoppiata invece sulla testa di due sole persone: Diana e Gianmarco. Avevano bisticciato.
Diana, s’era fatta di nuovo sorprendere da un paparazzo, mentre allungava un calcio nei regali stinchi del Principe di Galles, appena fuori dell’ippodromo di Ascott. Il rompiscatole di turno, se l’era poi filata con le foto dell’alterco principesco, proprio quando il Principe Carlo, passato alla controffensiva, stampava un bel ceffone sulla guancia della moglie.
- Voglio che tu ritiri quelle foto, non mi va che tutti i sudditi del Commonwealth, mi vedano mentre quell’energumeno mi prende a botte –
- Sarebbe più giusto tu usassi il verbo “comprare” e non “ritirare”: le ultime foto del tuo bacio appassionato al capitano Waterhouse, mi sono costate la bellezza di cinquecentomila sterline. Non sono poi del tutto sicuro che quel maledetto fotografo non ne abbia nascosta qualche altra copia –
- Quella è acqua passata –
- Sarà anche passata, ma costosa e soprattutto pericolosa. Cosa c’è di male in un litigio fra coniugi? Sai quante mogli sono picchiate tutti i giorni dai mariti inglesi? E sai quanti mariti inglesi sono ricoverati nei reparti di urologia degli ospedali, per aver ricevuto un calcio nei…ehm, nel bassoventre dalle rispettive consorti? –
- Spero che quei mariti siano tanti, ma proprio tanti! – sospirò Diana, poi proseguì - Quindi, non mi vuoi aiutare? –
- Non ho detto questo, tu però, non dovresti trascendere in quel modo. Non sempre troverai la persona disposta a spendere tanti quattrini, per il semplice gusto di tirarti fuori dei guai –
- Con quello stronzo di Carlo, trascendo quanto ne ho voglia!–
- Salvo poi, venire da me, con il conto da pagare – esclamò Gianmarco. Subito dopo si morse le labbra.
Diana si alzò di scatto dal divanetto del salotto di Kensington Palace, dove s’erano incontrati quella sera:
- Fuori di casa mia! Hai capito? Fuori! Non ti permetto simili battute così volgari! –
Subito dopo, afferrata una tazzina da tè sul tavolo, gliela scagliò addosso.
Gianmarco non seppe come replicare, si diresse verso l’uscita dell’appartamento, mentre Diana gli lanciava la solita invettiva di rito:
- Fuck you! –
E due!

L’attesa per il “big crash” era spasmodica. Gianmarco sapeva che, dopo un ribasso vistoso delle borse di tutto il mondo, ci sarebbero stati parecchi morti e feriti da raccogliere, non soltanto in senso metaforico. Il buco, che avrebbe potuto creare un ribasso repentino di quel genere nei conti delle banche e della finanza in generale, poteva causare una catena di fallimenti ad “effetto domino”, capace di riverberare negativamente per anni. Tuttavia, il fatto che l’evento dovesse verificarsi e non si fosse ancora manifestato, provocava in lui uno stato d’agitazione, che gli impediva persino di capire quel che gli dicessero i collaboratori, quando gli rivolgevano qualche domanda.
I prodromi del dissesto s’erano avvertiti per la prima volta il 17 ottobre, poi erano intervenuti prontamente gli investitori istituzionali con acquisti massicci, consentendo così alle quotazioni di Wall Street, di chiudere la giornata con un ribasso contenuto. Il 18, sarebbe caduto in domenica, quindi il lunedì successivo, alla riapertura dei mercati, sarebbe stata giornata di passione. Quel giorno, era appunto lunedì 19 ottobre.
Gianmarco, guardò per la millesima volta il display del terminale che lo collegava a tutti i mercati mondiali: Londra, Francoforte, Zurigo, Milano, avevano aperto con dei ribassi, seguiti da fiacchi rialzi. Ma era Wall Street a contare in quel momento e la borsa valori più importante del mondo, per via del fuso orario, non aveva ancora aperto. Ancora venti minuti e poi …
Chiamò i suoi collaboratori: la “ditta”, in quei mesi, si era espansa come le quotazioni di borsa. Oltre a Rose, Samuel ed a Matteo, si erano aggiunti altri sei impiegati provenienti dalla “Lombarda Assicurazioni”, per impratichirsi nei segreti dell’alta finanza, onde potere trasferire le loro competenze, di lì a qualche tempo, presso la casa-madre italiana. Completava lo staff, un tecnico informatico inglese, addetto alla manutenzione ed alla programmazione dei terminali e dei computers.
Mentre stava per iniziare il briefing prima della giornata campale, notò che ormai, in quell’ufficio di Lombard Street, stavano piuttosto strette undici persone; avrebbe dovuto, quanto prima, provvedere ad affittare un locale più grande. Con un discorso ai suoi collaboratori, li avvertì di quanto stava per succedere, si accertò che tutti i suoi ordini di vendita fossero stati eseguiti e concluse dicendo:
- Se avverrà quello che è nelle previsioni, noi dovremo già da oggi, essere pronti per adattarci al nuovo scenario che si sarà configurato. E’ al futuro che dobbiamo guardare. I guadagni o le possibilità di guadagno ulteriore, che si sono registrate negli ultimi tempi, da domani non si presenteranno più per parecchio. Noi, da oggi, dobbiamo cambiare registro, tanto vale che ci prepariamo –
Poi, indicando il terminale sulla sua scrivania:
- Tra pochi minuti, incominceranno a pervenire i dati di Wall Street; come voi ben sapete, le previsioni volgono ad un ribasso burrascoso a partire da oggi. Se manterremo in nervi saldi e non ci faremo prendere dal panico, per i prossimi giorni potremo parare la botta ed a partire da novembre, forse, potremo brindare al passato pericolo. Ragazzi, state in palla! –
Appena in tempo: mentre tutti andavano ai “posti di combattimento”, davanti ai rispettivi terminali, un cicalino dal suo display, lo avvertì che stavano per arrivare i primi dati da New York. Fece scorrere la lista delle quotazioni d’apertura, si cominciava bene: le freccette dei corsi, erano tutte orientate verso il basso, fu allora che gridò:
- Ragazzi, preparate i fazzoletti, prima di questa sera, dovremo asciugare ettolitri di lacrime! –

La villa di Arcore, sembrava proprio diventata la corte medicea ai tempi di Lorenzo il Magnifico. A Roberto, era sempre piaciuto atteggiarsi a mecenate; come appunto capitava presso le signorie cui s’ispirava. Artisti e letterati arrivavano a frotte per ascoltare il suo “Verbo”, altri intellettuali vi accorrevano, sperando di coglierlo in fallo mentre commetteva qualche gaffe, altri ancora lo snobbavano ed infine, vi era una minoranza di perfidi disfattisti che, per il fatto di non essere mai stati invitati ai suoi cenacoli, si vendicava scrivendone peste e corna su tutti i giornali.
Da quando, dieci anni prima, aveva acquistato quella splendida dimora patrizia alle porte di Milano, Roberto regolava il suo comportamento nello stile della casa. Il cambiamento era stato repentino. Prima dell’acquisto di “Villa Giulini-Casati”, il dottor Demattei era un brillante imprenditore edile, con il pallino dei teatri e dei giornali. Divenuto proprietario della villa nobiliare, s’era nobilitato pure lui, non solo, fu proprio in quel periodo che le sue fortune incominciarono decisamente a decollare. Ora, dieci anni dopo quel fortunato acquisto, era diventato l’uomo più ricco d’Italia ed uno dei più ricchi d’Europa.
I Demattei, non erano mai stati superstiziosi, ma il più giovane dei fratelli incominciava a pensare che le fortune della famiglia fossero, in qualche modo, legate all’acquisto di quella villa, tanto più che la persona di Roberto Demattei, vi era ormai indissolubilmente legata. Infatti, oltre ai vari appellativi con cui era chiamato, per tutti, era diventato “l’uomo di Arcore”.
E pensare che la villa di Arcore aveva goduto (si fa per dire) di fama piuttosto sinistra; la chiamavano infatti, “La villa maledetta”. Nel 1970 il proprietario precedente, il Marchese Casati, vi aveva assassinato la moglie e l’amante di lei, poi s’era suicidato. La carneficina, fu causata dalla morbosa passione “voyeristica” del marchese. Si eccitava sessualmente soltanto quando vedeva la moglie far l’amore con altri uomini, che lui stesso le aveva procurato. Una notte d’autunno del ’70, intuendo che la donna s’era innamorata veramente dell’ultimo partner occasionale, decise di farla finita e compì la strage. La polizia, perquisendo il luogo del delitto, scoprì, nascoste nello studio del marchese, foto, lettere e diari che svelavano le sue strane passioni.
Le foto della marchesa Casati, ritratta sulle spiagge più esclusive, in costume adamitico, ed alcuni brani del diario del marito, pubblicati sui giornali Italiani, suscitarono un’enorme scalpore. Nell’Italia ancora un po’ bacchettona di quegli anni, la curiosità raggiunse il parossismo. Parecchi turisti venivano da ogni parte del Paese, per vedere quel luogo di perdizione. Il delirio di onnipotenza di un uomo, s’era trasformato, da gioco erotico per privilegiati, in improvvisa tragedia greca.
Gli eredi del marchese, vergognandosi dello scalpore e della curiosità attorno a quella villa, decisero di disfarsene, ma per otto anni, nessun acquirente serio si fece avanti. All’inizio del 1978, l’impetuoso Roberto Demattei, si decise a rilevare quel prestigioso ma sinistro immobile. Tenuto conto del valore storico ed artistico, ne divenne padrone per il classico “pezzo di pane”, tanto, quella villa non la voleva nessuno.
Nel corso di un decennio, Roberto spese somme ingenti per riportare la dimora agli antichi splendori. Questa volta, Flavia non aveva potuto mettervi il becco. Ne aveva restaurate le stanze, gli arredi e l’esterno, aveva acquistato opere d’arte e mobilia d’antiquariato per arredarne i saloni. L’aveva dotata, anzi, ridotata di una vasta biblioteca, una collezione di libri antichi che nel corso del tempo arrivò a comprendere la bellezza di oltre centomila volumi, reperiti presso collezionisti di tutto il mondo. Infine, fu ripristinato il famoso giardino all’italiana, che negli anni dell’abbandono era quasi diventato un immondezzaio.
Roberto voleva farne un centro congressi, su modello delle “stately home” britanniche, poi, a mano a mano che procedevano i lavori di ripristino, si accorse che quella villa avrebbe potuto diventare il simbolo eclatante del suo successo. Quindi, niente più centro congressi, ma casa di rappresentanza e reggia del re senza corona che la possedeva.
Villa Giulini-Casati, detta anche Villa San Martino, perché ai primi del settecento era un convento con lo stesso nome, divenne quindi la residenza ufficiale di Roberto Demattei, il ritrovo dove si elaboravano, con l’ausilio di “teste d’uovo”, le strategie della RDC e del suo proprietario. Un luogo in cui, si sarebbero un giorno decise le sorti, se non del mondo, almeno quelle dell’Italia.
Gianmarco era, tanto per cambiare, distratto, quando, dal fondo dell’auditorio, suo fratello si rivolse a lui, per ascoltare anche il suo parere. Lui non aveva nemmeno capito la domanda.
- Vuoi ripetere, per favore? –
Tutti i presenti si girarono con aria divertita verso di lui. Per sua fortuna, era fratello del padrone di casa, altrimenti, quella distrazione gli sarebbe costata l’espulsione perpetua da quel nobile consesso.
- Risposta alla Giandomenico Fracchia. Ti ho rivolto apposta un quesito, perché dalla tua espressione, si vedeva chiaramente che eri, diciamo così, con la testa tra le nuvole–
- Scusatemi signori, siccome sono appena arrivato da Londra, non ho neppure avuto il tempo di farmi la barba –
- Vedo, vedo – disse suo fratello – Ti faccio notare che presso il Duty free shop di Linate, che la RDC ha in gestione, vendono degli ottimi rasoi elettrici a prezzi stracciati. Ti avevo dunque chiesto, se in base alla tua esperienza, maturata negli ambienti finanziari internazionali, puoi prevedere quali siano gli sviluppi futuri dell’economia, anche alla luce del recente crollo delle borse internazionali –
Gianmarco guardò di nuovo i presenti. Ormai, quelle riunioni, nelle quali si passava in rassegna tutto lo scibile umano, suo fratello le teneva con cadenza settimanale, ogni sabato sera. Erano, appunto, i famosi “Sabati di Arcore”, per la prima volta vi partecipava anche lui come relatore.
C’erano i soliti Marcello Geraci e Fedele Landolfi, alcuni giornalisti, alcuni scrittori, un paio di economisti, due professori universitari e tre politici di grido. Completavano il tutto, una mezza dozzina di dirigenti della RDC, venuti lì per abbeverarsi a quella fonte del sapere.
Il finanziere si schiarì la voce, non era abituato a parlare in pubblico e la cosa lo metteva un poco in soggezione.
- I termini che hai usato nel porre la domanda: “Sviluppi futuri dell’economia”, sono di per sé troppo vasti per poter, da parte mia, dare un quadro esauriente della situazione internazionale. Tuttavia, volendo fare una sintesi degli avvenimenti recenti, si può tentare anche una previsione per quelli futuri. Contrariamente a quanto paventato a botta calda, subito dopo il “crash” del 19 ottobre scorso a cominciare dal Wall Street, le prospettive sul medio periodo non sono poi così cattive. Nel senso che, i governatori delle banche centrali, hanno subito allargato i cordoni della borsa, hanno abbassato i tassi di sconto e sono subito intervenuti a sostenere i corsi azionari. Ciò ha permesso in pochi mesi, il riassorbimento delle perdite secche avvenute nei giorni del grande ribasso. Per la fine dell’anno in corso, contiamo di poter ritrovare le quotazioni ai livelli raggiunti nei mesi immediatamente antecedenti l’ottobre 1987 –
- Quale ruolo hanno avuto, in quel ribasso, gli ordini di vendita impartiti dai computer, senza l’intervento umano? – domandò un giornalista.
- Il ruolo dei computer è stato importante, non determinante. Gli ordini repentini di vendita, impartiti dal software dei computer, hanno enfatizzato, non determinato, il gigantesco crollo. Non dimentichiamo che il 19 ottobre Wall Street ha subito una perdita secca del ventidue percento rispetto alle quotazioni del giorno prima. Si sono dovute sospendere le trattazioni sui mercati internazionali per ventiquattr’ore, affinché il panico non dilagasse. Dal punto di vista tecnico, gli operatori hanno agito con grande determinazione e tempismo, per questo si sono evitati danni di gran lunga maggiori. E’ inutile che vi ripeta quanto s’è detto in quel giorno: “Un nuovo ‘29”, “depressione alle porte” e simili sciocchezze.…naturalmente, col senno di poi. Tuttavia, quelle che, con una frase ormai abusata, chiamiamo “ragioni di fondo”, non vanno sottovalutate… -
- Quali sono? – domandò un altro giornalista.
- Ci stavo arrivando – rispose Gianmarco – La prima causa è data dal fatto che l’economia occidentale, in questi anni ottanta, ha finanziato la propria crescita indebitandosi pesantemente. Questi debiti, sono stati principalmente generati dalla parziale rinuncia all’imposizione fiscale, per far sì che i capitali liberati dai tagli, finissero col generare investimenti produttivi, che, a loro volta, rimettessero in moto il processo di sviluppo, inceppatosi negli anni settanta. Questi investimenti si sono realizzati, in misura ancora maggiore, si stanno realizzando ora. Qui vengo alla seconda causa: la fine del regime di denaro facile, che ha caratterizzato lo sviluppo degli anni ottanta. Come vi dicevo, gli investimenti produttivi, ancora in corso di attuazione, vengono in questo momento attivati, non più facendoli finanziare dai mercati azionari, ma dalle banche. Quando, fra quattro, cinque anni, i nuovi beni e servizi, prodotti a seguito di questi investimenti, entreranno sul mercato, ricomincerà il ciclo di espansione sostenuta, che abbiamo conosciuto nella prima metà di questo decennio. Per ora, restano grandi debiti, impianti industriali chiusi per obsolescenza ed altri impianti industriali in costruzione, che entreranno in funzione tra qualche anno. La terza causa, si ricollega alle prime due. Vorrei fare ora un excursus storico, richiamando alla memoria la depressione degli anni ’30. Essa fu generata anche da alcuni motivi di ordine pratico: l’industria, era allora trainata dall’automobile; ebbene, negli anni trenta, in America ed in Europa, si producevano già milioni d’automobili, solo che…mancavano le strade, mancavano le pompe di benzina, mancavano i meccanici, mancavano persino le autorimesse ed i box dove parcheggiarle. Tutti questi intoppi, dei quali non s’era tenuto debito conto, provocarono una sovracapacità di produzione, rispetto alla domanda. Quando le fabbriche d’automobili e le migliaia di aziende ad esse collegate, incominciarono a licenziare in massa i loro dipendenti, a seguito del calo delle vendite, s’innescò un circolo vizioso per cui, a causa del forte incremento della disoccupazione, le vendite d’auto calarono ancora di più, generando altra disoccupazione e così via –
- Ed ai giorni nostri? – domandò Roberto.
- Oggi, si punta molto sull’informatica, le telecomunicazioni, le biotecnologie ed i nuovi materiali, ma il discorso in questo caso è molto simile a quello fatto per gli anni ’30 e l’automobile. Prendiamo i computer. La loro tecnologia progredisce a vista d’occhio, ma mancano ancora gli specialisti per usarli, mancano le vie telematiche per collegarli fra loro, c’è una diffidenza di fondo, nell’uso di questo tipo di macchine, mancano molti tecnici per ripararli. Non parliamo poi delle biotecnologie e dei nuovi materiali, ci metteremmo a litigare. Fra tre o quattro anni, ritengo, se non avverranno fatti imprevedibili, ma sempre possibili, questi problemi saranno superati od in via di soluzione. Allora riprenderà, come dicevo poc’anzi, un processo di sviluppo, certamente più sano di quello attuale. Ricordiamo, soltanto a partire dal 1992 – 1993, i debiti finora accumulati ed i deficit di bilancio di cui soffrono tutti gli stati del mondo, incominceranno ad essere assorbiti per effetto dello sviluppo generato –
- Altre cause? – domandò sempre Roberto
- Potrei citare alla rinfusa: il rialzo dei tassi americani ed europei, la spasmodica attesa per una soluzione della guerra fredda, i guai dell’amministrazione Reagan a seguito dell’affare Iran–Contras ed anche, una certa stanchezza dei piccoli investitori, che in una “Democrazia finanziaria”, sono i veri padroni dell’economia. Poiché avevano conseguito, sulla carta, consistenti guadagni, ad un certo momento, tutti assieme hanno voluto realizzarli e riportare a casa il loro gruzzolo, sperando che altri restassero con il cerino acceso tra le dita. Da questo punto di vista, le cose sono andate meno peggio di quanto si pensasse –
Gianmarco ormai era partito in tromba, s’era fatto coraggio e procedeva come un carro armato:
- Queste le cause principali, le cause derivate e secondarie del crack dell’ottobre scorso, allora, come già nel ’29, problemi preesistenti sono venuti a scadenza in un colpo solo. I mercati azionari, quando sono in un periodo di rialzo incontrollato, perché tutti comprano il comprabile, sono anche molto nevrotici. Quando, per le cause strutturali che vi ho testé enunciato, cercano un pretesto per un ribasso… state pur certi che lo trovano sempre. Questa volta hanno dato la colpa ai computer, tra dieci o vent’anni, al prossimo boom, seguito dall’inevitabile crollo, ne troveranno un altro–
Molti dei presenti fecero i loro bravi scongiuri. Intervenne di nuovo Roberto:
- Non hai ancora parlato delle prospettive future –
Gianmarco sospirò. Ma che voleva suo fratello, delle profezie? Lo avrebbe accontentato.
- Come già vi avevo detto, gran parte delle perdite dei corsi azionari, sono state riassorbite. Non tutti però hanno notato che il volume degli scambi è notevolmente diminuito, e di parecchio. Vi ho già detto anche, che a seguito di quel ribasso, molti si sono scottati le dita, qualcuno è pure fallito. Le grandi società di intermediazione finanziaria, stanno licenziando il personale. Voi direte: meglio gli operatori di Wall Street che gli operai della General Motors. Non tutti si rendono conto del fatto che sia gli addetti di borsa che i metalmeccanici fanno parte dello stesso sistema economico. In questo caso, gli operatori di borsa sono i primi a soffrirne, verrà in un secondo tempo anche il momento dei metalmeccanici –
- Come sempre! – tuonò un parlamentare della sinistra.
- Non è sempre stato così. Per esempio, dopo la crisi del petrolio del ’73, i primi a prenderselo in quel posto, furono proprio i lavoratori dell’industria automobilistica, in seguito, a causa dei continui ribassi dei corsi azionari causati dalla recessione petrolifera, anche parecchi agenti di borsa, dovettero cercarsi un altro lavoro. Io ne conosco uno che dal ’77 fa il benzinaio e da allora, non ha più messo piede in Piazza Affari –
- Si prevedono tempi duri? – domandò Marcello.
- Nel breve, medio periodo non credo, ma all’inizio degli anni novanta, penso proprio che il mondo della produzione, quella che viene impropriamente chiamata “l’economia reale”, per intenderci: della produzione di beni e di servizi, non più supportata dal giro di quattrini dei mercati finanziari, questo mondo, dicevo, incomincerà a “picchiare in testa” ed a manifestare i primi segni di crisi. Sto parlando dell’industria metalmeccanica, chimica, tessile, delle costruzioni eccetera. Per quel periodo, occorrerà stare molto attenti, essere oculati con gli investimenti e, se non lo si è già fatto, attrezzarsi a produrre beni e servizi che potranno essere venduti subito, senza rischiare di tenerseli poi sul groppone –
Poi soggiunse:
- Almeno, lo ripeto, fino al 1993 –
- Consigli pratici? – incalzò ancora Roberto.
- Per le imprese? Stare attenti ai debiti. Se non si è in grado di produrre autofinanziamento e quindi, per forza di cose, si è costretti a ricorrere ai crediti bancari, stare attenti a non fare il passo più lungo della gamba. Questa volta non ci sarà più un’inflazione a due cifre che in pochi anni provvederà a svalutare gran parte dei debiti. Questa volta i debiti resteranno, e si moltiplicheranno –
Era passata da un pezzo la mezzanotte quando l’ultimo dei partecipanti a quell’incontro si fu congedato. Gianmarco, mentre Roberto, Marcello e Fedele salutavano gli ospiti, si ricordò in quel momento di non aver ancora mangiato. Esplorò il buffet con la cena fredda che era già stato abbondantemente onorato dai convenuti, ma qualcosa da mettere sotto i denti era pur rimasto. Ragion per cui, si decise a dare l’assalto alle ultime provviste, prima che gli inservienti della villa facessero sparire tutto.
Aveva appena addentato una coscia di pollo in gelatina, quando fu raggiunto da Roberto, evidentemente soddisfatto per la sua relazione.
- Questa sera, il mio fratellino ha tirato fuori le unghie –
- Come i gatti – osservò Gianmarco, con la bocca piena.
- Hai impressionato parecchi ascoltatori con la tua esposizione. Sei sicuro di ciò che hai detto? –
- Se non ne fossi stato sicuro, sei mesi fa per esempio, saremmo finiti con il sedere per terra; oggi invece, siamo più ricchi di prima. Con il fondo immobiliare che ho costituito il mese scorso, incomincerò ad acquistare un bel po’ di fabbricati a prezzo di saldo, nel centro di Londra. Fra quattro o cinque anni, quando il mercato degli immobili riprenderà a salire … -
- Se si riprenderà – osservò Roberto.
- Stai diventando pessimista? – domandò stupito Gianmarco, mentre masticava un tramezzino al salmone.
- Il fatto è, che per quest’anno non potrò mandarti i proventi della RDC. Capirai, tra il buco che ho trovato alla OMNIA, le trattative per la “Morandi Editore”, il calo della pubblicità nelle televisioni, l’acquisto di Gullit per il Milan … -
- La batosta che s’è presa la “Lombarda Assicurazioni” con il crollo di Piazza Affari a Milano – aggiunse Gianmarco.
- Appunto, aggiungiamo inoltre che le ultime realizzazioni della “Milano Nord 3”, non hanno incontrato molto –
- Vuoi dire che non riesci a venderle? –
- Eh sì – ammise Roberto.
- E ti credo, una serie di palazzine fuori mano, mal collegate con il centro città, che vendi ad un prezzo esorbitante, neanche se fossero Palazzo Pitti! –
- Ma sono quanto di più lussuoso, pratico e … -
- Costoso – completò Gianmarco – Tanto varrebbe comprarsi un appartamento in un residence sulla Riviera Ligure –
- Sarai anche un grande finanziere, ma di realizzazioni immobiliari, non hai mai capito niente. A proposito, per il ’90, ho deciso di scorporare l’edilizia dalle altre attività della RDC. Affiderò il settore costruzioni a Paolo, da quel giorno, dovrà sbrigarsela da solo –
- Speriamo bene! – commentò Gianmarco, pensando che Paolo, il fratello di mezzo, fino a quel momento, non aveva fatto altro che il “public relations man“ della RDC, oltre che scoparsi alcune delle ballerine che bazzicavano attorno agli studi televisivi.
- Quel fondo chiuso che hai costituito a Londra, si può sapere finalmente chi lo compone? –
- Per il momento no, se permetti, trattandosi di un fondo, appunto chiuso, i suoi componenti intendono seguire anche la regola del più stretto riserbo. Ti basti sapere che si tratta di alcuni grossi petrolieri arabi, qualche parlamentare conservatore, persino un importante rappresentante del partito laburista –
- Li hai messi d’accordo proprio tutti? – osservò Roberto.
- Allo stesso modo con cui tu hai messo d’accordo, a suo tempo, Craxi, Berlinguer, De Mita, Lama ed Almirante –
- Perdonami l’ardire, ma non è che come socio del fondo hai preso anche una certa principessa? –
- Ma è un’ossessione! Non parlo più con Diana dalla fine dell’anno scorso –
- Dopotutto, gli affari sono affari e…i sentimenti… - insinuò Roberto.
- Appunto, gli affari sono affari. Piuttosto che sfottermi, ricordati quel che ho detto questa sera. Vale anche per te: attento ai debiti, non sempre d’ora in avanti il tuo amico Craxi potrà toglierti le castagne dal fuoco e non sempre le ciambelle ti riusciranno col buco –
- Per ora, di buchi ne ho trovati in abbondanza nei Grandi magazzini OMNIA –
- Dico sul serio, Roberto, da questo momento, occorre procedere con i piedi di piombo. La pacchia degli anni ottanta sta per finire, se non è già finita. Lo sai meglio di me che da qualche parte c’è sempre qualcuno pronto a sfruttare ogni tuo minimo segno di debolezza, per saltarti addosso –
- Non ti preoccupare, deve ancora nascere quello che riuscirà a mettermi sotto –
Gianmarco diede un’ultima occhiata al buffet. Riuscì ad afferrare una tartina al caviale, prima che un cameriere portasse via tutto ciò ch’era stato avanzato. La serata era conclusa e lui aveva ancora fame.
- Un’ultima domanda, Roberto –
- Dimmi –
- Quest’anno, il Milan ce la farà a vincere lo scudetto ? –

Doveva essere una simpatica serata di festeggiamenti, quella al “San Lorenzo”, tuttavia Gianmarco era preoccupato, non tanto per l’affare appena concluso e che stavano appunto festeggiando, quanto del fatto di non incontrare più Diana tra i clienti del locale. La principessa, continuava a frequentarlo ma, probabilmente avvertita dai proprietari, evitava di recarsi da quelle parti quando Gianmarco era presente. Il finanziere sapeva per esperienza, che Diana, prima o poi, si sarebbe rappacificata con lui, ma doveva lasciarle, come sempre, l’iniziativa.
Poche ore prima, aveva firmato, presso un rinomato avvocato civilista londinese, il contratto d’acquisto di una palazzina nuova di zecca, situata nel quartiere dei “Docklands” di Londra, lungo la riva del Tamigi. La palazzina, a partire dal 1989, sarebbe divenuta la nuova sede delle sue molteplici attività in terra britannica.
S’era dovuto decidere a questo passo, perché l’ormai striminzito ufficio di Lombard Street, non era più sufficiente neppure per appendere gli abiti di tutti i dipendenti.
Il quartiere dei “Docklands”, era sorto nel corso di quegli anni ottanta: ormai, le aree occupate dai magazzini del porto fluviale di Londra erano cadute in disuso. L’aumentato tonnellaggio delle navi aveva consigliato gli armatori a trasferire le attività d’imbarco e sbarco verso la foce del Tamigi. Così, nel corso degli anni settanta, la zona, detta appunto dei docks, era diventata una sorta di terra di nessuno, popolata da barboni, drogati e da quella variegata fauna umana che vive ai margini delle grandi città di tutto il mondo. I terreni una volta occupati dai magazzini e dai depositi, furono così acquistati, a prezzi stracciati, da alcuni speculatori immobiliari.
Agl’inizi degli anni ottanta, le aree dei docks, grazie ad alcune leggi che ne favorivano l’insediamento, divennero altrettante zone fabbricabili e gli speculatori vi edificarono ogni sorta d’immobili. Condomini residenziali, shopping centers, alberghi, ristoranti ed appunto, palazzine per uffici. Vi fu un periodo, a metà del decennio, in cui parve che ai “Docklands” dovesse trasferirsi tutta Londra, tant’era frenetica l’attività di costruzione. Poi, con il crollo dei prezzi degli immobili del 1987, corollario della crisi di Wall Street, parecchi di quegli immobiliaristi e costruttori si trovarono, come spesso succedeva, con i palazzi incompleti, invenduti e, naturalmente, pieni di debiti in scadenza.
Gianmarco, come tanti altri finanzieri, aveva approfittato dell’occasione, per fare incetta di terreni e fabbricati. Quattro mesi prima, era venuto a conoscenza del fatto che un costruttore, con parecchi immobili sul gobbo ed altrettante esposizioni bancarie, stava per essere sequestrato dalle banche creditrici. Fatta un’ispezione degli immobili in questione, rilevò dalle banche i debiti dell’imprenditore e gli offrì di finanziare il completamento dei fabbricati. Propose al costruttore di cedere una parte delle azioni della sua azienda al fondo chiuso, parte dei fabbricati ancora da completare al fondo immobiliare, infine la palazzina dei “Docklands”, appena terminata, ma senza acquirenti, alla sua finanziaria, per farne la sede delle attività. In cambio, l’imprenditore avrebbe ottenuto la totale liberazione dai debiti, continuando la sua attività.
Con la ripresa del mercato immobiliare, l’uomo avrebbe potuto, di lì a qualche anno, riscattare le proprie azioni e ritornare pienamente proprietario dell’azienda.
Era un affare per entrambi, del resto, il costruttore avrebbe potuto finire molto peggio. Gli ultimi accordi, quelli appunto per l’acquisto della palazzina da adibire a sede della finanziaria, erano stati firmati quella mattina. La sera, Gianmarco e l’imprenditore, un disegnatore edile che anni prima s’era messo in proprio, festeggiavano l’esito dell’affare al “San Lorenzo” di Mara e Lorenzo Berni.
Il conto, l’avrebbe pagato l’acquirente. Il costruttore, fin troppo contento per lo scampato pericolo, si sarebbe accontentato anche di una tavola calda, ma il suo creditore insistette per la cena al “San Lorenzo” dove, senza sperarvi troppo, contava d’incontrare Diana.
Quella sera poi, in compagnia di un invitato che né Diana, né Mara conoscevano, sarebbe stato difficile che lei facesse la sua comparsa nel locale, invece si sbagliava.
Il pranzo era agli antipasti, quando la porta a vetri del ristorante si aprì ed entrò la Principessa di Galles. Gianmarco pensava l’avrebbe ignorato, tirando dritta verso i séparé, ma si sbagliava di nuovo. La donna puntò decisa al suo tavolo, l’ospite, che dava di schiena all’entrata, non si accorse di nulla e continuò a mangiare.
- Good evening Mr. Demattei –
- Ma’am, i miei omaggi – rispose lui, alzandosi in segno di rispetto.
L’imprenditore, vedendo quel movimento, si girò verso Diana, che stava ormai alle sue spalle: per poco, non gli andò l’insalata russa di traverso.
- Prego, state comodi –
Poi, di nuovo rivolta a Gianmarco:
- Avrei bisogno di parlarle, sono affari urgenti, domattina alle undici, nel suo ufficio a Lombard Street –
- Dipende dal genere d'affari, Ma’am – rispose – ormai ne tratto dei più svariati –
- Tratterà anche di questi. Ora scusatemi, ma ho un appuntamento urgente, continuate la vostra cena, non voglio disturbarvi ulteriormente –
Diana si congedò e guadagnò di nuovo l’uscita del ristorante. Buon segno. Gianmarco, infatti, pensò che se la Principessa non s’era fermata a cena, era venuta lì apposta per incontrare lui.
- Lei conosce la Principessa di Galles? – domandò l’imprenditore
- La conoscono in tanti a Londra – rispose il finanziere, finalmente sollevato.
- Chissà che genere d'affari vorrà trattare? –
- Probabilmente, vorrà vendermi Kensington Palace – scherzò
Si ricominciava, almeno fino al prossimo “Fuck You!”



Ultima modifica di Gimand il Mar Gen 11, 2011 9:19 pm - modificato 2 volte.
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Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 8:13 pm

Capitolo XVIII


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil15


RICONQUISTE?







Nell’ufficio di Lombard Street, era in corso uno strano colloquio tra la Principessa di Galles e Gianmarco.
- L’anno scorso sei stato parecchio villano, te ne rendi conto?–
- Tu invece, molto imprudente -
Fortunatamente erano di sabato pomeriggio, quindi soli, in quell’ufficio, fin troppo affollato nei giorni feriali. Ufficialmente, la Principessa Diana era lì per affari, ufficiosamente… non lo sapeva neppure lui.
Diana aveva esordito con quel bonario rimprovero, subito dopo i saluti (piuttosto freddi). La risposta pronta e sfrontata di Gianmarco, per poco non la mandò di nuovo su tutte le furie. Temette per un momento che fosse lì lì per alzarsi ed andarsene, ma non fu così.
Diana aveva di nuovo bisogno d’aiuto; il 1988, era stato movimentato per lei: incidenti al mare, in montagna, con i giornalisti, con i fotografi. In estate, mentre prendeva il sole in topless sulla costa spagnola, tanto per cambiare, fu fotografata con il teleobiettivo. Per sua fortuna, un editore iberico pagò per quelle foto e i negativi, più di un milione di sterline, poi glieli fece avere.
Lei ed il marito dormivano ormai in camere separate. Di tanto in tanto, qualche maggiordomo o qualche cameriera della Casa Reale, lasciavano il loro incarico e, profumatamente pagati, spifferavano ai tabloid popolari, dei litigi in casa dei Principi di Galles. Stando alle dichiarazioni di questi ex dipendenti, a Kensington Palace, quando Carlo e Diana erano l’uno in presenza dell’altra, volavano letteralmente i piatti, anche davanti a figli e servitù.
In quegli ultimi anni, teatro delle “Scene da un matrimonio” più piccanti, fu la villa di Highgrove. Tra le antiche mura di quella dimora, si consumarono le passioni ed i tradimenti della coppia reale: fu lì che Carlo incominciò a ricomporre la sua tresca con la vecchia fiamma, Camilla Parker Bowles. Le visite di Camilla, rimasero segrete al grosso pubblico per anni, grazie alla discrezione della servitù, almeno fino a quando questi ultimi rimasero a lavorare in quella casa. Ma la vecchia dimora, non fu soltanto il discreto palcoscenico dei tradimenti di Carlo. Anche Diana incontrava lì gli amici che voleva nascondere al marito. Gli stessi domestici che rivelarono le malefatte del principe, nello stesso periodo, parlarono anche dei sempre più frequenti incontri di lei con il maggiore James Hewitt. L’ufficiale aveva un alibi di ferro per frequentare la villa, dal momento che era il maestro d’equitazione di William e Harry. Quando però cominciò a trascorrervi pure le notti, la servitù non stentò a capire che anche Diana aveva un amante. Carlo poi, era al corrente di tutto. I suoi incontri con Diana diventarono sempre più rari e quei pochi culminavano con burrascosi litigi.
Anche Gianmarco era al corrente di questi retroscena, per il semplice motivo che, in qualità di ex giornalista, aveva conservato con i media un rapporto privilegiato. Tuttavia, non riusciva a comprendere perché, con lui, Diana continuasse a recitare la parte di povera moglie tradita e bastonata, quando avrebbe potuto supporre che di certi altarini, il suo amico Ghiamma doveva pur esserne a conoscenza.
- Quella sgualdrina non ha più ritegno, si è installata in quella maledetta villa e si comporta come se fosse lei la vera moglie di Carlo. A Buckingam Palace, si critica soltanto Diana Spencer, di Camilla non se ne parla mai, come se neppure esistesse; tutte le colpe del matrimonio fallito le attribuiscono a me, alla mia bulimia ed alla mia inadeguatezza –
- In fondo, un giorno il sovrano sarà Carlo – osservò Gianmarco.
- Ed alla mia dignità, al mio ruolo, chi ci pensa? Sono o non sono la madre del futuro re d’Inghilterra. La gente, quando ci rechiamo insieme a qualche cerimonia, applaude a me. Ma non le vedi le vignette sui giornali? Carlo che parla alle piante, la Regina vestita come una portinaia, Andrea una specie di buffone. No, sono io la vera regina. Loro sono lì per diritto, nessuno, in Inghilterra può soffiargli il posto, non devono farsi eleggere; ma io, ho dovuto conquistarmi tutto, giorno per giorno: la stima della gente, gli applausi, gli articoli benevoli dei giornali. I fotografi, è me che vogliono riprendere; se la cosa dipendesse da Carlo, lo vedremmo in giro con un cappuccio in testa per non farsi nemmeno fotografare, tanto sul trono, un giorno o l’altro, ci siederà comunque –
- Ti piacerebbe se un giorno i media ti dipingessero come una donna frivola, superficiale, ignorante, dedita al lusso ed alla musica rock? Se tu restassi isolata dal contesto dei Royals, potrebbe anche accadere. Molti di quegli articoli benevoli, una volta tu fossi….out, diventerebbero, puoi starne certa, assai critici nei tuoi confronti. Non fidarti delle profferte d’eterna fedeltà di certi piaggiatori; ce ne sono anche troppi, in Inghilterra e fuori, fidati degli amici, quelli veri, come me –
- Saresti un amico tu? – mormorò lei, dolcemente.
Era il momento che aspettava da tanto tempo. Ora o mai più:
- Più che un amico; qualche tempo fa, mi assicurasti che ero la tua roccia, il tuo alfiere, eccetera. Te ne sei già dimenticata? –
- No, ma dopo quello che mi hai rinfacciato l’ultima volta in cui abbiamo litigato –
- E va bene! Sono stato un po’ pesante, ma ammetterai che dopo avere brontolato, sono riuscito a far sparire anche la fotografia del ceffone. Tu allora, non mi hai nemmeno ringraziato –
- Alcune di quelle foto, sono comparse su di una rivista americana –
- Vero, il fotografo ne aveva fatto alcune copie a mia insaputa, nonostante i soldi che gli ho versato. Spero tanto che a quel signore servano soltanto per comprarsi medicine. Però i negativi sono in mio possesso, non vi saranno mai più di quelle foto sui giornali –
- Potrò ancora contare su di te? – gli domandò Diana, sfiorandogli la punta delle dita con la mano.
- Non ti sei accorta che hai sempre potuto contare su me? – le rispose – Ti sei scordata che con te ho preso un impegno? Guarda che agli impegni ed ai giuramenti ci credono soprattutto i plebei come me. Gli spergiuri ed i furbacchioni allignano sempre tra l’aristocrazia, mai tra la gente comune –
Diana lo guardò fisso negli occhi, che si riempirono di lacrime. Si alzò ed andò alla finestra dell’ufficio, dandogli così le spalle, poi, silenziosamente incominciò a piangere. –
- Che debbo fare, Ghiamma ? La bulimia mi sta uccidendo –
- Prima di tutto: un buon medico, un esperto di malattie dell’apparato digerente –
- Ma io non posso… -
- Poche storie! Adesso dico sul serio: o ti curi come si deve o telefonerò io al primo giornalista pettegolo e gli racconterò tutto sulle tue reali condizioni di salute. Ti rendi conto che non potrai andare avanti così per molto tempo. Presto, incomincerai a perdere i capelli o magari anche i denti –
- Ma come posso curarmi? –
- Tua sorella Sarah, tempo fa ha sofferto anch’essa di bulimia. Qual’è il medico che l’ha curata? –
- Ma mia sorella è una ragazza volitiva, lei ha potuto guarire e riprendersi –
- Non dire sciocchezze, se ti metti in testa queste cose, sarà sempre peggio. Ti ripeto la domanda: come si chiama il medico che curò tua sorella? –
Diana tornò a sedersi davanti a lui, ci pensò per qualche secondo.
- Non ricordo, debbo chiedere a Sarah o a mio padre –
Gianmarco afferrò la cornetta del telefono, la porse a Diana:
- Qual è il numero di Althorp? –
- Proprio ora? –
- Si tratta della tua salute, non della mia. Fallo ora o non lo farai mai più –

Quel medico si chiamava Maurice Lipsedge. Aveva curato gli Spencer per le loro frequenti malattie digestive, ma prima che Diana si decidesse a consultarlo, dovette subire un ricatto analogo a quello di Gianmarco, questa volta da parte della sua amica Carolyn Bartolomew. Solo allora Diana cedette e si decise. L’uomo lavorava al Guy’s Hospital nel centro di Londra. Diana lo ricevette a Kensington Palace, lui riuscì a catturarne quasi subito la fiducia.
La prima domanda che le rivolse, fu quante volte avesse tentato di “farsi fuori”. La principessa gli rispose: “Quattro o cinque”. In realtà, questo era uno dei trucchi del mestiere, usato da quel medico esperto, per catturare la fiducia dei suoi pazienti. Con Diana vi riuscì a meraviglia, la sottopose per due ore ad un interrogatorio da inquisizione, alla fine del quale, le promise che se fosse riuscita a tenere sotto controllo il cibo, in sei mesi sarebbe diventata un’altra persona.
Il dottor Lipsedge arrivò alla conclusione che i problemi di Diana non stavano nella principessa, ma in suo marito. In parole povere, la convinse a mettersi risolutamente contro di lui, a rubargli la scena in tutte le cerimonie ufficiali e ad essere sempre al centro dell’attenzione, soprattutto quando era in presenza del Principe di Galles.
La terapia del dottor Lipsedge si rivelò efficace: dopo circa sei mesi dall’inizio della cura, il suo umore ed il suo stato di salute erano visibilmente migliorati. Prima di iniziare la cura, Diana stava regolarmente male quattro volte al giorno, dopo, capitava soltanto una volta ogni tre settimane, tranne quando si trovava a Balmoral, insieme alla famiglia reale, o a Highgrove, la dimora che Diana considerava territorio di Carlo.
Gianmarco, ai primi dell’89, aveva trasferito definitivamente la sede principale dei suoi affari dall’ufficio di Lombard Street alla palazzina dei “Docklands”, dove lavoravano ormai una ventina d’impiegati, altri erano in via di assunzione. Nel fondo chiuso che aveva costituito erano entrati alcuni importanti finanzieri ed industriali che si erano fatti le ossa nella City di Londra; avevano tutti un tratto in comune: venivano dalla gavetta, come Gianmarco e Roberto.
Tra il fondo chiuso, il fondo immobiliare, la fiduciaria ed altri investimenti, poteva ormai contare su di un patrimonio di circa due miliardi di sterline, ma calcolava che nei prossimi quattro-cinque anni, sarebbero diventati almeno tre volte tanti.
In quella seconda metà degli anni ottanta, aveva mantenuto la collaborazione con il “Giornale”. Ogni tanto inviava articoli di carattere economico e finanziario, ma si era accorto che al “Giornale” non li tenevano più in grande considerazione, anzi, spesso non erano neppure pubblicati. Aveva quasi del tutto perso i contatti con Montanelli e la sua vecchia redazione.
Severgnini, aveva lasciato l’ufficio di Londra ed ora, sempre per il “Giornale”, ricopriva il ruolo di corrispondente itinerante. Nel 1989, a maggio era a Pechino, in Piazza Tienammen, fu testimone diretto dei disordini che portarono alla famosa strage ed alla conseguente repressione. Tra ottobre e dicembre, girovagò per tutto l’est europeo e descrisse la caduta del muro di Berlino, la fine del regime di Husak in Cecoslovacchia e del regime comunista in Ungheria. Nel Natale di quell’anno, fece in tempo a descrivere il putsch militare di Bucarest ed assistette alla sceneggiata della finta insurrezione contro il regime di Ceausescu, nella quale, le uniche vittime, oltre al dittatore e la moglie, furono alcuni soldati dell’esercito rumeno che, nel caos che seguì, si spararono l’uno contro l’altro, in mancanza di nemici veri.
Detto in poche parole, Severgnini, da solo, piazzò una serie di scoop internazionali, come non erano riusciti neppure al suo direttore cinquant’anni prima, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

Domenica pomeriggio. Gianmarco stava nel suo appartamento di Coleherne Court, a giocare con alcuni videogames del suo PC. Era uscito dall’ufficio da qualche ora, dove aveva preparato il lavoro da svolgere per l’indomani, lunedì. Aveva pranzato con un panino e una birra in un fast food, poi s’era deciso a ritornarsene a casa, per trascorrere in santa pace quel poco che gli restava della domenica.
Una domenica d’estate a Londra, con il mondo alla vigilia di una colossale svolta: la fine dalla “guerra fredda”. Uno degli uomini più ricchi e potenti d’Europa, rincantucciato nel suo appartamentino a Londra, giocava con il computer.
Gianmarco era stanco e stressato, forse perché s’avvicinava ai quarant’anni, forse perché il lavoro lo logorava più di tutte le inchieste Dozier di questo mondo; sentiva il bisogno di chiudere i problemi fuori dalla porta per qualche ora. Verso le diciotto, quando era quasi riuscito a percorrere un labirinto del videogioco pieno di trabocchetti micidiali, suonarono alla porta. Gianmarco imprecò. Nel pensiero mandò a quel paese lo scocciatore, quindi andò al videocitofono.
- Se è un dipendente, foss’anche Matteo, lo licenzio in tronco! – Mormorò, mentre accendeva il videocitofono.
Ma il viso femminile che gli apparve sul video, non era quello di una dipendente, bensì di Diana.
- Aprimi Ghiamma, temo di avere un po’ di fotografi alle costole –
Gianmarco premette il pulsante della serratura elettrica, poi si appoggiò emozionato ad una parete. Che veniva a farci la Principessa di Galles a casa sua?
Quando sentì il rumore di tacchi a spillo, spalancò l’uscio. Diana, gli sorrise, indossava un abito estivo rosa, senza maniche. Gianmarco ricambiò il sorriso, e fece cenno alla principessa d’entrare:
- Sapevo di trovarti qui, m’hanno detto che questa mattina eri nel tuo ufficio; meglio così, rivedrò i luoghi della mia giovinezza, quand’ero una ragazza spensierata –
- Dieci anni fa, ti ricordi Diana? Mormorò Gianmarco chiudendo la porta.
- E’ tutto cambiato qua dentro –
- Allora, qua dentro, c’era tutta la RDC britannica, cioè il sottoscritto e nient’altro. Ora è soltanto la mia abitazione –
- Potresti permetterti qualcosa di più… -
- Lussuoso? – completò Gianmarco – No grazie, questo è stato il mio rifugio quando sono approdato qui a Londra; qui dieci anni fa sono nato professionalmente, qui ho conosciuto una ragazza che non voglio dimenticare. Questi muri mi parlano ancora di lei, poi, per le mie personali esigenze, quest’appartamento basta e avanza –
Diana percorse il piccolo corridoio, entrò nel salotto e si guardò in giro. Nel corso degli anni Gianmarco quell’appartamento l’aveva arredato con un certo gusto, dietro consiglio esperti. Notò che anche Diana lo apprezzava. La donna provò ad accomodarsi sul divano, fece segno a Gianmarco di sederle accanto.
- Dieci anni. Potessi tornare indietro! – sospirò la donna.
- Soltanto per avere dieci anni di meno? No, non ne vale la pena, io non rimpiango niente di quel periodo. Per me, furono anni di paura. Sono arrivato a Londra, tu lo sai, con i terroristi alle calcagna; in seguito, come vedi, qui ci ho messo le radici –
- E belle profonde quelle radici. Nel frattempo, sei diventato un uomo ricco –
- Quella ricchezza non è mia, io ne gestisco solamente una parte. Mio fratello è ricco, io sono in fondo, soltanto un suo dipendente –
- Lascia perdere tuo fratello, per una volta! –
- Non se ne può fare a meno, è una figura gigantesca, ormai, nota in tutto il mondo e, se per questo, invidiata in tutto il mondo –
- Io amavo te, non tuo fratello – gli sussurrò Diana, accarezzandolo su di una guancia.
- Sei sicura che nessuno ti abbia vista entrare? –
- No, non ne sono affatto sicura, ma che importa, qui sopra è ancora casa mia. Penseranno venga a fare qualche rimpatriata. Si stancheranno presto –
- Ti illudi, si vede che non sei mai stata giornalista -
- Si vede, che non sei mai stato Principe di Galles – gli rimandò Diana.
Gli mise un braccio intorno al collo e lo baciò. Gianmarco era preoccupato ed anche furioso:
- Il tuo beneamato maggiore Hewitt, se lo sapesse, potrebbe farti una scenata –
- Il maggiore Hewitt è partito per la Germania – lo rimproverò lei dolcemente, non smettendo d’accarezzarlo e di sbaciucchiarlo.
- So bene che è partito per la Germania, so anche che, tra qualche mese sarà trasferito in Arabia Saudita. Il governo ha pensato bene di togliertelo dai piedi. Quello che non sai, è che quel maiale sta cercando di vendere ad alcuni giornali, le lettere che gli scrivi quasi ogni giorno –
Diana per poco non cadde dal divano.
- Ma che dici? Tu sei matto, gli avrò scritto sì e no un paio di bigliettini d’auguri –
- Come bugiarda, sei inimitabile. Guarda cara principessa, che di quelle lettere, sarei in grado di procurarmi le fotocopie nel giro di un paio d’ore. Comunque, i giornali non potrebbero mai pubblicarle, in rispetto alla privacy –
- Non so niente di quelle lettere. Poi ti sbagli sul conto del maggiore, è un ragazzo che non farebbe mai una cosa simile, non mi venderebbe per soldi, il nostro è stato un rapporto pulito e non torbido, come tu stai insinuando –
- La signora Thatcher, sei anni fa, mi lesse fino all’ultima parola, quanto ci siamo detti a Kensington Palace, in occasione del ricevimento per il battesimo di William. Non si sono persi niente, e quelle erano soltanto parole in libertà; figurati delle lettere, per di più mostrate già ad alcuni giornalisti –
Diana abbassò il capo e si mise la testa tra le mani. Stette in quella posizione per alcuni secondi, mentre Gianmarco la fissava, anche lui senza fiatare.
- Ti ho creato guai, vero? – domandò la principessa.
- Non più di tanto. La signora Thatcher, quelle frasi non le ha usate per ricattarmi, ma per propormi, diciamo così, uno scambio. Uno scambio vantaggioso per entrambi. Inoltre, mi ha fatto capire che delle relazioni extraconiugali della Principessa di Galles, non le importava nulla –
- E per quanto riguarda la mie presunte lettere al maggiore?–
- Me ne ha parlato il mio amico Morton, che conosci benissimo, mi ha persino chiesto se desiderassi averne delle fotocopie, ma naturalmente ho rifiutato –
- Mi sembra di essere un animale in mostra allo zoo! –
- Sei un’affascinante principessa, per la gente semplice. Nulla di più comune che quella stessa gente, desideri anche sbirciare dal buco della serratura per saperne di più sul tuo conto, come si fa con le star, le quali, in fondo in fondo, in queste cose ci marciano. Il guaio è che in tutto questo si sono introdotte anche persone che nulla hanno a che vedere con la stampa rosa –
- Certe volte mi viene voglia di scappare via, di andare a vivere su un’isola in mezzo all’oceano, lontana da tutti, da tutto questo –
- Ne sei sicura Diana? Non ti sei mai domandata cosa ti succederebbe se… una bella mattina, davanti ai cancelli di Kensington Palace, non trovassi più il solito plotone di fotografi? Né quella mattina, né mai più? –
- Oh che bel sogno! – sospirò Diana.
- Forse per qualche giorno, sarebbe un bel sogno che s’avvera, ma poi, ne sono sicuro, di quei fastidiosi “mosconi”, di quel branco di ratti, come li chiamavi una volta, incominceresti a sentire la mancanza. Dopo un po’ avresti anche delle preoccupazioni. Non credo proprio che tu, ora come ora, possa rinunciare alla notorietà. Per te, e non soltanto per te, tutto questo è diventato come una droga. Vuoi levarmi una curiosità? Come ti senti ogni volta in cui vedi il tuo volto stampato sulla copertina del Sunday Times, o di qualsiasi altra rivista patinata del Regno Unito? Non dirmi che la cosa ti dà il voltastomaco perché non ci credo -
Gianmarco s’aspettava un’ennesima sfuriata, invece la principessa si limitò ad annuire:
- Forse hai ragione tu, non posso più tirarmi indietro, almeno per ora –
- Come va la tua bulimia? – le chiese all’improvviso.
- Molto meglio, ma quando riuscirò a guarire … -
- Allora aspetta a guarire, non affrontare una lotta in condizioni menomate, come hai fatto fino ad ora –
Diana, attraverso la finestra del salotto, guardò il sole mentre tramontava:
- Mi accompagneresti ad Althorp con la tua auto? –
- Per fare che? – domandò Gianmarco.
- Voglio cambiare aria, almeno fino a domattina –
- Che diranno i fotografi che ti stanno inseguendo, quando ti vedranno uscire in mia compagnia? –
- Non ci sono mai stati fotografi, sono riuscita a seminarli uscendo da una porticina nascosta di Kensington Palace. Volevo soltanto che tu mi facessi entrare –
Si alzò dal divano e tirandolo per una mano, indusse pure lui a levarsi in piedi.
- Forza! Stai diventando pigro. Portami ad Althorp, passerai la notte lassù, qui a Londra potrai tornarci domattina, ormai dove lavori, sei tu il padrone –
Gianmarco stava pensando che se la principessa si fosse sempre servita di quella fantomatica “porticina nascosta” tutte le volte che voleva uscire da Kensington Palace, non sarebbe mai stata seguita dai fotografi, né quella volta, né mai. Quindi voleva che i fotografi la tallonassero! Proprio come aveva sempre immaginato: Diana era, al tempo stesso, vittima e carnefice di sé stessa. La seguì senza protestare, dopotutto, pensò ancora, erano entrambi affetti dalla cosiddetta “Sindrome di Peter Pan“: non erano mai riusciti a crescere.

Un’euforia come in quel giorno, nel consueto meeting settimanale di Arcore, Gianmarco non la ricordava; forse qualcosa di simile, otto anni prima, a Madrid tra i giornalisti, mentre facevano le valige per ritornarsene in Italia, dopo i mondiali di Spagna.
Era il primo sabato dopo le festività natalizie, del gennaio 1990. Gli amiconi di Roberto s’erano di nuovo dati convegno, questa volta per commentare gli avvenimenti incalzanti che s’erano succeduti negli ultimi due mesi: la fine del comunismo nell’Est Europeo, la fine della Guerra Fredda, l’ormai prossima riunificazione della Germania, le prospettive di pace e di prosperità per la ritrovata fratellanza tra i popoli.
Roberto era fresco reduce dall’ennesimo trionfo personale. Alla fine dell’anno la famiglia Morandi dopo le note tergiversazioni, aveva mollato: avrebbe ceduto a lui il rimanente pacchetto azionario della “Morandi Editore” a caro prezzo. La quota di azioni, che gli avrebbe permesso di raggiungere il cinquantun percento del capitale, la pagò tre volte il suo valore di mercato. Anche per quell’anno, la filiale della RDC di Londra non avrebbe visto il becco di un quattrino; per fortuna non aveva impegni, altrimenti sarebbe stato un bel guaio.
Questa volta era stato presente nella sala convegni di Arcore fin dall’inizio del dibattito. Per primo parlò il commentatore politico di un quotidiano romano. Come tutti i tromboni in quei giorni esaltanti, inneggiò enfatico:
- Alla riconquistata libertà e democrazia dei popoli slavi e di tutta l’Europa orientale –
Un altro famoso intellettuale (famoso per i “flop” editoriali dei suoi libri), gli fece eco, dicendo:
- Finalmente, l’Europa ha riconquistato l’indipendenza politica dagli Stati Uniti –
Fu la volta, quindi, di un famoso economista (anche lui, famoso per non aver mai azzeccato una previsione), il quale predisse che, a seguito della riduzione delle spese militari, il mondo sarebbe sicuramente andato incontro, negli anni a venire, ad una sicura e rigogliosa espansione economica.
Un altro oratore previde l’unificazione europea entro breve tempo, un altro ancora scorse dietro l’angolo la pace perpetua tra i popoli, preconizzata da Emauele Kant.
Gianmarco, come suo solito, era seduto sul fondo della sala e, dal momento che, a suo avviso, stava ascoltando un mucchio di castronerie, rideva silenziosamente. Per non darlo a vedere, teneva la mano destra premuta contro la bocca; accorgimento inutile quest’ultimo, perché non sfuggì all’occhio vigile del fratello.
- Caro Gianmarco – lo invitò Roberto - dal momento che hai l’aria di chi si sta divertendo, vorresti renderci partecipi della tua allegria? Già siamo tutti euforici, se saprai trasmetterci anche una parte della tua felicità, concluderemo questa serata in modo pirotecnico! –
- Proprio ora che incominciavo a divertirmi – pensò – peggio per Roberto, vorrà dire che gli rovinerò la festa –
Gianmarco si alzò ed incominciò ad esporre le sue tesi:
- Cari signori, non vedo proprio da dove abbiate preso tutto quest’entusiasmo per le magnifiche sorti e progressive del genere umano. Io non ho alcun motivo di gioire, né di essere particolarmente ottimista nel breve e medio periodo. Non scorgo prospettive di pace in Europa e non prevedo prosperità economica per gli anni futuri. Anzi! –
Si fermò ad aspettare le reazioni degli ascoltatori a quelle sue parole, così controcorrente rispetto alle tendenze emerse fino a quel momento. Infatti, un mormorio di disapprovazione incominciò a diffondersi per la sala.
- Abbiamo festeggiato il Natale 1989, con la fucilazione di Nicolae Ceausescu e di sua moglie, non vorrei che il prossimo Natale lo trascorressimo dentro un rifugio antiatomico oppure…non lo trascorressimo affatto. Cari signori, i sovietici hanno mollato tutto l’Est europeo, perché erano e sono alla fame, ora li dovremo mantenere noi. L’Unione Sovietica è una superpotenza piena di bombe atomiche ed alla fame, una miscela micidiale. Che cosa succederebbe, per esempio, se qualche fesso di generale dell’Armata Rossa, che non riceve più lo stipendio da qualche mese, vendesse qualche atomica in custodia ad un gruppo terrorista? – Si guardò intorno, poi riprese – Che succederà, qui in Europa occidentale, quando, come prevedibile, le due Germanie si riunificheranno? Ve lo siete mai chiesto? –
- La Germania Ovest manterrà per un certo periodo i cittadini dell’ex DDR – rispose un giornalista.
- Lei è troppo facilone. La Repubblica Federale di Germania sarà costretta a stampare cartamoneta per darla a quelli che sono diventati, dalla sera alla mattina, loro concittadini a tutti gli effetti, i quali in cambio non produrranno niente. In questi primi giorni del 1990, è in corso in Germania una serrata polemica tra il cancelliere Koll ed il governatore della Bundesbank, su quale valore attribuire al marco dell’ex DDR. La Bundesbank vorrebbe valutarlo uno a cinque, od al massimo uno a quattro, cioè dare un marco buono per quattro biglietti di carta straccia della Germania est. Il Cancelliere Koll, sensibile al fatto che nell’autunno di quest’anno si svolgeranno le prime elezioni generali della Germania unificata, vorrebbe dargliene uno ogni due. Se ciò avvenisse, i nostri cari amici dell’ex DDR si troverebbero, sempre dalla sera alla mattina, con un tenore di vita superiore al nostro, senz’aver fatto niente per guadagnarselo –
- Questo, dal lato pratico, che cosa comporterebbe? – domandò Roberto.
- Parecchie conseguenze e tutte più o meno nefaste, non soltanto per la Germania, ma anche per l’Europa che si va prefigurando. La prima è che dal primo luglio di quest’anno, data dell’unificazione del marco, quasi tutte le industrie dell’ex Germania Est si troveranno di colpo fuori mercato. Se non si vorrà aggravare la situazione debitoria della nuova Germania, bisognerà chiuderle; se invece sarà stato accettato un cambio più realistico, parecchie di quelle industrie si potrebbero salvare, con evidenti vantaggi per tutti. Seconda conseguenza: la Bundesbank, quando dopo l’unificazione monetaria, vedrà salire il deficit di bilancio e l’inflazione interna, aumenterà il tasso di sconto in maniera iperbolica, provocando tra un anno, un anno e mezzo, una bella recessione, prima in Germania, poi in tutta Europa. Terzo tempo: quando la crisi produttiva avrà raggiunto il culmine, qui in Italia le nostre lobby industriali (e voi sapete a chi sto alludendo), incominceranno a far pressioni sul governo affinché svaluti la lira e, com’è sempre accaduto in passato, la spunteranno. Dopo la svalutazione e le varie stangate che seguiranno, svaluteranno competitivamente tutte le altre monete europee, innescando così una spirale di recessione e svalutazione, che ci porterà ad un periodo abbastanza lungo di depressione –
Gianmarco fece un’altra pausa, per bere un bicchier d’acqua, poi riprese implacabile:
- E non vi ho elencato, perché nessuno è in grado di farlo, le conseguenze politiche di questa unificazione frettolosa: la Germania diventerà, per forza di cose il paese più forte e popoloso di tutto il continente, aggravando così lo squilibrio economico (e le gelosie) tra i grandi partners europei. Non ho elencato, perché non sono un profeta, le conseguenze dei grandi spostamenti di popolazione in cerca di lavoro dall’Est all’Ovest. Non ho elencato quante e quali complicazioni dal punto di vista dell’ordine pubblico si paleseranno, quando tra qualche anno milioni di disoccupati assortiti si aggireranno per l’Europa alla ricerca di un lavoro che non ci sarà e che sarà molto difficile creare, viste le rigidità di tutti i nostri sistemi economici. Non vi ho elencato, perché non ho il dono della telepatia, quali saranno le reazioni dei partiti comunisti occidentali, i quali si troveranno sì isolati e spiazzati, per le ormai evidenti panzane che hanno raccontato ai loro militanti fino a ieri, ma sicuramente saranno anche molto incazzati per il “tradimento” e la “pugnalata alla schiena” dei sovietici, che avevano fino ad ora servito così fedelmente. Potete star certi che faranno carte false per vendicarsi su tutti coloro che, a ragione od a torto, riterranno averli turlupinati –
- Ma non le pare di essere un po’ troppo pessimista? Dopotutto, anche se si avverasse tutto ciò che lei prevede, sarà sempre meglio di una guerra – disse un giornalista di fianco a lui.
- Perché, qui in Europa, dal ‘45 ad oggi si sono combattute delle guerre? E’ stato, al contrario, il periodo di pace più lungo di cui abbia goduto il Vecchio continente, grazie al cosiddetto equilibrio del terrore. Ora in Jugoslavia, per esempio, potrà scoppiare quella “bella” guerra fratricida che è in maturazione da decenni. Allora, quando non ci sarà più, nemmeno dal punto di vista teorico, la possibilità di avere l’Armata Rossa a Belgrado, Lubiana, Zagabria o Skopjie, vedrete che bel cancan metteranno in scena i nostri cari amici Jugoslavi. Non vi ho parlato di quel che potrebbero fare nell’attuale Unione Sovietica, tenendo anche presente il pericolo che laggiù stanno seduti sopra una pila di bombe atomiche –
Un silenzio di tomba aleggiava adesso per la sala. Fino a qualche minuto prima, si poteva ancora udire qualche brusio di disapprovazione, adesso anche un battito di ciglia avrebbe fatto rumore.
- Mi accorgo di aver fatto la figura del guastafeste, anzi, dell’uccello del malaugurio in casa di mio fratello. Se mi sarò sbagliato, in questa stessa sede, sarò ben lieto, credetemi, di fare ammenda delle mie fosche previsioni. Può darsi che gli avvenimenti incalzanti di questi ultimi mesi abbiano portato ad un’obnubilazione delle mie facoltà di analisi. In fondo, stiamo vivendo la fine della svolta storica incominciata con gli anni ottanta. E’ come se cercassimo di muoverci tentoni in un territorio inesplorato. Non ho consigli da dare, se non quello di non lasciarci trasportare dall’euforia, perché, se faremo qualche piccolo ragionamento, scopriremo fin d’ora, che c’è poco da essere euforici –
Gianmarco aveva pronunciato queste ultime parole tenendo lo sguardo basso, mentre fissava la nuca dell’uomo davanti a lui. Concluso il suo intervento, attese pazientemente le repliche dei presenti. Non venne alcuna obbiezione significativa, se non qualche puntualizzazione, più esibizionistica che contestativa. Per una volta era riuscito a frenare l’esuberanza di suo fratello, o almeno, il suo ottimismo, ma sapeva anche che era soltanto una pausa temporanea. Poco dopo, infatti, Roberto prese di nuovo la parola:
- Secondo le tue previsioni, come saranno gli anni novanta? –
- Anni in grigio. Non così terribili e sciagurati come i settanta, esattamente l’opposto di ciò che sono stati i solari anni ottanta. Qualcuno tornerà a pescare nel torbido; in effetti, il mondo ha bisogno di fermarsi e tirare il fiato. Dal punto di vista economico, come ho detto poc’anzi, prevedo un decennio di stagnazione, se non di recessione, almeno qui in Europa ed in Estremo Oriente. Per quanto riguarda l’America, sarà un altro discorso. In America, il dividendo della pace, sarà pagato immediatamente o quasi. Gli americani, in questo mezzo secolo di guerra fredda, sono stati gli unici pagatori netti; da oggi, non sarà più così. Il guaio è che anche gli Stati Uniti, oggi come oggi, non sono più in grado di trascinare il resto del mondo nei loro successi (o nei loro fallimenti). Possono però fornire un valido esempio da imitare, ma, se saranno un valido esempio da imitare, temo che qui sul Vecchio continente, ci guarderemo bene dal farlo, almeno in questi anni novanta appena iniziati. Siamo troppo impegnati a complimentarci l’un l’altro per la nostra presunta “Reconquista”, per la nostra supposta saggezza e per la nostra falsa sicurezza, anche quest’ultima, riconquistata facendoci pagare il conto dagli Stati Uniti, come certi nobili decaduti. Ricordiamoci, invece, che se fosse dipeso soltanto da noi, a quest’ora parleremmo tutti quanti il russo –
Elargendo poi un sorriso beffardo ai presenti, concluse quindi il suo intervento:
- Quella sera del 9 Novembre 1989, quando tutta la gente di Berlino ballava, cantava e s’abbracciava sul muro, voi dov’eravate? Eravate nelle vostre comode e calde case. I più avranno tratto un sospiro di sollievo; qualcun altro, avrà stappata per l’occasione una bottiglia. Altri, ne sono sicuro, avranno pensato: “E domani, che balla racconto ai miei lettori?”. Questi ultimi, sono i tipi più pericolosi: non c’è niente al mondo di più micidiale d’un intellettuale frustrato e scornato. Il filosofo marxista Ernst Bloch, portando alle estreme conseguenze quanto asserito da Jean Jaques Russeau, in uno dei suoi saggi scrisse: “Quando i fatti contraddicono la teoria, tanto peggio per i fatti”. Ripensate a queste parole, prima di rallegrarvi. Da quella sera, costoro stanno lavorando per farci credere (e ci riusciranno) che il muro di Berlino l’hanno fatto crollare loro. O tutt’al più ch’è crollato per un difetto del calcestruzzo –
Una risata accolse quell’ultima frase, Gianmarco chinò il capo pensieroso, voleva fare del sarcasmo, aveva soltanto fatto ridere, poi, una voce alle sue spalle:
- Lei dov’era quella sera di novembre, dottor Demattei? –
- Ero a Berlino ed anch’io stavo ballando sul muro. Perché ero là? Perché volevo esserci. Mi aveva invitato il mio ex collega ed amico Severgnini. Mi aveva assicurato che in quei giorni, a Berlino sarebbe successo qualcosa: è successo tutto. Ho piantato Londra, la RDC, i dipendenti, i terminali dei computer ed a costo di combinare un “patatrac” sono corso là, sotto quel muro che stava per venire giù. E’ destino che in questi ultimi anni, qualunque lavoro stia svolgendo, debba sempre essere testimone di qualche grande avvenimento. Per questa volta non ho fatto, questa volta sono stato. Non ho scritto articoli, non ho pronunziato frasi storiche, non ho compiuto alcunché di rimarchevole. Quando, sbollita un poco l’euforia, sono sceso dall’ex “muro della morte” e sono ritornato in compagnia di Severgnini, lui mi ha domandato: “Ed ora cosa succederà?” Non ho saputo rispondergli. Vi ho risposto adesso. Che Dio ce la mandi buona! –
- Santo cielo! Decisamente, questa mattina ti sei svegliato con la luna per traverso – osservò Roberto.
- Al contrario – lo smentì Gianmarco – Questa mattina mi sono svegliato di ottimo umore, anzi, più allegro che negli ultimi venti, venticinque giorni. Infatti, come tu stesso avevi notato sollecitandomi ad intervenire, stavo ridendo divertito, ascoltando gli interventi di quelli che mi hanno preceduto –
Anni dopo, ripensando al suo intervento a quel simposio, parecchi di quei convenuti, ebbero motivo di apprezzare quanto fossero azzeccate le sue previsioni. Alcuni lo fecero con gratitudine, altri, i più, mordendosi mentalmente le mani, rimpiangendo di non avergli dato retta prima.
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 8:19 pm

Capitolo XIX


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil16


STRIZZOLINA






All’inizio del 1991, subito dopo la conclusione della guerra del Golfo, Gianmarco, appena rientrato a Londra da Milano, ricevette una telefonata da Diana. Come al solito, fissava un appuntamento al “San Lorenzo”. Il finanziere, in quei giorni, aveva parecchio lavoro arretrato da svolgere. I mesi cruciali dell’occupazione manu militari del Kuwait da parte dell’esercito Irakeno, avevano scosso e di parecchio i mercati finanziari. Nei sei mesi che seguirono, le borse di tutto il mondo erano state in altalena, tra ribassi rovinosi e riprese prudenti.
I giorni di guerra erano stati vissuti, specie dopo i primi bombardamenti degli alleati, paradossalmente, come una liberazione da un incubo; da allora, i mercati avevano incominciato a riprendersi. Quando, il primo marzo 1991, l’esercito alleato liberò Kuwait City, la crisi finanziaria poteva dirsi superata.
Non altrettanto superati erano i problemi della recessione produttiva, che da qualche mese faceva sentire i suoi morsi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e che, verso la fine di quell’anno, anche negli altri paesi occidentali avrebbe fatto parecchie vittime. Gianmarco aveva dovuto correre a Milano per partecipare ad un’importante riunione del Consiglio d’Amministrazione della RDC, di cui era diventato consigliere dalla metà del ’90.
In quella riunione s’era deciso di scorporare l’attività di progettazione e costruzione edile dal resto della RDC; d’ora in avanti, il ramo edile, quella che fino a dieci anni prima era stata l’attività principale dell’azienda dei Demattei, sarebbe diventata una società a sé stante, amministrata dal fratello Paolo. L’attività edilizia non tirava più come una volta e Roberto, avuto sentore che sarebbe diventata, di lì a poco, una fonte di guai per tutto il gruppo, decise di sterilizzarla, aspettando tempi migliori.
Per il 1990 era previsto ancora un leggero utile da parte delle televisioni, ma, se il mercato della pubblicità non si fosse ripreso (e tutto invece lasciava temere che sarebbe ristagnato per i prossimi due o tre anni), nel 1991 si sarebbe registrata una perdita di almeno una cinquantina di miliardi, anche a seguito degli oneri finanziari da indebitamento che pesavano su tutta la RDC. Le performances realizzate negli ultimi anni a Londra da Gianmarco in campo borsistico e finanziario, avevano controbilanciato la stasi del settore televisivo.
Era giunto quindi il momento per Gianmarco di fare la sua parte, trasferendo una parte dei capitali accumulati e moltiplicati durante i tempi belli, dalla finanziaria di Londra alla capogruppo in Italia: cosa facile a dirsi, ma estremamente problematica da attuare. A Londra infatti, aveva soci che avrebbero voluto quantomeno vederci chiaro in quel grosso movimento di capitali. Gianmarco aveva quindi deciso di accelerare la trasformazione della finanziaria in una banca d’affari, da fondere poi con la “Lombarda Assicurazioni”, onde agevolare il trasferimento di quattrini dalla Gran Bretagna all’Italia, senza far drizzare le orecchie agli enti di sorveglianza valutaria di entrambi i Paesi.
L’operazione era complessa e richiedeva approfondimenti, contatti discreti con uomini politici ed ambienti finanziari e, cosa più importante, tempi di realizzazione medio-lunghi. Gianmarco, anche tenendo conto del fatto che la legislazione britannica in materia era di manica abbastanza larga, calcolò che soltanto all’inizio del 1993 il piano elaborato avrebbe trovato completa attuazione. Nel frattempo, bisognava stringere i denti ed incrociare le dita.
- Se almeno avessi seguito il mio consiglio di tre anni fa: “niente debiti!” – disse a Roberto durante una delle tante riunioni del consiglio d’amministrazione della RDC.
- Se fossi tu a dirigere la RDC, a quest’ora guideresti un ufficio da commercialista per tenere la contabilità ai negozianti di granaglie – gli rispose Roberto.
- Non prenderla in questo modo, dopotutto sai quello che dicono a Milano in proposito: “La ragione è sempre dei fessi” –
Erano quindi, ai primi di Marzo 1991, giorni di preoccupazione e di grosse gatte da pelare, ora anche Diana ci si stava mettendo. Quella sera al “San Lorenzo” avrebbe di nuovo sentito altri piagnistei, con tutti i guai che aveva lui in casa sua?
Al ristorante, c’era più movimento del solito; i VIP festeggiavano anche per la fine della guerra del Golfo e soprattutto lo scampato pericolo di vedere, dalla sera alla mattina, quadruplicare i prezzi del petrolio, com’era successo nel 1973 e nel 1979, con tutte le conseguenze che un simile evento avrebbe comportato.
L’anno prima in Gran Bretagna era stata introdotta la “Poll Tax” sugl’immobili; ciò significava che il governo non aveva più molti margini di manovra per ridurre le spese ed era quindi costretto, per far quadrare i conti, ad introdurre nuove tasse. A seguito dell’attivazione di questo balzello, nell’aprile 1990 s’era verificata una terribile sommossa nel pieno centro di Londra. Dall’inizio dell’anno, le vie e le piazze avevano ricominciato a riempirsi di disoccupati e manifestanti, le fabbriche e gli uffici licenziavano a rotta di collo: tra qualche mese, il numero dei senza lavoro, avrebbe di nuovo oltrepassato la soglia dei tre milioni, proprio come all’inizio degli anni ottanta.
La signora Thatcher, subodorando aria di tempesta, nel novembre del 1990, aveva preferito dimettersi da Primo Ministro, lasciando alla guida di Downing Street il fido John Major e si era ritirata in campagna. La borsa, dopo l’euforia per la fine del conflitto, aveva ricominciato a perdere colpi, come la produzione industriale.
- E questi festeggiano! Ma che cosa? – mormorò Gianmarco, vedendo tanta gente allegra e spensierata ai tavoli di quel ristorante, ormai riservato agli alti papaveri.
Mara Berni gli venne incontro:
- Dottor Demattei, la vedo particolarmente triste, questa sera – poi, abbassando la voce – La principessa la sta aspettando –
Gianmarco si lasciò condurre per mano dalla padrona di casa, al séparé in fondo al salone. Diana s’era già accomodata. Un uomo seduto di fronte a lei, dava le spalle a Gianmarco. Quando questi si voltò per salutarlo, il finanziere lo riconobbe:
- Andrew Morton, era tempo che ci si vedesse! – esclamò Gianmarco, stringendo la mano che il suo collega d’un tempo gli aveva porto.
- Come sta andando il nostro Gianmarco Demattei, nella versione “alta finanza”? –
- Meglio di quello della versione “inviato speciale alle Falkland”. Dalle mie parti, ora pagano molto di più –
Gianmarco non riusciva a comprendere il perché Diana e Morton l’avessero invitato quella sera: che cosa stavano tramando? Si decise a guardare anche lei. Rimase senza fiato: la principessa delle favole, la ragazza acqua e sapone, che fino a quel momento aveva conosciuto, sembrava volatilizzata. Trucco pesante, occhi bistrati di nero, rossetto e lucidalabbra, tintura platinata ai capelli e… scollatura quasi all’ombelico. Gianmarco, per via del tavolino, non poteva vederle la gonna, ma s’immaginò che fosse molto ma molto corta. Negli ultimi mesi s’era dovuto accontentare di vederla raffigurata sulle copertine delle riviste di moda ed aveva notato, per la verità, che le sue toilettes s’erano fatte sempre più audaci: minigonne, cosce al vento, scollature vertiginose. Ma aveva pensato ad una malizia dei fotografi, i quali, da un po’ di tempo, avevano (ri)preso l’abitudine di infilarle il teleobiettivo nella scollatura, per aumentare le vendite, proprio come ad una star del cinema o delle passerelle.
- Una star, non una principessa – esclamò infatti.
- Come? – domandò lei, facendo la finta tonta.
- Ho conosciuto diverse Diana Spencer: una timida e simpatica bambinaia, con il titolo di Lady. Una principessa, impacciata e spaurita dall’ambiente che la circondava. Ho rivisto poi una donna angosciata e delusa, che m’ha fatto pena, nonostante portasse un titolo altisonante. Questa sera ho incontrato una star, ma si tratta sempre della stessa persona? –
- Puoi starne certo, la bulimia e la paura per il domani, le ho riposte in fondo ad un baule: ora sono guarita e pronta a menar le mani. Ho invitato il signor Morton, che tu mi avevi a suo tempo presentato, perché volevo proporgli un affare –
- Un libro – intervenne Morton - il sogno di tutta la mia carriera, come ben sai. Sono dieci anni che corro appresso a Sua Altezza Reale la Principessa di Galles, per avere un’intervista esclusiva sulla sua vera storia… ecco il titolo per il libro: “Diana, Her true story”, che ne dici? –
- Originale! – ironizzò l’interpellato.
- Puoi scommettere che sarà la verità, non le favole che raccontano i leccapiedi prezzolati da Buckingham Palace – esclamò Diana.
- Volevate un mio parere o qualcos’altro? Come correttore di bozze, non credo di valere molto–
- Tu sei anche un grosso editore, se non vado errato – osservò Morton.
- In Italia, nella mia lingua, che nessuno parla all’estero, sono diventato…anzi, mio fratello è diventato una grande potenza, ma sul mercato di lingua inglese, nessuno ci conosce –
- Non fare il modesto, ti posso assicurare che il nome dei Demattei, anche negli ambienti giornalistici ed editoriali britannici è tenuto in grande considerazione e soprattutto… temuto –
- Cosa ve lo fa pensare? –
- A me lo domandi? – esclamò Morton – So che l’editore Maxwell ha preso contatti con tuo fratello per cedergli una parte del suo pacchetto azionario –
- Quello che non sai – precisò Gianmarco – E’ che l’editore Maxwell è oberato da qualche miliardo di sterline di debiti e che tra qualche mese, se un’anima buona non interverrà a mettere un po’ di soldi nella sua baracca, si ritroverà a gambe all’aria. Per la cronaca, mio fratello non ci è cascato ed ora Maxwell dovrà, quanto prima, cercarsi un altro gonzo che lo finanzi –
- Questa mi giunge nuova! – esclamò Morton.
- E’ la verità. Anche nel paese di Shakespeare, si corre il rischio di consegnare la parola scritta in mano a pochi editori, come, del resto, in Italia; è il mercato, bellezza! Se vorrai invece, un’indicazione o la segnalazione presso un editore che possa pubblicare il tuo libro, non ci saranno difficoltà; la mia finanziaria è in grado di garantire tutti i rischi di un’operazione editoriale, che, m’immagino, non sarà molto apprezzata dall’establishment, non è così? –
Morton annuì.
- Sapevo che di te potevamo fidarci – mormorò Diana afferrandogli una mano.
- Quali sono i dettagli del vostro piano? –
Fu Morton a addentrarsi nei particolari del progetto:
- La principessa ha preso contatto con me il mese scorso, perché era a conoscenza, non è un segreto per nessuno, che desideravo scrivere una sua biografia. Già nei primi mesi del 1990 avevo scritto “Diana’s diary”, un libretto sul suo stile di vita, che Sua Altezza ha apprezzato. Lady Diana, prima ancora, aveva notato una serie di articoli da me scritti per il “Sunday Times”, favorevoli alla sua causa. A quel punto, sapeva che stavo mettendo insieme il materiale per scrivere la storia della sua vita; inoltre tu le hai parlato molto di me, sempre in termini positivi. Quindi Sua Altezza si è convinta che sono uno scrittore indipendente, non legato a Fleet Street né, cosa più importante, schiavo di Buckingham Palace. Per questi motivi, dopo qualche esitazione, ha deciso di concedermi accesso alla parte più segreta di se stessa: mi ha chiesto di diventare il suo tramite con il mondo –
- Nientemeno! – esclamò Gianmarco.
Era stupito come Andrew Morton fosse diventato così compito e cerimonioso, nemmeno l’avessero insignito con l’Ordine della Giarrettiera.
- In verità – soggiunse Diana - temo che la cerchia dei leccapiedi di mio marito dia inizio ad una campagna di discredito nei miei confronti e convinca il mondo della mia incapacità di essere una buona madre e di saper rappresentare la monarchia –
Gianmarco sospettava che tale campagna fosse già iniziata, anche perché Diana, fino a quel momento, aveva fatto di tutto per renderla, quantomeno verosimile.
- Me ne sono accorto, e con me, se ne sono accorti parecchi dei tuoi fans –
- Perché li chiami fans? Mi hai forse preso per la cantante, tua compatriota, Louise Veronica Ciccone, in arte “Madonna”? – Ironizzò la principessa
- L’ho già detto, sei ormai una star. Non che lo consideri un fatto negativo, solo che la regalità è un’altra cosa, rispetto alla notorietà ed alla simpatia. Tu riesci ad essere simpatica e popolare, non regale –
- Ormai queste precisazioni sono tardive – intervenne Morton - Anch’io ho l’impressione che sia già stata scatenata una campagna contro la Principessa Diana, che si concluderà, a mio avviso, soltanto con la sua completa emarginazione e magari, con il suo ricovero presso un’istituzione di qualche genere, dove possano aiutarla –
- Posso immaginare che genere di aiuto potranno darle queste istituzioni. Ne sei sicura Diana? – domandò Gianmarco.
- Se non ne fossi sicura, non sarei venuta a chiedervi aiuto –
- Come intendete svolgerla quest’intervista, non certo sui tavoli del “San Lorenzo” –
- Certamente no – rispose Morton - sarà un’intervista per procura. Io la principessa non dovrò neppure vederla. Le domande gliele rivolgerò per iscritto con alcuni biglietti, che le farò avere tramite amici comuni; lei mi risponderà, a mezzo di un vecchio registratore che possiede a Kensington Palace. Le bobine registrate mi perverranno per gli stessi canali con cui saranno arrivate le domande. Sarà un metodo un po’ macchinoso, che impedirà ogni possibilità di domande dirette e spontanee, ma francamente, io non vedo altri modi per… -
- Neppure io – tagliò corto Gianmarco, poi, rivolto a Diana:
- Sei sicura di quello che stai per fare? Non credere di poter mantenere il segreto per molto tempo. Sarà già un successo se questo libro potrà vedere la luce senza troppi ostacoli; quanto a credere che quando uscirà sarà inaspettato… spero su questo non vi facciate molte illusioni –
- Non ce ne facciamo, voglio semplicemente che la gente conosca tutta la verità – rispose la principessa.
A Gianmarco la prospettiva di quella che suo fratello avrebbe chiamato una marachella, aveva messo addosso una strana eccitazione; adesso non vedeva l’ora d’entrare in azione. Il fatto che avesse altri e ben più gravi problemi, non lo turbava più di tanto. Ora, sapeva benissimo, quasi istintivamente, che in un modo o nell’altro se la sarebbe cavata. Il fatto poi di avere un problema in più, lo esaltava, mentre poco prima di incontrare Diana e Morton era sull’orlo di una crisi di nervi.
I tre amici, dopo la cena, durante la quale misero a punto i particolari del “piano di battaglia”, si fecero portare una bottiglia di Champagne:
- A che brindiamo, principessa? – domandò Morton.
- Innanzitutto, d’ora in avanti, per lei sarò soltanto Diana, come per Ghiamma lo sono da sempre, poi, per il brindisi... vediamo un po’...ecco, sì: alla verità! –
Ed alzò il calice.
Uscirono dal locale alla spicciolata. Ultimo a svignarsela fu Gianmarco; con il cellulare chiamò Matteo, che lo stava aspettando con l’auto in una via adiacente. Quando arrivò, gli rivolse una delle sue solite domande impertinenti:
- Ogniqualvolta incontri la Principessa Diana, sembri ringiovanito di dieci anni. Cos’è successo questa sera di tanto eccitante?–
- Prima di tutto, gli autisti educati non rivolgono questo genere di domande ai loro datori di lavoro – esordì Gianmarco, accomodandosi sul sedile posteriore – In secondo luogo, io questa sera al “San Lorenzo”, ci sono andato da solo e sempre da solo ho cenato. Da oggi, si ricomincia a vivere pericolosamente, come ai vecchi tempi di Milano e del terrorismo. I mesi a venire saranno molto intensi, se sei ancora disposto a correre dei rischi, non ce ne mancheranno, stanne certo –
- Ho capito! – commentò Matteo, avviando l’automobile.
- Hai capito che cosa? – domandò Gianmarco.
- Ho capito che nei prossimi mesi, tuo fratello avrà di che incazzarsi come una iena –
- Non soltanto mio fratello, almeno lo spero! –

Non aveva nessuna intenzione di mollare proprio adesso:
- In Italia diciamo: “Hai voluto la bicicletta e adesso pedali” –
- Ma quelli sanno già tutto! L’altra sera, qualcuno ha messo sottosopra lo studio di Morton, non credo abbiano trovato niente, ma se si tratta di una coincidenza, è molto strana –
Diana era di nuovo spaventata, comunque, il segreto non si sarebbe potuto mantenere più a lungo. Era chiaro che prima o poi qualcuno degli “uomini in grigio”, come lei chiamava i funzionari addetti alla sicurezza della Royal Family, avrebbe scoperto quello che la principessa e i suoi amici stavano preparando da diversi mesi.
Come avevano immaginato, la stesura del libro da parte di Morton, non fu molto agevole. Dalle parti di Buckingham Palace, incominciarono seriamente a sospettare qualcosa: cassetti rovistati e poi rimessi in ordine nell’ufficio della principessa a Kensington Palace, microspie rinvenute sulla sua automobile, domestici licenziati d’improvviso e senza spiegazioni, quindi sostituiti con persone sconosciute ma un po’troppo ficcanaso. Tanti segnali che indicavano un accentuarsi della discreta ma implacabile sorveglianza cui era sottoposta, sin dai primi giorni della sua entrata nell’entourage della Royal Family. Tutti questi particolari, Gianmarco li venne a sapere attraverso Morton, in colloqui a quattr’occhi, dal momento che avevano preso l’abitudine di consultarsi de visu, non fidandosi entrambi dei telefoni e neppure delle persone.
Durante l’estate 1991 il lavoro di stesura del libro entrò nel vivo, mentre Gianmarco fu più che mai impegnato nella riorganizzazione della società finanziaria che dirigeva. Ormai almeno una volta alla settimana, quasi sempre durante i weekend, volava a Milano per incontrare il fratello ed i suoi consiglieri, al fine di valutare e risolvere i sempre più complessi problemi della RDC e collegate.
Come Gianmarco aveva previsto, il lancio dei telegiornali e delle “News” aveva comportato dei costi aggiuntivi, mentre il ritorno in termini di ascolti e di pubblicità era stato più modesto del preventivato.
- Non dubitare – gli ripeteva ogni volta Roberto – I risultati verranno, basta saper aspettare. La gente, quando si sarà abituata a fare un paragone tra noi e la RAI, alla fine sceglierà noi –
Intanto, i debiti crescevano, sia a causa degli oneri finanziari per i tassi d’interesse, in aumento in tutto il mondo, sia per il continuo erodersi delle entrate pubblicitarie. Avrebbero dovuto attendere ancora un annetto, poi ci avrebbero pensato Antonio Di Pietro e tutto il mitico Pool di “mani pulite” a risvegliare nei telespettatori italiani l’interesse per l’informazione e l’attualità.
Quando rientrava a Londra, Gianmarco sapeva che i suoi problemi non erano finiti. Doveva cambiare modo di pensare, svitarsi la testa italiana e riavvitarne un’altra che avrebbe pensato ed agito in un modo completamente diverso.
Non si preoccupava del fatto di essere sorvegliato, lo era sempre stato. Il governo dello scolorito John Major che Gianmarco non conosceva, gli dava qualche preoccupazione, gli erano inoltre sconosciuti quasi tutti i ministri del nuovo gabinetto. Nella politica britannica non aveva più molti agganci, avrebbe dovuto contare soltanto sulle sue forze. A meno che, alla prossima tornata elettorale, non avessero vinto i laburisti.
In quel partito infatti, stavano facendosi strada alcuni personaggi di spicco, che Gianmarco aveva saputo coltivare in precedenza e che gli sarebbero tornati d’utilità, qualora fossero andati al governo. Ma, pur essendo le elezioni inglesi fissate per gli inizi del 1992, quella di una vittoria laburista era ancora un’ipotesi abbastanza remota.
Nei suoi incontri da congiurato in casa di Morton, leggendo le pagine del memoriale di Diana, Gianmarco arrivò alla conclusione che la principessa sarebbe stata ancor più credibile se le sue confidenze, seppure anonime, fossero state corroborate anche da testimonianze di alcuni tra i suoi amici più cari. Nel giugno 1991 la cerchia dei conoscenti di Diana ricevette il permesso di vuotare il sacco con Andrew Morton. Contemporaneamente Gianmarco, avvalendosi delle entrature che i Demattei avevano acquisito anche come editori, riuscì a persuadere un’importante casa editrice a stampare il libro e ad elargire a Morton un anticipo sulla pubblicazione. Consigliò a Diana di confidare ad altri giornalisti delle manovre di palazzo che si stavano svolgendo ai suoi danni.
Diana gli aveva rivelato d’incontrarsi in segreto, sulla sua auto, anche con il giornalista Richard Kay, del “Daily Mail”. Portava infatti gli occhiali scuri ed un berretto con la visiera abbassata sulla fronte. Ogni volta in cui s’incontravano, lei parlava liberamente e lui la citava come “un’amica della principessa”.
Restava il problema di James Hewitt. Avvalendosi sempre dell’influenza di editore, era riuscito, fino a quel momento, ad impedire che l’ufficiale fedifrago riuscisse a piazzare le sue lettere presso qualche giornale, ma sapeva che prima o poi qualcuno avrebbe ceduto alla tentazione dello scoop. Era solo questione di tempo: se quelle lettere fossero state pubblicate prima del memoriale di Diana, per il prestigio della principessa, sarebbe stato un duro colpo.
In quell’estate non l’incontrò mai, un po’ per mancanza di tempo da parte di entrambi, un po’ per non acuire i sospetti che gravavano intorno a lei. Il primo luglio 1991, Diana festeggiò il suo trentesimo compleanno, ma con grave scorno di Gianmarco, in compagnia di James Hewitt, appena ritornato dalla guerra del Golfo. Gianmarco, per l’occasione, le inviò come regalo una spilla di brillanti, insieme alla spilla, un biglietto: “Da parte del tuo più caro amico Giamma, avvertendoti che stai allevando una serpe in seno”. L’allusione alla sua cena con Hewitt era chiara, ma Diana continuò imperterrita per qualche mese ancora a frequentarlo. La principessa era infatti persuasa, e qui si sbagliava di grosso, di aver maturato un formidabile intuito nel giudicare le persone e soprattutto, gli avvenimenti.
Purtroppo Diana, non solo non aveva questa facoltà, ma neppure possedeva quel dono innato che è il dono della paura, quel meraviglioso istinto che ti fa annusare il pericolo, magari una volta di troppo, mai una volta di meno.
Gianmarco, che di tutto questo era cosciente, fece sempre il possibile per tenere Diana fuori dai guai, nei quali la principessa, spronata dal desiderio di rivalsa, andava regolarmente a cacciarsi. Non sempre riuscì, ma anche quando fece cilecca, la popolarità di Diana, che lui stesso, del resto, aveva contribuito ad innalzare, fece il resto; a lei, infatti, erano perdonate cose che né al Principe di Galles, né al resto della Famiglia Reale sarebbero state perdonate. Riuscì quindi a proteggerla, più che altro da sé stessa, tranne che in un’occasione: la notte del 31 agosto 1997, al rientro da una folle vacanza nel Mediterraneo, l’ultima e forse la più movimentata della sua vita.

Quella strana estate del 1991, trascorreva tra tresche giornalistiche, complotti di palazzo, spionaggio telefonico e grandi manovre finanziarie. Arrivò agosto ed il ritiro spirituale a Balmoral, che Diana detestava.
Una mattina di quell’agosto, a Mosca un gruppo di militari ed il vicepresidente dell’Unione Sovietica Janaev proclamarono lo stato d’emergenza in tutto il Paese, sequestrarono il presidente Gorbaciv nella sua villa in Crimea, allo scopo d’impedire la firma del nuovo trattato dell’unione tra le repubbliche sovietiche, che avrebbe in pratica sancito la fine dello stato autoritario. Il tentativo di golpe fu però sventato dalla decisa reazione popolare, sostenuta da Eltsin e dal sindaco di Leningrado Sobciak. I promotori del golpe furono arrestati a soli due giorni dall’azione di forza. Il ventidue di agosto, Boris Eltsin, nella sua nuova veste di leader accreditato, tenne un durissimo discorso di fronte al parlamento, accusando il padre della Perestroika di ambiguità e di aver messo a repentaglio il cammino verso la democrazia con l’incertezza della sua linea politica. Gorbaciov fu obbligato a mettere fuori legge il Partito Comunista. La dissoluzione definitiva dell’Unione Sovietica avvenne il 21 Dicembre 1991. L’Impero del male, come l’aveva definito qualche anno prima il presidente Reagan, era finito e con lui erano finite le ragioni della guerra fredda ed uno dei principali motivi per cui il XX Secolo si era caratterizzato.
In quella tragica estate scoppiò la guerra civile in Jugoslavia: la decomposizione della società dell’Est Europa portò allo scontro tra etnie in un paese dove i suoi abitanti, per ragioni di convenienza politica internazionale, furono costretti a convivere per settant’anni, facendo finta di essere una sola nazione ed un solo popolo. Non appena questi motivi vennero meno con il crollo del comunismo, anche questa finzione divenne improvvisamente inutile, anzi, a detta di gran parte degli osservatori politici neutrali, dannosa. Evidentemente, costoro non capivano bene il significato dell’aggettivo “dannoso”, dal momento che, con la riparazione di quel danno, cioè dopo la secessione della Slovenia, della Croazia, della Macedonia ed infine della Bosnia-Erzegovina, scoppiò una guerra civile con conseguente massacro tra le popolazioni di quelle regioni, ormai da decenni mescolate fra loro. Per i successivi quattro anni, cioè fino alla fine del 1995, con l’intervento delle truppe NATO, nell’ex Jugoslavia, fu un succedersi di guerre e guerricciole, attentati e stragi, bombardamenti contro città e paesi praticamente inermi, migrazioni forzate delle popolazioni d'intere regioni: quella che poi, con un eufemismo ipocrita, fu chiamata pulizia etnica. Questo fu il rimedio al “danno” della Jugoslavia unita.
In quella pazza estate del 1991, in Italia, nei porti di Bari ed Otranto, sbarcarono una massa di venticinquemila profughi albanesi ridotti allo stremo. Dopo aver affrontato una traversata a bordo di navi vecchissime e malridotte, stracariche oltre l’immaginabile, essi furono rimpatriati, più o meno a forza, dopo giorni di altissima tensione. Il dramma albanese, spinse il governo italiano ad organizzare la missione umanitaria “Pellicano” per cercare di riportare un po’ di calma (e di cibo) in un paese ormai da anni sull’orlo della guerra civile, a prescindere dalla durezza del regime che l’aveva governato fino ad allora.
In quella triste estate del 1991, infine, Gianmarco capì che gli anni ottanta erano proprio finiti, non solo com’era ovvio, dal punto di vista contabile, ma anche nel costume e nelle scelte comportamentali che quegli anni avevano generato.
Con gli anni novanta si ritornava, in alcuni casi anche brutalmente, nel novecento, con il suo grigiore, le sue ideologie, le sue stragi, la sua povertà morale e la sua meschinità.
Forse, il fatto di aver doppiato la quarantina, lo induceva ad un certo pessimismo. La sua gioventù era tramontata, almeno anagraficamente, insieme con gli anni ottanta; era ancora l’epoca dei grandi ideali? In un periodo in cui tutto crollava e nuovi soggetti si presentavano alla ribalta, era ancora giusto, o al contrario, un po’ ridicolo, battersi contro un drago per salvare una principessa?
- Sarebbe ora che tu ricominciassi a crescere, il mondo non si ferma a Kensington Palace – gli disse un giorno suo fratello, in una delle sue rare visite alla sede di Londra, nella palazzina dei “Doklands” – Quando ritornerai in Italia?–
Gianmarco si sentiva ormai alle strette, Roberto dopotutto, la risposta la conosceva.
- Lo sai che debbo sistemare ancora un paio di cosette. Comunque, ti prometto che per la fine del 1992 sarò pronto per rientrare a Milano, sempre che tu abbia bisogno di me –
- Che stai dicendo? Io ho sempre bisogno di te. A Londra hai fatto, in questi anni, un lavoro magnifico, a parte certe tue frequentazioni… diciamo così… un po’ pericolose –
- Sei sicuro che quelle frequentazioni siano state così pericolose? Ti basti sapere che a conti fatti, anche dal punto di vista degli affari, ci hanno giovato. Qui in Inghilterra, non so se te ne rendi conto, grazie anche ad alcune delle mie frequentazioni pericolose, siamo stimati e riveriti. Fino a qualche anno fa, neppure ti conoscevano e le rare volte che facevano il tuo nome, era per parlarne male. Se invece adesso vai a farti un giro dalle parti di Fleet Street o dalle parti di Lombard Street, vedrai quante persone che non hai mai visto si scappelleranno quando ti riconosceranno. Anche da queste parti ormai, non soltanto a Milano o a Parigi che tu ami tanto, sei una persona conosciuta e popolare. In Inghilterra, una cosa del genere, per uno straniero, non è facile da ottenere –
Aveva stuzzicato Roberto nel suo punto debole: la vanità e l’enorme autostima.
- Va bene, va bene: mi hai inferto un colpo basso. Non dico che la cosa non mi faccia piacere, ma… spiegami che intenzioni hai nei confronti di quella donna. Sono dodici anni che giocate insieme come il gatto con il topo. Nonostante tutte le mie raccomandazioni, me la trovo ancora tra i piedi –
- Che intenzioni ho? Molto semplice: voglio farla diventare la vera regina d’Inghilterra. A Elisabetta II la Corona, Buckingham Palace, la Corte e tutti gli ammennicoli; a Diana il popolo e il mondo intero –
- E dici poco? –
- Tu che hai sfidato l’establishment politico, finanziario, culturale e sportivo mi fai di queste osservazioni? Alla fine hai vinto. Lasciala fare anche a me qualche marachella, come le chiami tu; credimi, è molto più semplice di quanto non creda –
- Anche se ti dicessi di no, faresti ugualmente quello che hai in testa –
- Non sarà, credimi, un cattivo affare. Quella donna, sta crescendo enormemente agli occhi dell’opinione pubblica, di pari passo, si sta sempre più scolorendo l’immagine della Royal Family. Dai tempo al tempo, vedrai che tra non molto, le parti si saranno invertite –
- Spero tu abbia ragione. Comunque, seguirò il tuo consiglio: per calmare le mie apprensioni, farò una passeggiata dalle parti di Fleet Street e magari anche a Lombard Street, per vedere se qualcuno mi riconosce –

Campagna elettorale piuttosto fiacca, quella della primavera 1992. Gli esperti in sondaggi davano in leggero vantaggio i conservatori di John Major, nonostante sotto il suo governo il paese fosse piombato in una lunga recessione come mai s’era vista dal secondo dopoguerra. Tra la fine del ‘90 e la fine del ’91, il PIL della Gran Bretagna era addirittura diminuito, cosa che non succedeva dall’81. Il numero dei disoccupati era ritornato sopra i tre milioni. Non erano risultati particolarmente brillanti da presentare agli elettori, per un governo uscente, eppure Major riuscì a vincere, seppur di stretta misura. Per altri cinque anni, la Gran Bretagna avrebbe ancora avuto un governo conservatore. A Gianmarco la cosa non fece né caldo né freddo; da quando Margareth Thatcher se n’era andata da Downing Street, i suoi rapporti con il governo, s’erano via via raffreddati. Lui non dava più un soldo al partito, in compenso, loro non gli fornivano più informazioni. Questo fu un male, perché di lì a poco, sarebbe scoppiata in Italia la buriana di Tangentopoli, nella quale, il servizio segreto britannico riversò una valanga d’informazioni (anche per ciò che riguardava la RDC) per gli organi inquirenti che indagavano su “Mani Pulite”. Messaggi in telefax, in "Internet", telefonate riservate, copie di documenti trasmessi a banche svizzere e italiane dov’erano stati versati fondi neri ed infine, trasmissioni radio e TV. Beneficiari di questa messe d’informazioni furono alcuni procuratori del Tribunale di Milano, i quali colsero la palla al balzo per inquisire, indagare ed arrestare quanti più uomini politici gli capitassero a tiro.
Nella sola Milano furono più di duemila gli indagati per corruzione. In pochi mesi, in tutto il Paese scattarono le manette ad altre migliaia di persone. Praticamente, quasi tutto il vertice politico-istituzionale italiano fu spazzato via.
Alla fine del 1992, la classe politica e la classe dirigente italiana era alla paralisi più completa, in balia da una parte di un gruppo di magistrati ambiziosi ed onnipotenti, dall’altra da un’offensiva criminale e mafiosa, quale non s’era mai vista. Dall’aprile a luglio, furono assassinati a Palermo i procuratori antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con l’esplosione di due bombe radiocomandate che provocarono la morte anche di una dozzina di poliziotti della loro scorta.
A settembre, dopo che per tutta l’estate i mercati valutari l’avevano tenuta sotto pressione, la lira italiana fu svalutata del ventidue percento, il tasso di sconto fu portato al quindici percento, la Banca d’Italia s’indebitò per quarantamila miliardi di lire con la Bundesbank, nel tentativo di sostenere la moneta nazionale. Sembrava essere ritornati agl’inizi degli anni ’70, solo che nel 1992 nessuno più riusciva a raccapezzarsi di quanto stesse succedendo. Negli anni settanta si era ancora in piena guerra fredda, in qualche modo, si poteva immaginare da dove provenissero certe spinte eversive. In quel primo scorcio degli anni novanta, sia i servizi d’informazione, sia i vertici della polizia e dei carabinieri, non riuscirono letteralmente a raccapezzarsi. Vi riuscirono quand’era ormai troppo tardi.
A Londra, gli echi degli affari italiani arrivavano alquanto attenuati; facevano molto più rumore le voci di un’imminente pubblicazione di un libro sulla vita della Principessa Diana, che non il dramma che si stava consumando in Italia ai danni della democrazia.
Quel benedetto libro uscì il 16 Giugno 1992 ed andò, manco a dirlo, a ruba: la favola bella della principessa delle fiabe ed il principe azzurro era svanita. In esso, furono spiattellati i tentativi di suicidio, la bulimia, i tradimenti di Carlo (ma non quelli di Diana), le piccole e grandi crudeltà commesse dai cortigiani ai suoi danni, l’indifferenza del marito, la grossolanità e l’ignoranza con cui la famiglia reale trattava le vicende sue e persino quelle di Carlo, la diffidenza della corte nei suoi confronti, l’ipocrisia della stampa e dei media, tutti intenti ad imbellettare la vicenda del loro matrimonio, quando, da anni, si sapeva benissimo che stava andando a rotoli.
Diana fu sottoposta da parte di alcuni funzionari di corte ad un autentico fuoco di fila di domande. Volevano la conferma di ciò che già sospettavano, cioè che il libro l’aveva fatto scrivere lei. La principessa non avrebbe dovuto attendere molto perché le rappresaglie del palazzo le si abbattessero tra capo e collo. Comunque, Diana negò tutto, anche l’evidenza; nel libro, erano infatti descritti troppi particolari di cui poteva essere a conoscenza soltanto lei.
Non potendo prendersela, almeno per quel momento, con la Principessa di Galles, il cancan dei cortigiani si scatenò contro Andrew Morton e l’editore del suo giornale. A lui non fu risparmiato nulla, comunque, lo stesso Morton ebbe a dichiarare:
- Con i proventi della vendita del memoriale, potrei vivere felice sulle ceneri dei Windsor per almeno i prossimi vent’anni –
Degli undici quotidiani nazionali britannici, soltanto due ignorarono la pubblicazione; tutti gli altri, nei loro commenti presero le parti della principessa. Buckingham Palace era nel frattempo diventato un alveare, stavano preparando le contromisure; ma intanto, una valanga di nuove critiche, di editoriali e di commenti televisivi iniziò a mettere in discussione ciò che fino ad allora era stato ritenuto un tabù: il futuro della monarchia e la necessità o meno di una famiglia reale in Gran Bretagna. Fu persino rimessa in discussione la persona della sovrana, che destinava più attenzione ai suoi cavalli ed ai suoi cani, che non ai suoi figli. I sondaggi d’opinione mostravano che esisteva una percentuale schiacciante a favore della Principessa Diana. All’ufficio stampa di corte, numerosi galoppini frustrati si sforzavano di comportarsi in modo civile. Sulle prime, il loro giudizio sul libro era stato inequivocabile: “Scandalosamente irresponsabile”; ma ora, eccoli fare retromarcia: “Non abbiamo nulla da aggiungere”. I loro toni divennero più smorzati, quasi che una presa di posizione chiara potesse attirare nuove domande.
Alla fine, la Regina Elisabetta convocò Carlo e Diana a Windsor il 15 giugno 1992 per una riunione di famiglia. Voleva offrire all’esterno un’immagine di unità, a iniziare dal Royal Ascott; sapeva benissimo che il pubblico si sarebbe infuriato se Diana non avesse preso parte alla tradizionale sfilata in carrozza della famiglia reale. Infatti la folla, quando la vide in carrozza con la regina madre, dietro la Regina ed il Principe Carlo, proruppe in un boato ed applaudì la seconda vettura molto più della prima. Nel corso dell’incontro al castello di Windsor, la regina aveva domandato a Diana quali fossero le sue richieste: “Una separazione legale” fu la risposta. La Regina cercò di prendere tempo: “Ne riparleremo tra sei mesi”. Nel frattempo avrebbero dovuto realizzare la visita di stato nella Corea del Sud, che da tempo era in discussione.
Carlo e Diana accondiscesero, ma quel viaggio si rivelò un disastro sul piano delle pubbliche relazioni. La tensione tra i due principi non aveva nulla da invidiare alla tensione tra le due Coree. La stampa pubblicò fotografie che confermavano il contenuto dei riservatissimi cablogrammi che facevano la spola tra Londra e Seul, fotografie che mostravano un principe accigliato ed una principessa senza emozioni, ma chiaramente pieni di disprezzo reciproco.
Nel mese di agosto 1992, il “Sun” pubblicò la trascrizione di una telefonata tra la Principessa di Galles ed il suo amico James Gilbey, avvenuta nella mezzanotte tra il 31 dicembre 1989 ed il primo gennaio 1990, nella quale Diana pronunciava alcune frasette poco lusinghiere nei confronti della famiglia reale, discorreva di un serial televisivo, diceva di temere d’essere incinta. Per consolarla della sua depressione, Gilbey la chiamava “micetta” e “squidgy” (strizzolina), poi, alla fine della conversazione, a mo’ di ciliegina sulla torta, il signor Gilbey diceva alla sua strizzolina:
- Mi manchi micetta. Ti avvolgo per proteggerti –
E Diana, a sua volta chiedeva al suo James:
- Ti stai toccando? –
- No, non ce n’è bisogno. E tu, stai toccandoti? –
- Sì, è una sensazione magnifica –
Quando lesse il resoconto del “Sun”, Gianmarco restò incerto se mettersi a ridere o piangere. S’era sempre raccomandato con Diana di non fidarsi dei telefoni, lui ne sapeva qualche cosa, ma la principessa confidava nella benevolenza dei servizi di spionaggio nei suoi confronti. Evidentemente Echelon spiava anche le telefonate di lei, dal momento che, quel resoconto, l’aveva pubblicato per primo un giornale australiano del gruppo Murdoch, editore, a quanto si diceva, molto ammanigliato con la CIA e con Echelon.
Pochi minuti dopo, squillò il telefono: era suo fratello.
- Pronto, strizzolino! –
- Ma vai a farti fottere! – rispose Gianmarco tra il serio ed il faceto.
- Ed ora, come t’arrangi? – domandò Roberto
- Anche se lo sapessi, non te lo direi certamente per telefono, visto e considerato che anche il mio ed il tuo apparecchio, sono sotto controllo da anni –
- Mentre leggevo il dispaccio d’agenzia che riassumeva la conversazione di Diana con quel signore, m’è venuto in mente che in tutti questi anni, la principessa anche a te ha telefonato in varie occasioni –
- E con questo? – domandò Gianmarco, subito dopo capì il significato dell’allusione di Roberto.
- Oh, Cristo! –
La prima cosa che gli venne in mente, fu quella famosa telefonata di dieci anni prima, a Barcellona, dopo la partita Italia-Brasile, quando riallacciò i rapporti con lei. Forse che, già da allora, Diana aveva preso l’abitudine di telefonare con-una-mano-sola?
- Certo che ci stanno andando giù con la manina pesante – osservò Roberto.
- Non credo che finirà qui, ormai la guerra è scoppiata, ma dimmi, mi hai telefonato per questo? –
- Naturalmente no, era per avvertirti che sabato prossimo ad Arcore… -
- Un altro simposio? –
- No, riunione di famiglia e consiglio d’amministrazione – precisò Roberto.
- OK, ci sarò, hai altro da dirmi –
- No, e non masturbarti quando parli con me – ridacchiò Roberto prima di riattaccare.
- Spiritoso! –
Non sarebbero mancati a Diana le occasioni per rivalersi, intanto la principessa aveva oramai occupato il centro del proscenio e non l’avrebbe facilmente abbandonato. I Royals, in quella partita, lentamente stavano per essere messi all’angolo. Con lo spiattellamento della vicenda dello “squidgygate”, come lo chiamavano i giornali, avevano segnato un punto a loro favore, questo era certo, ma di lì alla fine dell’anno, Diana avrebbe avuto certamente il modo di rifarsi.
Intanto, oltre a Diana, doveva pensare agli affari: la lira era ancora in difficoltà. Soltanto che, questa volta non c’era più il servizio segreto che gli forniva le informazioni giuste, era ora di preparare un altro bel “pronti contro termine”, marco contro lira, e vincesse il migliore.
Mentre parlava con Roberto, gli era balenata un’idea formidabile. Aveva letto da un dispaccio della “Reuter” che a Roma era ricoverata al Policlinico Gemelli, Madre Teresa di Calcutta. Diana, in diverse occasioni, aveva espresso il desiderio d’incontrarla, ma la “Santa dei derelitti”, la cui porta era sempre aperta per i moribondi e i diseredati di mezzo mondo, era sempre riuscita a scantonare le visite dei potenti ed anche delle persone famose, come la Principessa di Galles.
Quella volta, chissà perché, Gianmarco era convinto che la suora avrebbe accettato d’incontrarla: Madre Teresa, come tutti i santi, possedeva quello che s’è chiamato “Un occhio in più”. Quest’occhio, le avrebbe permesso, per esempio, di vedere in Diana il prototipo della donna moderna, con tutti i suoi problemi, accentuati dal suo status di principessa. Sarebbe bastato che Roberto telefonasse al Segretario di Stato Vaticano. Diana poteva venire a Milano con l’Executive di Gianmarco, poi, mentre lui si sarebbe recato ad Arcore, Diana proseguiva per Roma. A Roma, mentre incontrava Madre Teresa … a filmare l’avvenimento ci sarebbero state, si poteva starne certi, le telecamere della RDC. Tutto questo, mentre la famiglia reale era a Balmoral a contar le mosche.
- Forza, Gianmarco, bando alle chiacchiere e mettiti all’opera – disse fra sé – Prima di tutto, si ritelefona a Roberto, poi a Diana e poi… -
Guardò il telefono, fissò il soffitto, pensò se stesso come ad un capo indiano poco prima di una battaglia:
- Oggi è un bel giorno per morire! –

I palinsesti delle varie televisioni di tutto il Regno Unito, quel 9 Dicembre 1992, erano stati strutturati in modo tale da lasciare spazio alla dichiarazione del Primo Ministro John Major. Quando il premier si alzò e prese la parola, la Camera dei Comuni, piombò in un silenzio inconsueto:
“Buckingham Palace annuncia con rammarico che il Principe e la Principessa di Galles si sono separati. Le Loro Altezze Reali non intendono divorziare e le loro posizioni costituzionali restano inalterate. La decisione è stata presa consensualmente … La Regina e il Duca di Edimburgo, anche se rammaricati, manifestano comprensione e solidarietà per le difficoltà che hanno condotto a tale decisione….”
Gianmarco spense il televisore. Possibile che Diana non l’avesse avvertito di quanto stava per accadere? Gli avvocati delle due parti avevano evidentemente raggiunto un accordo: Diana sarebbe rimasta con i figli a Kensington Palace, Carlo si sarebbe trasferito a St. James Palace ed alla sua residenza di Highgrove. Tuttavia, la Principessa di Galles, fino all’ultimo, era convinta che mai e poi mai la Regina avrebbe accondisceso ad una separazione, per paura di uno scandalo megagalattico. Aveva avviato, d’accordo con Carlo e la Royal Family, le pratiche per separarsi, sicura che Bukingham Palace avrebbe poi bloccato tutto all’ultimo minuto, dandogliela vinta un’altra volta. Invece, la Regina aveva fatto le cose per benino: tra la sorpresa di tutti, aveva incaricato nientemeno che il Primo Ministro di dare quell’annuncio in Parlamento. Come si diceva una volta: tanto tuonò…che piovve. Ora Diana non avrebbe più potuto tirarsi indietro.
All’inizio del 1993, in mezzo a un prato alla periferia di Londra, fu acceso un bel falò con tutti gli oggetti ricevuti in regalo in undici anni di vita in comune. Gli oggetti più preziosi sarebbero invece finiti nei magazzini di Bukingham Palace o in dono presso qualche ente di beneficenza. Fine della favola, fine dell’amore, fine anche di Diana? Così la pensavano i nemici della principessa, quelli che più di tutti avevano premuto perché si desse attuazione alle pratiche di separazione. Senza il paravento e la regìa della famiglia reale, di lei non sarebbe rimasto più nulla.
Gianmarco però non era della stessa opinione. A Diana restavano in mano due grosse briscole: la prima era costituita da un vispo frugoletto, suo figlio William, attaccatissimo alla madre, che un giorno sarebbe diventato re; la seconda era il titolo di “Principessa di Galles” che, nel Regno Unito e nel mondo, non era proprio l’equivalente di ragioniere o di dottore in Italia. Se queste briscole Diana le avesse giocate bene, per lei sarebbe stato il trionfo comunque.
Da parte sua, Gianmarco era pure convinto che la separazione, avrebbe di gran lunga giovato alla principessa, sia dal punto di vista dell’immagine, che da quello della salute. Avrebbe avuto certamente qualche problema in più sia con i fotografi sia con la stampa, ma Gianmarco era sicuro che con un po’ di cambiamento di look e parecchia pazienza, anche questo problema avrebbe potuto essere superato. Intanto, lui l’avrebbe vegliata, come ormai faceva da più di dieci anni, con discrezione ma anche con parecchia attenzione, Diana dopotutto era un’emerita incosciente; inoltre, l’annuncio della separazione dato in quel modo, l’aveva messa letteralmente sotto shock. Avrebbe impiegato diversi mesi per riprendersi.
I problemi di suo fratello e della RDC, invece, erano molto più complessi: indebitamento per novemila miliardi di lire, un agglomerato assortito di aziende il cui management andava ciascuno per la sua strada, perdite diffuse in tutti i settori, caos nelle reti televisive. A questo, si aggiungevano le perquisizioni e gli arresti operati dal Pool di Mani pulite, che si stavano sempre più avvicinando ai vertici della società.
Il protagonista di questa stagione di follie giudiziarie, Antonio Di Pietro, era diventato, anche fuori d’Italia, più popolare del Papa; forse anche per questo, negli ambienti giornalistici era soprannominato “la Madonna”. Una madonna che metteva le manette e portava crisi aziendali e disoccupazione ovunque mettesse le mani; ma la gente era persuasa che facesse pulizia tra i disonesti, almeno fino a quando non sarebbe toccato a ciascuno di loro di finire a San Vittore, oppure disoccupato.

La sua lunga permanenza a Londra volgeva alla fine. Con il primo Gennaio 1993, la finanziaria che presiedeva si sarebbe trasformata in una banca d’affari, Gianmarco l’aveva denominata “Lombard Bank”: ormai erano abbastanza robusti per compiere questo passo. La svalutazione della lira italiana e della sterlina inglese, avevano fruttato un bel malloppo alla finanziaria. La borsa di Londra ed il mercato immobiliare, dopo cinque anni, avevano ripreso a salire e con essi anche il patrimonio del fondo chiuso e del fondo immobiliare, gestiti dalla “Lombard Bank”. Per la fine del 1993 sarebbe stato in grado di rifinanziare, con quello che avrebbe guadagnato, quasi tutti i debiti della RDC. Ma prima di andarsene, doveva ancora sapere qualcosa d’importante, doveva rivedere Margareth Thatcher.
Agli inizi di Febbraio 1993 era pervenuto nel suo ufficio un biglietto da visita, con l’invito per l’indomani mattina.
La padrona di casa, ormai Lady Margareth Hilda Roberts sposata Thatcher, l’aveva fatto accomodare nello studio della sua nuova residenza di Belgravia, al numero 36 di Chesham Place. Stava sfogliando alcuni giornali, sembrava non aver fretta. La sessantottenne ex “dama di ferro” s’era finalmente degnata di riceverlo, dopo essersi negata per due mesi.
Lady Tatcher, fin dagli ultimi anni in cui era stata Primo Ministro, era afflitta da una curiosa “Sindrome di regalità”: una mania che l’induceva ad esprimersi con il plurale maiestatis quando si rivolgeva ad estranei come Gianmarco. Quando si sta al potere per troppo tempo!…
- Che sta succedendo Ma’am? – Gianmarco fu esplicito con l’ex Primo Ministro.
- Cosa sta succedendo? Lo domandiamo a lei, Mister Demattei, è sempre così informato su tutto – gli rispose la donna.
- Allora la informerò delle voci di corridoio che circolano per Londra: si dice che il Governo Britannico abbia iniziato un’offensiva di discredito e di delazione, per mezzo dei servizi segreti, contro i governi dell’Europa continentale e del Giappone, allo scopo di boicottare e far saltare gli accordi di Maastricht. Per quanto riguarda l’Italia, si parla di un summit avvenuto il 2 giugno 1992 sul panfilo reale “Britannia”, presenti un centinaio di manager pubblici e banchieri, alti funzionari ed ex ministri dello Stato italiano, i quali hanno ascoltato una raffica di relazioni di esponenti di banche d’affari, società di consulenza e law firm inglesi. Tutto questo allo scopo di elaborare una strategia volta impadronirsi con pochi spiccioli della fetta più appetitosa dell’economia Italiana, ora che anche nel mio paese si è incominciato a privatizzare l’industria di stato. Il tutto in combutta con il governo degli Stati Uniti –
- E lei ci crede? – domandò tranquillamente la donna, senza alzare gli occhi dalla lettura dei giornali.
- Trovo queste voci di corridoio molto plausibili, oltre ad alcuni indizi scovati qua e là –
- Non sono una prova le sue voci di corridoio, Mister Demattei –
- Ma se ciò che si mormora fosse vero, avete pensato alle conseguenze della vostre azioni? Le vostre ex colonie del terzo mondo le avete trattate in modo più dignitoso. Ci meritiamo davvero un trattamento peggiore di una colonia? Non è possibile che i nostri magistrati, dopo cinquant’anni di sonno, tutto d’un tratto, si siano accorti che gli italiani hanno sempre e sistematicamente eletto dei ladri e magari anche degli assassini per governarli. Qualcuno deve averli imbeccati, qualcuno ha fornito loro i dati di Echelon, contro degli alleati! Ma siete matti? –
La signora Thatcher si decise a sollevare lo sguardo dalle sue letture.
- La realtà, Mister Demattei, è che neppure noi c’immaginavamo che in Italia le conseguenze delle nostre…diciamo così…informative, generassero risultati così disastrosi e controproducenti per le vostre istituzioni. Ci sono stati da voi uomini particolarmente ambiziosi, che ci sono sfuggiti di mano ed ora agiscono per conto proprio–
- Mi sta dicendo che avete svolto il ruolo di “apprendisti stregoni”? –
- Lei ci è sempre stato simpatico, Mister Demattei… possiamo comprendere la Principessa di Galles. Simpatico ed utile, le auguriamo quindi ogni bene, anche a suo fratello Roberto. Purtroppo, noi non siamo più Primo Ministro, il governo attuale è retto da una mezza cartuccia. Quel Major, ce l’abbiamo voluto noi Primo Ministro, quasi tre anni fa. Ora combina o lascia combinare un mare di guai, con lui, infatti, i servizi segreti fanno i loro comodi. Avevamo sperato di toglierlo di mezzo subito dopo le elezioni del ’92, ritornando al governo di questo Paese, ma…lo scenario internazionale è irrimediabilmente cambiato. In America non governa più Reagan, ma un bamboccione di presidente che scimmiotta Kennedy. Non riconosciamo più l’Inghilterra che abbiamo governato. Questo dovrebbe renderci orgogliose: è il cambiamento che, come Primo Ministro, siamo riuscite a imprimere a questo Paese. Perciò, anche se tornassimo al governo, non sapremmo più dove mettere le mani. Nel frattempo, il Governo Major resterà in sella per altri quattro anni: saranno per voi quattro anni di guai, e non soltanto per voi, ma… a questo punto, vorremmo rivolgerle noi qualche domanda, Mister Demattei–
- Prego! – e si predispose ad ascoltare una filippica.
- E’ proprio sicuro che l’Italia ed i suoi governanti si siano sempre lealmente comportati da alleati, nei confronti della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e della NATO? I ministri ladri, li abbiamo inventati noi? I politici intrallazzatori, sono opera del SIS? La mafia, i giudici troppo ambiziosi, sono forse la creatura di qualche funzionario britannico? Il Papa che benedice i terroristi dell’IRA e tiene le parti di Saddam Hussein durante la guerra del Golfo, è forse un’invenzione dell’Arcivescovo di Canterbury?… Vogliamo paralare, per esempio, di quanto è avvenuto nel 1985 all’aeroporto di Sigonella, con quella vergognosa liberazione di terroristi palestinesi che avevano assassinato a sangue freddo sulla nave “Achille Lauro” un povero crocerista invalido, Leon Klinghoffer, la cui unica colpa era quella di essere ebreo? Dobbiamo continuare Mister Demattei? Quel che vogliamo dirle è questo: noi ci siamo comportati da colonizzatori per il semplice motivo che voi vi siete comportati da colonizzati. Avete, in più occasioni, dimostrato al mondo di essere disposti ad accettare qualunque padrone, purché questo sia determinato ad usare il bastone per tenervi in pugno. Quei signori che hanno partecipato al summit sul “Britannia”, non sono stati obbligati da nessuno, hanno semplicemente fiutato il vento che tirava. Mister Demattei, ormai non possiamo più farci nulla. Se vuole un consiglio, cerchi di coltivarsi l’amicizia ed i favori di qualche deputato laburista, perché tra quattro anni, caschi il mondo, le elezioni le vinceranno loro. Forse, in questo caso, si potrà fermare la macchina infernale che abbiamo messo in moto: con un cambio di governo. Fino ad allora… in bocca al lupo! –
La signora Thatcher tornò a sprofondarsi nella lettura dei giornali. Gianmarco arguì che quel colloquio era terminato. Almeno ora sapeva di che male sarebbe morto, se fosse morto.
- Povero Principe Carlo! - Esclamò d’un tratto Lady Thatcher, mostrandogli il giornale che stava leggendo.
- Scusi? – Esclamò perplesso Gianmarco.
- Non ci dica che non ha letto dell’ultima intercettazione telefonica del Principe Carlo, mentre parlava con Camilla Parcker Bowles? Quando lui esprime il desiderio di diventare il suo tampax –
- Lady Thatcher, ogni popolo ha i servizi di spionaggio che si merita: a noi i conti correnti in Svizzera dell’onorevole Craxi, a voi… i tampax –
Per la prima volta si vide Margareth Thatcher ridere di gusto: era un avvenimento eccezionale.

I visitatori di Kensington Palace ormai notavano la differenza, a pochi mesi dalla separazione dei Principi di Galles. Il cambiamento era evidente negli appartamenti otto e nove. Il personale sembrava più amichevole, meno formale, l’atmosfera più leggera e rilassata. C’erano anche piccole variazioni nell’arredamento. Le pareti erano state ridipinte, facevano bella mostra vasi di terracotta con composizioni di muschi e ramoscelli, e i severi quadri militari e architettonici del Principe Carlo erano stati sostituiti da panorami gentili e scene di danza. Gli invitati venivano accolti da una musica di sottofondo e dal profumo di fresie o di gigli bianchi. L’atmosfera dominante era tipicamente femminile.
Gianmarco era uno di questi invitati quel 30 marzo 1993. Era quello l’ultimo suo atto da londinese; l’indomani sarebbe decollato con il suo FALCON alla volta di Milano, dove sarebbe definitivamente rimasto. Ufficialmente andava a dirigere la “Lombarda Assicurazioni”, in realtà, per conto della RDC, avrebbe svolto un lavoro molto più delicato: quello di spia, anzi di controspia. Veniva a prendere congedo da Diana a casa sua, non vi era mai più tornato dopo la separazione e si vedeva.
- Che ne dici del mio nido? – gli domandò la principessa, quando l’ebbe fatto accomodare sul divano del salotto degli ospiti, lo stesso dove aveva ricevuto, anni prima, James Hewitt.
- Non m’intendo molto di arredamenti d’interni, mio fratello …
- Te l’ho già fatto notare qualche tempo fa: sono quindici anni che ci conosciamo e sono quindici anni che ti ripari tra i pantaloni di tuo fratello. Ti ricordi quella sera, la prima volta che ci siamo incontrati a Coleherne Court, per prima cosa mi hai parlato di tuo fratello. Quindici anni dopo…pure! –
- Non ho molta fantasia, forse perché è incominciato tutto da lui ed in tutto e per tutto, da lui dipendo –
- Ora non più, caro Ghiamma, ora è lui ad aver bisogno di te, tant’è vero che ti ha chiamato per essere aiutato –
- Vuoi farmi un ultimo favore, Diana? –
- Dimmi! –
- Impara a pronunciare il mio nome correttamente: mi chiamo Gianmarco –
- Uh! Quante vocali. Vediamo un po’ Giiaanmaarcoo –
- Quasi ci siamo, con un po’ d’esercizio sarai quasi perfetta –
Diana lo guardò intensamente per qualche secondo, poi, come le capitava spesso, l’espressione del viso mutò di colpo: dal sorriso alla tristezza, al pianto.
- Te ne vai, mi lasci sola? –
- Il mondo sta diventando piccolo, esistono i telefoni, per quanto controllati e gli aerei, anche se ogni tanto cadono –
Diana si strinse a lui.
- Non lasciarmi Ghiamma…vengo con te a Milano, qui non sono più niente: la mia carriera d’attrice è finita. Hai visto che scherzo mi ha combinato la Regina in parlamento? Mi ha sputtanata al cospetto di tutto il mondo. Adesso non ho più nemmeno il coraggio di camminare per strada –
- Non è possibile principessa, qui a Londra c’è tanta gente che ti vuole ancora bene, non ti lascerebbero andar via, mi accuserebbero di averti rapita, di averti rubata all’Inghilterra, inoltre, a Milano non è molto igienico soggiornarvi, oggi come oggi, specie alle persone note al grande pubblico, fanno gola ai giudici in cerca di pubblicità. Sono diventati delle star con la toga –
- Lo so, perché allora non resti qui. Non tornartene a Milano, anch'io leggo i giornali sai. Là ti aspetta gente che ti vuol male, gente che t'invidia. Fai venire qui tuo fratello. Tempo fa, rimproveravi a me d’esser diventata una star con la corona; ebbene, ora converrai che io, come star, sono meglio di un giudice –
Gianmarco sorrise divertito: certe volte era ingenua come una bambina.
- Neppure venire qui ci è possibile, mio fratello non può muoversi da dov’è, sarebbe un tradimento, una fuga. In Italia abbiamo i nostri affari, nemici tanti, amici molti di più ed un’azienda di quarantamila dipendenti: il nostro scudo –
- Non lasciarmi Ghiamma, questi mi vogliono morta, lo dico sempre: un giorno salirò su di un elicottero, dopo che sarà decollato l’elicottero esploderà, allora addio per sempre Diana –
- Non saranno così stupidi – commentò Gianmarco.
Si mise una mano nella tasca della giacca e ne estrasse un pacchetto.
- Questo è il mio regalo d’addio, aprilo –
Diana aprì il pacchetto, quando ne vide il contenuto sorrise.
- Un paio d’orecchini, bellissimi, per i gioielli hai un gusto inimitabile. Li indosserò sempre in questa ricorrenza, il 30 di ogni Marzo –
Erano orecchini d’oro giallo, ornati con piccoli rubini.
- Li monta una casa di oreficeria che fa parte del nostro gruppo, la “De Marchi” –
- E’ vostra anche la “De Marchi”, mio Dio, ma in Italia c’è qualcosa che non è dei Demattei? –
- Quello che è di Agnelli – rispose Gianmarco ridendo
- Adesso capisco perché vi siete fatti tanti nemici, per quanto non riesca ad immaginare che ci sia qualcuno che ti possa odiare –
Poi si voltò verso di lui, che s’era alzato in piedi, Diana gli diede uno spintone e lo ributtò sul divano, poi gli saltò addosso e lo baciò. Lo baciava e piangeva.
- Calma principessa, mi stai levando il fiato, non ho ancora finito –
Gianmarco si mise ancora la mano nella tasca, questa volta ne estrasse una busta.
- In questa busta, c’è una lettera per la “Lombard Bank”, la mia banca di Londra: è una lettera di accreditamento illimitato a tuo favore, non hai che d’andare là e potrai ottenere tutti i soldi che t’occorrono, sotto la mia personale garanzia –
- Non ho bisogno di soldi! – Esclamò Diana risentita.
- Certo che ne avrai bisogno: gli avvocati, l’eventuale divorzio. Non dimenticare che avrai di fronte i Windsor. Occorrerà molto tempo e molto denaro. “Loro” cercheranno di tirare la cosa per le lunghe, nella speranza di strangolarti economicamente. Credimi Diana, nei prossimi mesi, nei prossimi anni, di denaro ne avrai molto bisogno, come tutti –
Così dicendo le mise di nuovo in mano la busta. Diana la fissò preoccupata.
- Già, il divorzio, riuscirò ad arrivare viva fino ad allora? –
- Vedrai che ci arriverai, e per quel giorno festeggeremo l’avvenimento insieme, purché tu non inviti il maggiore Hewitt o Gilbey –
- Che vadano tutti a farsi fottere, mi hanno lasciata nei guai!–
Gianmarco si alzò, stava per congedarsi da Diana: la principessa avrebbe voluto che restasse a pranzo, magari anche a cena, forse anche tutta la notte, poi probabilmente pure il giorno dopo ed i giorni successivi. Ma Gianmarco doveva proprio andarsene.
- Tieni duro, Principessa di Galles, il mondo è tuo –
La baciò su di una guancia, poi all’improvviso la baciò anche sulla bocca.
Quando, poco dopo uscì dal palazzo dei principi, non si voltò, s’incamminò per il Kensington Park, per raggiungere il taxi che aveva chiamato da casa di Diana.
- Addio Londra. Ritorno a Milano, laggiù mi aspettano un lavoro duro, tanti rischi e soprattutto mi aspetta… “la Madonna” Di Pietro –
Mentre s’accomodava sul sedile posteriore del taxi, continuò il discorso tra sé:
- Ma questa volta, quella madonna troverà un serpentello che le morderà il calcagno –
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 8:29 pm

Capitolo XX


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil17


DE BELLO ITALICO






Che le faccende italiane fossero parecchio ingarbugliate, Gianmarco n'ebbe una prova tangibile il primo Aprile 1993, non appena sbarcato all’aeroporto di Linate. Matteo l’aveva preceduto di un paio di giorni, insieme ai bagagli e la mobilia che il padrone di casa aveva stabilito di portarsi a Milano dalla sua abitazione di Londra. Ora, per ultimo, arrivava lui.
Al cheek-in d’uscita lo costrinsero ad aprire ed a richiudere una mezza dozzina di volte le due valige del suo bagaglio personale, cosa mai capitatagli. Negli anni precedenti, infatti, s’era sottoposto a quell’elementare operazione di controllo in almeno un centinaio di occasioni, a seguito del suo continuo andirivieni tra Londra e Milano. Dopo un lungo peregrinare tra un ufficio e l’altro della dogana, quando le sue valige stavano per essere riaperte per la settima o l’ottava volta, sopraggiunsero trafelati Matteo ed un battaglione di avvocati.
– Scusaci per il ritardo Giamma, ma anche noi siamo stati bloccati all’entrata dell’aerostazione, hanno appena estradato dalla Spagna il banchiere Carminati, sai quello della maxitangente… -
Gianmarco bloccò Matteo con un cenno della mano.
- Guarda che io non sono il banchiere Carminati, qui a momenti arrestano me! –
- Per questo siamo venuti a riceverti all’aeroporto – rispose Matteo – Questi avvocati che m’accompagnano sono qui per te. Due ore fa, da Londra, c'è arrivata una comunicazione, anzi, una soffiata: si preparano ad incastrarti, ti hanno messo della droga nelle valige –
- Cooosa?! – esclamò Gianmarco – della droga… -
- Proprio così dottor Demattei – per la prima volta, uno degli avvocati gli aveva rivolto la parola – E’ sicuro che quelle due valige siano proprio le sue? –
Così dicendo l’avvocato indicò i suoi bagagli posati sul bancone mentre due finanzieri stavano armeggiando per aprirli.
- Me le hanno già aperte e richiuse un’infinità di volte! – protestò – non hanno trovato niente –
- Aspetta che vengano quelli con i cani antidroga, poi ne riparleremo… a San Vittore! – disse mestamente Matteo, poi, con il sua solita ironia – Benarrivato a “tangentopoli”, caro Giamma! –
- Ti prego, dimmi che si tratta d’un pesce d’aprile. Sentivo giusto la nostalgia di casa – rispose il finanziere.
In effetti, dopo l’intervento dei cani antidroga, all’interno di una delle valige, in un’intercapedine tra l’involucro esterno ed il rivestimento, furono rinvenuti alcuni sacchetti contenenti due etti di eroina allo stato puro, per un valore sul mercato della droga di alcune centinaia di milioni. Gianmarco non fu arrestato perché gli avvocati, arrivati appena in tempo, avevano segnalato l’evento prima del materiale ritrovamento degli stupefacenti; fossero sopraggiunti con cinque minuti di ritardo, il fratello di Roberto Demattei si sarebbe subito fatto qualche giorno di gattabuia, con un’accusa infamante: detenzione e spaccio di droga.


- Guarda qua, perdìo! – esclamò Roberto, mostrandogli una copia ancora fresca di stampa della “Repubblica”.
Infatti, il giornale sparava già in prima pagina la notizia del suo arresto all’aeroporto di Linate, a seguito del rinvenimento nel suo bagaglio personale:
“…di alcuni chilogrammi di eroina purissima, per un valore di decine di miliardi…”.
Seguiva, la cronistoria dell’avvenimento ed una breve biografia del fratello di Roberto Demattei, nella quale, chi non l’avesse conosciuto, si sarebbe domandato come mai, un simile figuro, non fosse già stato condannato all’ergastolo per reati che comprendevano tutta la gamma dei crimini contro l’umanità.
- Perfetto! Io non sono stato arrestato, nel mio bagaglio sono stati trovati un paio di etti di eroina, e non chilogrammi come dicono loro. Però come facevano a sapere, già da ieri, che oggi avrebbero scoperto della droga nelle mie valige?–
- Evidentemente qualcuno in Procura, passa loro le notizie con buona pace del segreto istruttorio – rispose Roberto - Quello che né alla Procura di Milano, né alla redazione della “Repubblica” potevano immaginare, era che da Londra, qualche anima buona passasse lo stesso genere d’informazioni anche a noi. Hai idea di chi possa averti combinato uno scherzo del genere? –
- Un’idea me la sono fatta. Come tu sai, poco tempo fa ho incontrato la signora Tathcher, la quale mi ha sostanzialmente confermato quello che temevo. “Mani pulite” è sostenuta dal servizio segreto britannico che, con l’appoggio del sistema satellitare Echelon della CIA, sta passando informazioni di ogni genere alle magistrature penali di mezzo mondo, non solo da noi. Il fatto è che soltanto da noi ha generato i risultati disastrosi che abbiamo sotto gli occhi. Probabilmente né gl’inglesi, né la CIA s’immaginavano gli effetti destabilizzanti che da noi si sono verificati. Gli americani volevano soltanto vendicarsi con Andreotti della vicenda dell’Achille Lauro e per la rivelazione dell’esistenza dell’organizzazione “Stay behind”. Gl’inglesi, in special modo la lobby che fa capo ai fedelissimi della signora Tathcher, desideravano restituire lo sgarro del “siluramento” avvenuto tre anni fa della stessa Tathcher, operazione attuata in combutta con i governi di Italia, Germania e Francia –
- In effetti non sono mai riuscito a capire il perché i suoi l’abbiano defenestrata –
- Non sei il solo, credimi. Siccome continuava a “rompere” in sede UE riguardo alle questioni attinenti i contributi all’agricoltura, quando venne a galla la storia dell’epidemia di “Mucca pazza” in Inghilterra, i governi d’Italia, Francia, Germania e Olanda si misero d’accordo con gli avversari della Tathcher: questi ultimi avrebbero fatto fuori la “Dama di ferro”; in cambio, gli altri governi della UE avrebbero minimizzato la portata dei danni alla salute per quell’epidemia –
- Hai idea di come agire? -
- Per prima cosa – attaccò Gianmarco – dobbiamo ottenere le stesse informazioni che ricevono le procure. Non vengano a dirmi si tratti dei risultati delle loro faticose indagini perché non ci credo. Di Pietro e soci non sarebbero capaci di trovare un elefante nel bagagliaio della loro auto, figuriamoci svolgere delle indagini internazionali come quelle in corso. Qualcuno fornisce loro delle informazioni che si possono trovare soltanto in un modo: Echelon -
- Ma tu, vuoi farmi credere che tutto quello che sta capitando in Italia è frutto di qualche spiata telefonica? –
- Non si tratta di qualche spiata. Le spiate telefoniche sono molto più numerose e sistematiche di quanto ti possa immaginare. E non si tratta soltanto di telefonate: sono intercettate, classificate e selezionate tutte le comunicazioni via etere, via cavo, via Internet, la corrispondenza diplomatica, le comunicazioni interbancarie, le trasmissioni radio e televisive. Persino le battute e le parolacce che si scambiano i giornalisti della televisione quando pensano di non essere in onda. Evidentemente, qualcuno ha stabilito che non solo noi italiani, ma anche i francesi, i tedeschi, i belgi, i giapponesi ed altri ancora, debbano incominciare a tirare un po’ la cinghia e soprattutto debbano cambiare governanti. Naturalmente, lo hanno stabilito senza dir niente agl’interessati, nemmeno fossero i ras d’una colonia del terzo mondo, nominati da qualche burocrate e non i loro alleati da cinquant’anni ed eletti liberamente dal popolo. Costoro, soltanto ora e non tutti, stanno rendendosi conto dello scherzetto tirato loro per mezzo di Echelon –
- In poche parole – puntualizzò Roberto – cos’hai in mente?–
- Hai fatto controllare se per caso ci siano microspie in quest’ufficio? – domandò a sua volta Gianmarco.
- L’ho fatto bonificare un’ora fa, poco prima che arrivassi –
- Bene! Vedo che stai imparando. Per rispondere alla tua domanda: primo, intendo spiare quelli che ci spiano; secondo, intendo indagare su quelli che c'indagano; terzo, intendo ricattare quelli che ci ricattano; quarto, intendo rovinare quelli che cercano di rovinarci. Tutto questo, usando le loro stesse armi –
Se invece di rispondergli Gianmarco gli avesse sparato quattro palle di cannone in pieno petto, Roberto avrebbe riso per il solletico. Sentendo le intenzioni del fratellino, Roberto si accasciò sulla scrivania: per un momento Gianmarco temette che suo fratello si sentisse male, poi ricordò che quella era soltanto una delle sue sceneggiate di repertorio, quando voleva impressionare gl’interlocutori.
- Da Londra, proprio da Londra mi vedo ritornare a casa una specie di Saint-Just con la ghigliottina in tasca! Ed io che m’illudevo d’averne fatto un altro Rotshild – piagnucolò Roberto – Ad ogni buon conto, come intendi attuare i tuoi progetti di palingenesi giudiziaria? –
Nel porgli quest’ultima domanda, Roberto era ritornato subitaneamente vispo e allegro come non lo era da più di un anno.
- Se te ne rivelassi i particolari adesso, nel giro di un’ora li conoscerebbero anche tutte le portinaie di Milano –
- Mi stai dando del chiacchierone? –
- Appunto! Qui si sta rischiando anche la pelle. Alcuni dei signori di “mani pulite” venderebbero i loro figli per finire sulle prime pagine dei giornali. Fintanto che avranno l’opinione pubblica dalla loro, si sentiranno autorizzati a compiere qualsiasi misfatto per rafforzare il loro potere e lo faranno. Noi dobbiamo prepararci fin d’ora a quando i palloni si saranno sgonfiati, succederà anche questo, ma prima di tutto dobbiamo pensare a restare vivi e liberi per quel giorno –
- Addirittura!! Come intendi muoverti? –
- A questo punto sono io a domandare a te quali sono le tue vere intenzioni. E’ vero che…. –
- Le mie intenzioni qui ormai le conoscono anche i poppanti nella culla. Intendo rifare quello che “Mani pulite” ha disfatto: fondare un partito, presentarmi alle prossime elezioni, vincerle e governare l’Italia –
- Finalmente! Tu mi confermi quello che si mormorava a Londra negli ambienti giornalistici –
- Sai che novità! Sei con me? –
- Ti rendi conto che quando annuncerai di voler scendere in campo ti inimicherai molti di quelli che fino ad oggi sono stati tuoi alleati? -
- Sì –
- Ti rendi conto che, visto l’attuale indebitamento stratosferico del gruppo RDC, sei in una condizione di particolare vulnerabilità?
- Sì –
- Ti rendi conto che fino ad oggi ti hanno risparmiato solo per darti il tempo di schierare te e le tue televisioni dalla loro parte? –
- Sì –
- Ti rendi conto che se ti schiererai dalla loro parte potrai più agevolmente salvarti, anche se così facendo sarà come legarsi un cappio al collo, cosicché i tuoi nemici lo potranno tirare a loro piacimento? –
- Sì –
- E nonostante ciò sei sempre deciso a darti alla politica? –
- Siii! –
- Benissimo! Come disse il generale Budionny ai suoi soldati quando si accorse di essere circondato dal nemico: “Ragazzi, la situazione è disperata, state allegri!” –
- Dunque Gianmarco, sei con me oppure no? –
- Certo che sono con te. Che diamine! –


Aveva appena preso contatto con alcuni fornitori americani di attrezzature elettroniche e di computer, gli stessi che da anni fornivano la RDC, soltanto che la merce che Gianmarco intendeva acquistare, questi signori non la tenevano in catalogo, perché la vendevano ad un unico cliente: il Dipartimento per la Sicurezza Americano, il ministero che sovrintendeva la CIA, la NSA, e tutti gli enti di spionaggio degli USA. Sapeva inoltre che il gioco sarebbe stato difficile e rischioso. Anche se fosse riuscito a procurarsi tutte le attrezzature necessarie, sarebbe poi occorso ottenere il software indispensabile per far sì che gli impianti acquistati funzionassero correttamente e soprattutto potessero reperire le informazioni che interessavano a lui, scartando il superfluo. Qui veniva il bello, le autorizzazioni alla vendita dell’hardware e del software, potevano venire solo da poche persone, in primis dal Presidente degli Stati Uniti ed il signor Clinton, oltre a non conoscere i Demattei ed i loro problemi, aveva dato disposizioni alla CIA ed all’FBI affinché fosse data tutta l’assistenza necessaria alla magistratura italiana per proseguire “mani pulite”, cioè era alleato ai nemici di Roberto.
- Sei arrivato giusto a tempo da Londra per assistere al gran botto finale, potevi restartene sotto in Big Ben ancora per qualche mese, le acque debbono ancora calmarsi – gli disse Matteo
- Matteo, Le acque non si calmeranno tanto facilmente, non mi stanco mai di ripeterlo a mio fratello, ora lo dico anche a te. Perché si calmino occorrerà… diciamo così, forzare un poco gli avvenimenti; detto in parole povere: se i giudici scoprono qualcosa su di noi, noi scopriremo qualcosa su di loro. Ricordati che il più pulito ha la rogna –
Matteo, come suo solito, incominciò a sghignazzare:
- Forse non ti sei ancora reso conto che negli ultimi mesi sono finiti in galera personaggi molto più potenti di te e di tuo fratello messi assieme. Cosa ti fa pensare d’essere più abile degli altri? –
- Semplice, gli altri finiti in galera, hanno ereditato dei quattrini, Roberto ed io, i quattrini li abbiamo fatti, ed anche tanti, se permetti! –
- Una ragione in più perché qualche giudice incominci a domandarsi in che modo li avete fatti in così breve tempo. Io vi ho conosciuti da vicino, so che non siete così farabutti come vi dipingono i vostri concorrenti. Soltanto un po’ mascalzoni, ecco tutto. Converrai però che a questo mondo, non tutti possono condividere con me il privilegio di conoscervi bene –
- Se anche la giustizia vorrà sapere in che modo siamo arrivati a tanto, non avranno che da domandarcelo. il modo migliore per non saperlo è quello di perquisirci l’azienda e le sue filiali tutti i santi giorni. Se mi conosci da vicino, come hai detto, dovresti ormai sapere che io non ho la pazienza di Roberto, m’incazzo facilmente, e quando sono incazzato divento anche più lucido e lungimirante, quindi, molto ma molto pericoloso –
Poi mostrando a Matteo la valigetta che s’era portato in ufficio:
- Qui dentro ho riposto i progetti e le modalità operative della centrale d’ascolto satellitare che tra qualche mese metterò in funzione. Ci lavoravo già da quando stavamo ancora a Londra. Lasciami fare ancora qualche telefonatina e qualche viaggetto qua e là e per la fine del ’93, al più tardi, gli inizi del 94, saremo in grado di sapere quanti starnuti farà il dottor Di Pietro nel suo ufficio – poi, con tono più suadente – …e credo proprio che non saranno soltanto starnuti quelli che conteremo –
- Se gli americani ti precluderanno l’accesso alle loro tecnologie più sofisticate, il tuo cosiddetto progetto resterà soltanto un bel sogno da megalomane, un sogno nel cassetto – poi, indicando valigetta – anzi, un sogno nella valigia –
- Gli americani le loro tecnologie me le venderanno, anzi, me le regaleranno, perché al presidente Clinton, tra non molto, converrà così –
- Addirittura tieni in pugno il nuovo presidente americano? Si vede che manchi da Milano da parecchio tempo. Ti ricordi, per caso, come li chiamano da queste parti quelli come te? –
- Se rammento bene: bauscia – rispose Gianmarco ridendo – Comunque ricordati che a Londra, in poco tempo sono riuscito ad ingraziarmi la signora Thatcher. Alcuni conoscenti americani, mi hanno raccontato alcune cosette interessanti sulle abitudini private di Mister President e della nuova First Lady, cosette che ci torneranno utili, quando dovremo chieder loro qualche favore –
- Lady Thatcher, l’hai “sedotta” dieci anni fa, quando tu e tuo fratello avevate il vento in poppa, ora soffia in tutt’altra direzione –
- In politica, come ci ha insegnato il buon Nicolò, il vento soffia dove vuole il principe, se il principe è uomo capace, dammi ancora qualche mese di tempo e te lo dimostrerò –
- Fosse solo questione di tempo…! - osservò sconsolato Matteo
- Il tempo e la libertà, mio caro bolscevico, sono state le uniche, vere materie prime a disposizione degli occidentali per vincere la “guerra fredda”, altro che petrolio, altro che acciaio, altro che missili; pensaci bene e ne converrai con me. A quanto vedo, hai perso un bel po’ della tua capacità di analisi, altrimenti ti saresti accorto che sto cercando di guadagnare tempo e di mantenere la libertà, almeno quella di manovra. Perderemo anche tutte le battaglie, alla fine vinceremo la guerra -
Matteo, in effetti, era preoccupato: lo capiva perché gli mancavano da parecchio tempo le sue battutine sarcastiche. Non avrebbe dovuto aspettare molto perché recuperasse il buonumore.


Londra non era più la stessa, almeno, agli occhi di un uomo che vi ha passato ininterrottamente quattordici anni della sua vita. Era la prima volta che ritornava da turista e non da londinese, sia pure d’adozione. Quella sera del luglio 1993, se tutto filava liscio, avrebbe incontrato un rappresentante della ditta americana produttrice di alcune apparecchiature indispensabili per realizzare il suo progetto. In una località nei pressi di Roma, sui Colli Albani, era in avanzato stato di allestimento una centrale d’ascolto munita d’una grossa antenna parabolica orientabile, in grado di captare i segnali da tutti i satelliti-spia americani che passavano o stazionavano sopra l’Italia. Un grosso elaboratore del tipo CRAY della IBM avrebbe analizzato le frequenze captate e le avrebbe passate ad altri computer più piccoli, ma specializzati nella decodificazione dei messaggi. Qui cominciavano i problemi: i messaggi radio li avrebbero potuti decodificare se quei computer di decodificazione li avesse avuti; per questo era a Londra, senza quegli apparecchi, avrebbe speso una montagna di quattrini inutilmente.
Successivamente avrebbe dovuto procurarsi il software ed i codici di accesso alle comunicazioni che interessavano a lui (non era necessario costituire una rete mondiale, che spiasse tutto lo scibile umano, com’era appunto il sistema Echelon), anche quello sarebbe stato un bel problema. Per fortuna, all’interno del servizio segreto inglese aveva conservato qualche buona amicizia (erano le stesse persone che l’avevano avvertito della droga nelle valige), per il resto doveva ottenere il via libera dalla CIA e quest’ultima non avrebbe mollato nessun segreto se non dietro autorizzazione del Presidente degli Stati Uniti.
Come aprì la porta d’ingresso del suo vecchio appartamento di Coleherne Court, percepì uno strano odore, l’odore di tutti gli appartamenti quando restano chiusi e disabitati per qualche tempo. Non aveva voluto venderlo e neppure affittarlo. Almeno una volta ogni quindici giorni, un’addetta alle pulizie veniva a togliere la polvere, ma poteva darsi che qualcuno, un po’ troppo curioso, vi avesse depositato qualche altro genere di “regalino”; ad ogni modo, in quella casa, vi ritornava per motivi sentimentali, non certo perché avesse segreti da custodirvi. Non era proprio sicuro che l’emissario con il quale avrebbe preso contatti si sarebbe presentato quella sera stessa o l’indomani, quando arrivava arrivava. Andò in salotto e si sedette sul sofà, incominciò a fissare il soffitto, nella sua solita espressione pensosa.
Come già qualcun altro aveva notato, quello era lo stato in cui Gianmarco diventava più pericoloso, per sé e per altri, così fu anche quella volta. Tanto per incominciare avrebbe fatto una visitina a Diana.


Diana, come se quei pochi mesi di separazione dal marito l’avessero ringiovanita, sembrava diventata più bella. Le profonde occhiaie cerchiate di nero erano finalmente sparite, il viso aveva riacquistato una rotondità ed una levigatezza delle quali Gianmarco e tutti coloro che la conoscevano bene, avevano perduto persino la memoria.
– Che bella sorpresa! – Esclamò la Principessa di Galles, aprendogli la porta del suo appartamento di Kensington Palace.
– Sono venuto a Londra per affari, non ho resistito alla tentazione –
– Ah, perché io sarei soltanto una tentazione subito dopo gli affari? – gli domandò lei con tono offeso – Già in questi ultimi mesi ti sei guardato bene dal telefonarmi anche soltanto per dirmi… come dite voi italiani?… Ah sì: ciauu o ciaoo, ed ora, capiti a Londra e per avvisarmi del tuo arrivo vai al “San Lorenzo” e mi fai telefonare qui da Mara Berni, ora entri dalla porta di servizio, neanche dovessi compiere un furto. Se sei arrabbiato con me o con il mondo intero, non hai che da dirlo –
– Non sono arrabbiato con nessuno, almeno qui a Londra, ma in questi ultimi tempi sono diventato prudente come una serpe, anzi, un serpente lo sono diventato a tutti gli effetti: ormai quando bacio mordo e se mordo avveleno –
Lo sguardo di Diana s’addolcì all’improvviso, lo prese per mano e dall’atrio dell’appartamento lo trascinò nella sala degli ospiti. Su di un tavolino, davanti al solito divano, un secchiello pieno di ghiaccio, nel ghiaccio una bottiglia di champagne d’annata, Diana gl’indicò lo spumante:
- Aprila tu quella bottiglia, quando Mara m’ha telefonato, quasi quasi non volevo crederle, così sei ritornato? Per quanto tempo? Perché non ti sei più fatto vivo? – Poi, passandogli una mano tra i capelli – Che ti hanno fatto? Eppure, dall’ultima volta che ci siamo visti sono passati…quattro mesi, sembra un secolo! –
Gianmarco abbassò lo sguardo, non voleva renderla partecipe delle sue preoccupazioni: c’era il rischio di farle condividere anche i suoi guai, perciò rimase muto, fissando il pavimento e i piedi della principessa; lei continuava ad accarezzargli la testa:
- Ecco cosa non andava! Mio Dio! Quanti capelli grigi e li stai pure perdendo. Ti ripeto la domanda: che ti hanno fatto in Italia? –
- Qualche dispettuccio – si decise a rispondere – e non hanno ancora finito, ma ora mi sto preparando a ricambiare la cortesia. Non farmi dire di più –
- Non hai detto di essere venuto qua per affari? –
- Anche le vendette sono affari, nella mia posizione –
- Capisco. Ho saputo dell’accoglienza che ti hanno fatto all’aeroporto di Milano. Che figli di…! – Dopo essersi guardata in giro, Diana gli s’avvicinò ancora di più: - Quella droga – sussurrò – te l’hanno messa in valigia qui a Londra. Tempo fa, hanno fatto la stessa cosa ad alcuni miei amici, non mi meraviglierei se un giorno o l’altro lo facessero anche con me –
- Cara principessa, ormai non devi meravigliarti più di niente. Chi ci vuol male pagherà tutto con gli interessi. Questo è diventato il mio assillo degli ultimi mesi. Poco prima di ritornare in Italia, già sapevo quello cui sarei andato incontro, ma quanto ho trovato supera ogni mia più fosca previsione; per questo non ti ho neppure inviato un biglietto d’auguri né ti ho telefonato di persona. Se tu restassi coinvolta nelle vicende mie e della mia famiglia, avresti tanti di quei guai tra capo e collo da farti rimpiangere quelli che hai già ora –
A questo punto, anche Diana abbassò la testa e rimase zitta per qualche secondo:
- Posso fare qualcosa per aiutarvi? –
- Guarda principessa che, a suo tempo, l’aiuto l’ho promesso io a te, non il contrario. Limitati per ora a fare il tifo per noi Demattei, non è ancora detta l’ultima parola. Chi ci crede chiusi in un angolo dovrà ricredersi, tra non molto. Tu piuttosto, come va la Principessa di Galles nella nuova versione single? –
- Molto meglio di quella tipo “suppellettile di proprietà della famiglia Windsor”. La gente è sempre con me, anzi, ora più m’insultano i leccapiedi di Carlo, più io divento popolare. Forse sarà il caso che mi faccia qualche nuovo nemico? – si domandò divertita.
- Quelli che ti ritrovi ora bastano ed avanzano. Facciamo onore allo champagne, piuttosto! Se aspettiamo ancora a berlo diventerà caldo. Non so però a cosa brindare, se ripenso ai miei problemi…! –
- Io un’idea l’avrei - suggerì Diana dopo che la bottiglia fu stappata ed i bicchieri riempiti - Che ne dici di: “Ai nemici di oggi ed a quelli di domani”? –
- Giusto! – osservò Gianmarco, dopo averci pensato per un momento – Con l’augurio che diventino sempre più numerosi! –
- Sei proprio sicuro di non aver bisogno del mio aiuto? – domandò lei, dopo il primo sorso di champagne – Almeno fino ad oggi, in questo Paese, mi chiamano con qualche ragione “Altezza Reale”. Se posso farti qualche favore –
La guardò negli occhi:
- Mi faresti da intermediaria per un acquisto? – domandò
- Cosa devi acquistare, una bomba atomica? Considerati già una potenza nucleare, sempre che tu abbia i soldi per pagarla –
- Non proprio un’atomica, ma ci sei andata vicino; è un po’ complicato da spiegare, ma ci proverò! –
Gianmarco pensò che, tutto sommato, Diana oltre che principessa era anche una bella donna ed alle belle donne gli americani difficilmente avrebbero detto di no.


- Domani, 12 gennaio 1994, comparirà l’ultimo articolo a mia firma sul “Giornale”, questo tuo fratello me lo deve. Altrimenti dovrò credere che tra lui e la Giulia Maria Crespi del “Corriere della Sera” di vent’anni fa, non c’è mai stata molta differenza! – disse Montanelli, con voce cavernosa.
- Non ha neppure bisogno di chiederlo, signor direttore. Il paragone, offenderebbe non solo mio fratello, ma anche me – rispose Gianmarco.
Cercò lo sguardo del suo ex direttore, ma Montanelli stava con gli occhi bassi; chissà a cosa stava pensando? Forse al nuovo quotidiano che aveva già in mente di fondare, in concorrenza con il “Giornale”. Quell’ufficio dov’erano, per vent’anni era stata la tolda della nave da guerra che Montanelli aveva varato e comandato fino a quel momento. Ora, la nave da guerra stava affondando ed il vecchio comandante si apprestava ad abbandonarla, assieme ad alcuni redattori. “Il vecchio ammiraglio” Montanelli ed il “killer”, mandato per rimuoverlo prima che facesse altri danni, si stavano fronteggiando per l’ultima volta.
- Io non sono più il direttore di questo giornale, piccolo Demattei, due ore fa ho inviato le mie dimissioni al presidente della società editrice –
- Perché? Diavolo! Mi dica perché! –
- Perché tuo fratello, con il suo massiccio e rumoroso intervento nell’arena elettorale non gioverà, secondo me, né alla causa per la quale lui pensa di battersi, e di cui temo frazionerà ancora di più le forze, né per i suoi propri interessi. I fatti diranno se avrò ragione o torto. Se avrò avuto torto, lo riconoscerò lealmente. Se avrò invece ragione, fingerò d’essermene dimenticato –
- Una risposta alla Indro Montanelli – Ironizzò Gianmarco – Lei non sarebbe disposto a riconoscere i suoi torti neppure davanti al Padreterno, così anche le ragioni di mio fratello e dei milioni di persone che voteranno per lui –
- Poiché dovrò farlo dalle colonne del giornale che mi accingo a fondare e a dirigere: “La Voce”, ti invito fin d’ora ad abbonartene, così lo potrai vedere con i tuoi occhi –
- Già, “La Voce” di Prezzolini, il padre della cultura italiana del novecento. E’ proprio sicuro di esserne l’erede? E’ un vero peccato che Prezzolini sia morto dieci anni fa, penso proprio che avrebbe parecchie cose da contestarle, se sapesse che vuole resuscitare la sua rivista –
- Cosa ne sai! Tu al suo confronto non sei altro che un mocciosetto ricco e viziato –
- Magari anche ignorante…orsù! Lo dica signor direttore, io mica mi offendo. Non ho passato quel che ha passato lei, questo è certo, ma almeno se Roberto ed io saremo sconfitti, non potremo certo saltare sul carro del vincitore, continueremo a batterci. Sono nato ricco, ma, ne sono sicuro, saprò anche starmene chiuso in una cella a San Vittore. E sarò testimone di libertà anche in una prigione –
Montanelli sorrise, Gianmarco notò che gli ballava la dentiera:
- Non dire fesserie, piccolo Demattei. Io a San Vittore ci sono stato ospite cinquant’anni fa…e non di Di Pietro, ma della Ghestapo. I prigionieri, allora, quando uscivano dalle celle, finivano sotto tortura, oppure davanti ad un plotone d’esecuzione –
- Mentre lei da San Vittore è uscito vivo: “Qui non riposano”, così titolò le sue memorie di ex fascista in carcere, riciclatosi alla causa della democrazia. Ora lei vuole testimoniare con “La Voce” il suo nuovo “salto della quaglia”: Da Roberto Demattei e da Craxi ad Antonio Di Pietro e a tutti quelli che da qualche mese sono saltati sul carro di Mani Pulite. Complimenti, s’è già guadagnato dei nuovi galloni di antemarcia! –
Montanelli non s’arrabbiò, come invece temette, per un momento, Gianmarco:
- Ti prego, ti prego: chi vivrà vedrà. Sto per compiere ottantacinque anni, ma credo proprio che anch’io farò in tempo a vedere la fine del tunnel che stiamo attraversando tutti. Lo vedrò come direttore di un altro giornale. Qui finisce la nostra collaborazione, anzi, la nostra avventura, come direbbe tuo fratello. Ti prego di scusarmi se ti ho chiamato moccioso. Ogni generazione ha le sue croci da portare, la mia ne ha già portate troppe, spero proprio che la tua non ne porti per niente. Ti ricordo che fino a questa sera resterò il direttore di questo giornale. Buona fortuna, Gianmarco Demattei! –
Il gran vecchio si alzò e gli allungò la mano, come aveva fatto sedici anni prima, quando si conobbero a casa di Roberto. Quello però era un congedo. Gianmarco, stringendogliela, si sentì un verme: stava dando il benservito a suo “padre”. In quel momento, finiva davvero una parte della sua vita. Il quarantaquattrenne Gianmarco Demattei avrebbe dovuto decidersi a diventare adulto.

L’automobile si fermò davanti alla palazzina prefabbricata, Gianmarco si precipitò ad aprirne la portiera. Ne discesero Roberto e Fedele Landolfi. Dopo i brevissimi convenevoli, Roberto alzò lo sguardo verso la costruzione, non era niente di particolarmente pretenzioso, anzi, decisamente brutta: un parallelepipedo costruito in fretta e furia con pannelli in calcestruzzo precompresso a vista, due piani più il pianterreno. Una fila di finestre a tenuta stagna stavano ad indicare che in quello scatolone vivevano e lavoravano degli esseri umani, non era certo adibito a magazzino. Due grandi antenne spuntavano nei pressi della costruzione. La prima, a traliccio, era collocata sul tetto piatto della palazzina. Quattro cavi d’acciaio partivano dalla cima e andavano ad ancorarsi al terreno, affinché non oscillasse troppo quando soffiava il vento. La seconda antenna era del tipo parabolico: un grosso ombrello capovolto del diametro di otto metri. Se l’antenna a traliccio segnalava la presenza d’un normalissimo ripetitore televisivo, quale era, l’antenna parabolica, orientata allo zenit, per un occhio appena esperto, significava una cosa soltanto: comunicazioni satellitari.
Gianmarco, per la prima volta dopo parecchi mesi, si sentiva realizzato, le inquietudini e le paure erano dimenticate, almeno per quel giorno. Indicò l’antenna parabolica al fratello:
- Che ne dici? –
- La palazzina, architettonicamente parlando, è una vera schifezza, quasi mi vergogno d’esserne il proprietario, anche se in segreto; per quanto riguarda il resto, sto aspettando tu mi spieghi il funzionamento di questa baracca. Tu e la tua mania per la segretezza, mi rivelerai finalmente come hai speso i miei soldi –
- Se di questa baracca, ne fosse stata rivelata l’esistenza quand’era ancora in costruzione, sarebbero stati guai seri per tutti noi, ora che è entrata almeno parzialmente in funzione, anche se i nostri amici di mani pulite ne scoprissero le vere finalità, non potrebbero farci più nulla – rispose Gianmarco gongolante.
- Perché? – Domandò sospettoso Roberto.
- Qualche giorno fa, quando abbiamo acceso il decodificatore per collaudare il sistema in tutti i suoi componenti, per prima cosa sono andato a curiosare tra le linee della SIP; precisamente in quelle linee che trasmettono quasi quotidianamente i dati ai computer delle banche svizzere. Sono riuscito ad inserirmi in alcuni dei loro files ed a scovare una decina di conti correnti presso l’UBS, Union des Banques Suisses. Tutti questi conti, sono intestati a parenti di altrettanti giudici di mani pulite, proprio di quelli che più ci martellano: altro che Diego Curtò! Quelli sono già miliardari, alla faccia nostra –
Sulla faccia del fratello, invece, era comparsa una smorfia d’incredulità. Era troppo bello per essere vero.
- Sei sicuro di quello che dici? Non è che in questi otto mesi di lavoro massacrante, alla fine… hai finito per confondere i tuoi desideri con la realtà? –
- Mi stai dando dello svitato, caro fratellino? – domandò a sua volta Gianmarco, neanche tanto offeso – Sappi allora, che quei files li ho fatti stampare e ne ho già inviato le fotocopie ai magistrati titolari dei conti correnti in questione. Naturalmente sotto forma di lettere anonime, così, tanto per avvertirli! –
- Tu sei proprio matto! Quella inglese ti deve aver definitivamente fuso il cervello –
- Quella inglese, se lo vuoi proprio sapere, per la prima volta in vita sua, mi ha aiutato a venir fuori dei guai. Dal momento che alcune componenti elettroniche essenziali per far funzionare la nostra stazione, erano coperte da segreto militare, con un po’ di moine e con qualche sbattimento di ciglia, è riuscita a persuadere alcuni suoi connazionali, a vendermele ugualmente. Che ne dici ora di «quella inglese»? –
- Davvero? – domandò Roberto divertito – ma… sei sicuro che Diana…si sia soltanto limitata a sbattere le ciglia, o piuttosto, non abbia sbattuto anche qualcos’altro? –
Questa volta Gianmarco divenne rosso dalla rabbia:
- Adesso diventiamo anche volgari? Credi d’essere spiritoso?–
- Non mettiamoci a litigare proprio ora, mostrami piuttosto come funziona quest’aggeggio –
Ancora seccato da quel battibecco, Gianmarco guidò il fratello e Fedele Landolfi all’interno della palazzina. Al piano terreno si trovavano le apparecchiature di ricezione e ritrasmissione dei segnali TV amplificati.
- Come puoi vedere, in questa sezione si lavora, per così dire alla luce del sole. L’antenna parabolica, stando a quello che abbiamo dichiarato ufficialmente, serve a captare, via satellite, le trasmissioni televisive dagli Stati Uniti e da qui le trasmettiamo in tutta l'Italia, tramite la rete della RDC. Quel che pochissimi sanno, anche tra chi lavora qui dentro, è che captiamo anche i segnali dai satelliti-spia lanciati dagli americani. Siccome i segnali dei satelliti-spia, possono essere ricevuti soltanto dopo aver scoperto su quale lunghezza d’onda trasmettono e la lunghezza d’onda varia in continuazione, per la cronaca, anche un centinaio di volte il secondo, occorrerà quindi sincronizzare i nostri apparati riceventi sulla variazione d’onda continua di quelli trasmittenti. Solo così riusciremo a ricevere qualcosa che assomigli ad un segnale completo –
Gianmarco guardò il fratello negli occhi, capì che aveva capito poco o niente, idem per Fedele Landolfi.
- Per potersi sincronizzare su di un satellite-spia – proseguì Gianmarco – occorre, come vi dicevo, scoprire la sequenza delle lunghezze d’onda con le quali trasmette. Sarebbe come se un radiotelegrafista pazzo, trasmettesse un SOS e contemporaneamente girasse la manopola della sintonia della sua radio a grande velocità, cambiando lunghezza d’onda di trasmissione cento volte il secondo. Chi ricevesse questo messaggio, potrebbe captare l’SOS solamente se girasse la manopola della sua sintonia allo stesso modo di chi trasmette, altrimenti ne riceverebbe solamente una frazione infinitesimale –
- Come la combinazione d’una cassaforte? – domandò Fedele Landolfi
- Pressappoco – confermò Gianmarco – Una cassaforte che per essere aperta, richiedesse una combinazione di cento numeri al secondo. Sempre che tu la conosca, questa combinazione. Se volete seguirmi all’interno del fabbricato, vi mostrerò come otteniamo questo risultato –
Gianmarco guidò i due ospiti lungo un corridoio, si fermò davanti ad una porta blindata, estrasse una chiave dalla tasca, e l’aprì. Fece cenno ai due di precederlo. All’interno della stanza, un cubo metallico di cinque metri per lato ne occupava quasi tutta la superficie, dalla macchina un ronzio continuo e fastidioso.
- Signori, vi presento un esemplare, perfettamente funzionante, di supercomputer IBM modello CRAY. A tutt’oggi, l’unico in Italia. Fino a pochi mesi fa, era di proprietà della FIAT, l’avevano acquistato nell’88 in America. Dopo averlo messo in funzione ed averci speso una barca di quattrini, si sono accorti che a loro non serviva a niente. Il gingillo è infatti stato concepito per calcolare le rotte dei missili balistici intercontinentali, per le «guerre stellari» di Reagan, tanto per spiegarci meglio; per calcolare i bilanci della FIAT, bastano ed avanzano i computer che hanno già. Perciò, l’hanno venduto a noi a prezzo di saldo, purché lo portassimo via subito, prima cioè che gli azionisti minori della FIAT incominciassero a fare domande imbarazzanti. Quasi, abbiamo speso di più a trasportarlo fino a qui che ad acquistarlo –
- E noi che ne facciamo? – Domandò Fedele.
- Nel romanzo «Jurassic Park», l’autore Michael Crichton, fa usare questo stesso tipo di computer per scoprire la sequenza del DNA dei dinosauri e poterli quindi riprodurre. Noi, più modestamente, ci accontentiamo di scoprire la sequenza delle frequenze dei satelliti-spia. Questo aggeggio, può provare migliaia e migliaia di combinazioni ad ogni secondo, finché non trova quella giusta. Per scoprire la sequenza di trasmissione di un satellite, ci impiega mezza giornata, e non sempre ci riesce in tempo utile. Poiché tutti i satelliti cambiano anche le sequenze di trasmissione almeno un paio di volte al giorno, il nostro cervellone è sempre impegnato a comporre qualche puzzle –
- Se ho ben capito – domandò Roberto – Con questo sistema possiamo accedere a tutte le trasmissioni riservate dei satelliti-spia americani? –
- A tutte no, soltanto a quelle dei satelliti che sorvolano l’Italia. Ma anche decifrando la sequenza delle lunghezze d’onda non abbiamo per niente finito di lavorare. Le trasmissioni più interessanti, sono ulteriormente codificate dagli utenti cui vengono carpite, per cui, una volta ricostruito il messaggio per intero, ci troviamo alle prese con una serie di parole, di numeri o di suoni senza alcun significato. Occorrerà passare il messaggio ad un’altra serie di computer più piccoli, che si trovano ai piani superiori, affinché diventi comprensibile. Infine, tra le migliaia di dati «in chiaro», per trovare le informazioni che ci riguardano, dobbiamo dare alcuni parametri alle macchine, per esempio: chiedere al computer quante volte trova il nome di Roberto Demattei, oppure la sigla RDC, oppure l’indirizzo della sede della RDC od anche i nostri numeri telefonici, o il nome di qualche nostro dipendente o il mio. Stiamo ancora lavorando alla definizione di questi parametri. Comunque, come ti dicevo poc’anzi, pur funzionando a regime completo solo da qualche giorno, abbiamo scoperto alcune cosette interessanti –
- Avevi chiesto al computer cosa sapesse di me? – Domandò suo fratello
- No, gli ho chiesto cosa sapesse di …Antonio Di Pietro e di tutto il pool di mani pulite. Capirai se perdiamo tempo a solleticare la tua vanagloria! –
- Il personale che lavora qui dentro…è fidato? – s’informò Fedele.
- In questo complesso lavorano trentadue persone, trentaquattro con me e Matteo, di queste soltanto dieci sono al corrente di svolgere un lavoro di controspionaggio, gli altri hanno un accesso limitato alle informazioni che trattano. Data la complessità e la sofisticazione dell’apparato, credono di lavorare per captare in diretta dall’America, le avventure di J.R. Hewing di «Dallas» –
- Ora lo sappiamo anche noi due. Quattordici persone in tutto, troppe per mantenere a lungo un segreto - osservò Roberto.
- E’ vero! – ammise Gianmarco – Ma a parte il fatto che rivelare a te un segreto, sarebbe come gridarlo in mezzo a Piazza del Duomo, è anche vero che è ormai troppo tardi per fermarci. Ti faccio notare che noi qui non stiamo facendo alcunché d'illegale; infatti, captiamo delle trasmissioni da satelliti lanciati e gestiti da un paese straniero, per di più nostro alleato da cinquant’anni… – poi, abbassando la voce –…col permesso della CIA, loro infatti ci hanno rivelato una parte dei codici dei messaggi cifrati. Se dovessimo decodificarli tutti con i nostri computer, le informazioni non potrebbero sempre arrivarci con tempestività: chiuderemmo la stalla dopo che i buoi sono scappati –
- La CIA ha fatto…il doppio gioco? – Domandò Roberto incredulo.
- Come tutti i servizi segreti, giocano sempre su due tavoli, se perdono da una parte, vincono dall’altra e viceversa. Nel nostro caso, danno informazioni alle procure anche sui nostri affari, poi vengono a riferirci che genere d’informazioni hanno dato a Di Pietro e soci. Veramente geniale la tua idea di fondare un partito e presentarti alle prossime elezioni. Da quando hai annunciato la tua discesa in campo, la CIA ed il Dipartimento di Stato americano, fanno a gara ad offrirci il loro aiuto, come del resto hanno già fatto con quelli di mani pulite. Tu per loro, sei ormai un soggetto politico, non più un imprenditore –
Roberto sfoderò uno dei suoi sorrisi da un orecchio all’altro:
- Allora è proprio vero che il «vecchio leone», ogni tanto ha una pensata di quelle giuste! –
- L’hai detto: «ogni tanto» – osservò Gianmarco – Ora se permetti, ti mostrerò il resto del complesso, la parte più segreta, quei reparti dove si lavora «sul serio» –
I reparti dove si lavorava «sul serio», si trovavano nei due piani superiori dell’edificio: all’interno di questi, una fila di computer e di stampanti ronzavano a tutto spiano. Poche persone lavoravano attorno ad essi, tutto personale altamente specializzato e….tutti stranieri, americani, inglesi ed un giapponese, i quali neppure conoscevano la lingua italiana: per mettere in sequenza logica una fila di numeri, lo si può fare in qualunque lingua.
Nell’ultima stanza al secondo piano, l’ufficio di Gianmarco e Matteo, due piccole scrivanie e due terminali: il vertice di quella piramide, là dove affluivano tutti i messaggi captati dai satelliti e filtrati dai computer.
- Novità Matteo? – domandò Gianmarco al suo factotum, seduto davanti ad uno di quei terminali.
- Tieniti forte, un avviso a comparire dalla procura di Milano, in arrivo proprio per te. Dovresti riceverlo tra un paio di giorni. Devi presentarti a Di Pietro venerdì prossimo –
- M…Ma come! – balbettò Roberto, entrato in quell’ufficio insieme al fratello ed a Fedele Landolfi – Siete riusciti ad infilare il vostro naso elettronico anche nell’ufficio postale della procura di Milano?–
- Abbiamo fatto di meglio – esclamò gaiamente Gianmarco, come se quella brutta notizia non lo riguardasse neppure – Da qualche ora, ve lo dico adesso, la procura di Milano è per noi come un libro aperto. Il signor Di Pietro, qualche tempo fa, ha avuto la brillante idea di «informatizzare» tutti gli uffici del palazzo di giustizia: è stato un errore madornale. Un computer, è per antonomasia, l’archivista più tonto e indiscreto che esista al mondo: dategli un collegamento con l’esterno e lui spiffererà tutto quel che ha in memoria al primo estraneo che riuscirà a scoprirne i codici. Inoltre, Di Pietro ha fatto in modo che l’appalto per l’assegnazione di un lavoro tanto delicato, fosse assegnato ad una ditta di suoi compaesani. Ora se ne vedono i frutti: i satelliti di Echelon, già da tempo hanno fatto “saltare” tutto il loro sistema di sicurezza informatica e noi, come vi ho testé spiegato, spiamo a nostra volta i satelliti-spia. E’ stato quindi un gioco da ragazzi introdursi nel sancta-sanctorum di mani pulite – poi, rivolto a Matteo – Dicevi? Un avviso a comparire per me? –
Matteo gli mostrò il video del suo terminale: era riprodotta una lettera della Procura di Milano che invitava il dottor Gianmarco Demattei a presentarsi in Procura il venerdì successivo, accompagnato dal suo avvocato di fiducia, come persona informata dei fatti.
- Quali sono i capi d’imputazione? – Domandò Roberto.
- Si tratta di un avviso a comparire, non di un avviso di garanzia, potrei essere solamente chiamato a testimoniare. Ad ogni buon conto, come tutti sappiamo, il dottor Di Pietro è solito fare di questi scherzetti alle persone che indaga: le convoca per un colloquio, le interroga, contesta loro un reato anche di poco conto, quindi le fa arrestare… - si interruppe per guardare il calendario appeso ad una parete – venerdì pomeriggio… se venissi arrestato quel giorno, passerei in cella il sabato e la domenica, dopodiché sarei interrogato, con tutto comodo, il lunedì successivo. Tre giorni di carcere per «ammorbidirmi», un vecchio trucco per far cantare le persone poco abituate a frequentare le patrie galere… Non c’è un minuto da perdere! Matteo, dovremmo riuscire a scovare anche i verbali delle indagini, se siamo riusciti a pescare nell’archivio della posta in partenza, non sarà molto più difficile andare a «rovistare» negli atti giudiziari in corso. Almeno saprò di che male dovrò morire –
- Non sembri molto preoccupato – osservò Fedele Landolfi – corri il rischio di passare questo week-end in prigione e sei quasi euforico! Pensa piuttosto a chiamare un buon avvocato -
- Caro Fedelino! Ho ben altro da pensare che regalare i miei soldi a qualche avvocato. Ho già speso una marea di quattrini per questa baracca, lasciami almeno l’illusione di averli spesi bene –
Si sedette alla sua scrivania, mentre i due illustri ospiti se ne stavano in piedi in mezzo all’ufficio. Quello che era diventato, di fatto, il capo della RDC si girò verso la parete alle sue spalle ed aprì uno sportellino blindato incastonato nel muro, ne estrasse una videocassetta. Agitò la scatola di plastica davanti agli occhi del fratello:
- Come vedrai tra poco, anch’io sono diventato produttore di filmati televisivi…di un genere un po’ particolare! –
Uscendo fischiettando dal suo ufficio, andò ad un videoregistratore appena fuori dalla porta, infilò la cassetta nella fessura ed avviò l’apparecchio.
- Il mese scorso, quando stavamo compiendo i primi collaudi dell’antenna parabolica, siamo riusciti a sintonizzarci sulla frequenza usata dall’azienda telefonica svizzera per trasmettere le immagini via cavo delle telecamere di sicurezza poste all’interno di molte banche. Fin qui nulla di strano, si tratta infatti di un normale dispositivo che trasmette «in chiaro», collegato via linea telefonica con la polizia, per prevenire e filmare eventuali rapine. State a vedere cosa ci è capitato di filmare presso lo sportello di una banca denominata «Karfinco», di proprietà d’un banchiere italo-svizzero di nome Pierfrancesco Pacini-Battaglia, già inquisito e interrogato dalla procura di Milano proprio il mese scorso –
Nel filmato si vedeva l’atrio di una banca ed un normale andirivieni di clienti. Ad un certo punto, si scorse una donna entrare, rivolgersi ad un impiegato ed attendere nell’atrio mentre l’impiegato scompariva dalla visuale ed andava evidentemente a chiamare qualcuno di cui aveva chiesto la signora. Il filmato saltava di qualche minuto, nell’inquadratura successiva si vedeva la donna mentre salutava cordialmente un uomo sulla sessantina, la donna gli consegnava un plico e l’uomo, lestamente metteva nelle mani della signora una busta. Dopo aver scambiato brevi parole, i due si salutarono, dopodiché la donna uscì dalla banca. Fine della trasmissione, il tutto era durato meno di dieci minuti.
- La donna del filmato è Adriana Mazzoleni, moglie di Antonio Di Pietro. Il signore calvo che vediamo parlare con lei è il titolare della banca, Pierfrancesco Pacini-Battaglia, per gli amici: Chicchi… E questa… - così dicendo mostrò loro la fotocopia di una contabile bancaria - …è la fotocopia del documento chiuso in quella busta che il signor Pacini-Battaglia ha dato alla moglie di Di Pietro. Si tratta di un certificato di accreditamento… per parecchi soldi –
Gianmarco, con un sorrisetto compiaciuto guardò suo fratello e Fedele Landolfi.
- Ora, di questo filmato ne farò una copia e la consegnerò a voi due, se venerdì mi arrestassero, sapete cosa farne, dopotutto gestite un impero televisivo; quanto alle fotocopie della contabile ne avrò già fatte un centinaio. Con la cassetta e la contabile andrò a quel colloquio da Di Pietro e senza l’accompagnamento di avvocati. Voglio proprio vedere se con me alzerà troppo la voce, dopo che glieli avrò posati sulla scrivania, prima ancora d’incominciare a parlare, come in altre circostanze, avevo fatto nientemeno che con la signora Thatcher –
Roberto rimase pensieroso per qualche secondo, sembrava davvero spaventato:
- Questa… è una guerra! – mormorò
- Non te n’eri ancora accorto? – Domandò Gianmarco – hai avuto più di un anno di tempo per pensarci. Mani pulite è partita come un tentativo di golpe; una volta che fallirà il golpe, com’è successo altrove, finirà con una guerra civile. A noi ora il compito di fermare l’uno e l’altra – quindi, ritornato serio all’improvviso, soggiunse - Ma t’avverto: rischieremo pur sempre di romperci la testa! –
- Non temere - esclamò Roberto – Da quando è scoppiata «Mani pulite» la testa io me la sono già fasciata per benino. A proposito! Questa stazione l’hai voluta chiamare con una sigla: «DH», cosa significa? –
- Due parole inglesi: «Devil’s horn», le corna del diavolo –
- Perché? –
Gianmarco si strinse nelle spalle:
- Ricordi di gioventù… –

I cronisti che bivaccavano nel corridoio della Procura di Milano sapevano che le urla provenienti dall’ufficio di Antonio Di Pietro erano un “buon segno”. Al palazzo di Giustizia di Milano c’era la folla di giornalisti delle grandi occasioni; quella, per intendersi, che aveva preceduto gli arresti dei big della politica e dell’economia. I redattori di “Repubblica” poi, erano gongolanti: erano due anni che sognavano di vedere un Demattei in manette, forse tra breve i loro desideri si sarebbero avverati.
Gli strepiti che si udivano nell’ufficio del sostituto procuratore più famoso d’Italia, non appartenevano però alla voce tenorile della «madonna», ma a quella dell’interrogato: il dottor Gianmarco Demattei. Quest’ultimo, la stessa sera, a causa di quella performance da urlatore, avrebbe dovuto sottoporsi a inalazioni per un’infiammazione alla laringe, non essendo abituato a gridare in quel modo:
«…Corruzione…omissione di atti d’ufficio…mazzette… conti in Svizzera…»
Gli spezzoni di frasi che si udivano erano, infatti, tipici del repertorio collaudato di mani pulite, ma, la vera novità, si udiva una voce diversa da quella di Di Pietro. Anche i poliziotti che avrebbero dovuto «menarlo via» non si vedevano ancora: il fratello di «Dentiera elettrica» stava forse facendo il duro? Qualcosa, come s’è detto, non funzionava alla solita maniera.
- Come mai a gridare queste cose è l’imputato? –
- I Demattei sono sempre stati dei grandi sbruffoni. Il più giovane di loro, da questo punto di vista, è anche il peggiore, un vero figlio di buona donna. Vedrai però, che alla fine crollerà anche lui – rispose un cronista della «Repubblica», che evidentemente la sapeva lunga.
Le ultime parole famose. D’un tratto, tutti captarono distintamente questa frase:
- …Vi manderò in galera entrambi: lei e sua moglie…- poi, ancora - …Prima però vi faccio fare la figura dei coglioni in technicolor … -
Non c’erano più dubbi: le minacce erano rivolte a Di Pietro. Gianmarco Demattei non aveva moglie; inoltre, se si parlava di technicolor… c‘entravano il cinema o la televisione.
La porta dell’ufficio si aprì all’improvviso, quindi comparve LUI, «la madonna».
- Niente, Niente! Non ci sono novità – esclamò rivolto ai giornalisti.
- Come sarebbe a dire: niente? – domandò uno di questi.
- Il dottor Demattei è persona informata dei fatti, non è accusato di alcunché. Cos’avete capito? –
Alcuni di quei giornalisti però, il giorno precedente, avevano ricevuto un’informativa confidenziale, secondo la quale Gianmarco Demattei sarebbe stato arrestato subito dopo l’interrogatorio. Il giornalista di «Repubblica», aprì la bocca per dire qualche cosa, poi però ci ripensò e stette zitto. Pochi secondi dopo, comparve sulla soglia dell’ufficio anche Gianmarco che strinse la mano a Di Pietro:
- Arrivederci signor sostituto procuratore, spero d’essere stato esauriente! –
Mentre aspettava l’ascensore, il manager venne circondato dai reporter.
- Era lei che minacciava Di Pietro? –
- Naturalmente no. Per chi mi avete preso? Ho soltanto risposto ad alcune domande che il dottor Di Pietro mi aveva cortesemente rivolto –
- Abbiamo distintamente sentito… - esclamò uno dei giornalisti.
- Stava per caso origliando dietro l’uscio di un sostituto procuratore? Caro signore, sa cos’è un segreto istruttorio?-
- Correva voce che l’avrebbero arrestato – esclamò, senza tanti complimenti, un altro cronista.
- A lei chi l’ha detto? – domandò Gianmarco, entrando finalmente nell’ascensore – Me lo dica che lo denuncerò per calunnia –
Poco prima che le porte si richiudessero, Gianmarco fece in tempo a vedere la loro espressione delusa.
Pensare, che anni prima era stato un loro collega, e che quei corridoi, quand’era alle prime armi, anche lui li aveva percorsi alla ricerca di notizie, ma allora si trattava di notizie di pericolosi terroristi, non certo di “mazzettari”.
Tra pochi minuti sarebbe uscito da quel palazzo libero come l’aria. Il suo «giorno più lungo» era terminato. Se si pensava che tra meno di un mese si sarebbero svolte le elezioni politiche, con Roberto candidato premier: era stato davvero un miracolo, dati i tempi.
Un miracolo…del diavolo, o meglio, delle sue corna.
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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 8:38 pm

Capitolo XXI


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil18


IL TUNNEL







Certe funzioni in commemorazione dei defunti sono sempre state, almeno così Gianmarco pensava, un’autentica fiera delle vanità. Quella poi che si stava tenendo nel Duomo di Milano, in suffragio del povero Gianni Versace, era talmente di cattivo gusto, che se lo stilista avesse potuto vederla si sarebbe rivoltato nella tomba.
Per le loro esequie non avevano ottenuto il Duomo di Milano, neppure fior d'editori come Rizzoli e Mondadori, né industriali filantropi come Borletti o Falk e neppure, scusate se è poco, Giuseppe Verdi o Alessandro Manzoni.
Gianmarco, per quella specie di defilée, mascherato da funzione religiosa, non si sarebbe mosso neppure da casa, ma a quella Messa aveva voluto essere presente pure Diana, che, da Gianni Versace e da sua sorella Donatella aveva ricevuto parecchi attestati di stima, forse un poco ruffiani, ma che alla principessa avevano sempre fatto piacere. Versace l’aveva infatti definita la sua musa ispiratrice ed aveva disegnato per lei numerosi modelli esclusivi, altrettanto avevano fatto altri stilisti come Valentino, Dior, Krizia.
Infatti, in Duomo, in prima fila, si poteva notare tutto il Gotha dell’eleganza mondiale: da Ferrè a Missoni, top-model come Naomi Campbell e Carla Bruni, i cantanti Sting e l’onnipresente Elton John; in qualità di neo-sindaco di Milano, Gabriele Albertini (non ancora in mutande). Vestita in un tailleur nero, la Principessa di Galles, spiccava tra gli invitati per il suo ormai famoso caschetto biondo. Gianmarco la poteva scorgere davanti a lui, in mezzo ai convenuti.
Quello che era ormai da più di due anni il presidente della RDC, stava seduto negli ultimi banchi, tra i curiosi. Dietro lui, un nutrito pattugliamento di fotografi “free lance” e d’agenzia, colà convenuti per rubare qualche immagine fra tutto quel bendidio di VIP presenti alla cerimonia.
Il manager, uno degli uomini più potenti, ma anche discreti d’Italia, aspettava solamente che la cerimonia terminasse. Chissà se Diana gli avrebbe rivolto la parola, se si fossero incontrati, magari fuori del Duomo, sulla grande piazza antistante la basilica?
Ad aprile, avevano di nuovo litigato per telefono, una sfuriata in piena regola da parte di Gianmarco. Diana, pochi giorni prima era stata fotografata mentre usciva dal solito body building di Londra. La principessa doveva essere di cattivo umore, perché quella volta, non solo chiese al fotoreporter di consegnarle il rullino, non riuscendovi, chiamò in aiuto un passante. Quest’ultimo, senza tanti complimenti, sbatté il malcapitato contro un muro, gli torse il braccio dietro alla schiena, finché questi non mollò la macchina fotografica. Nel frattempo, un altro fotografo aveva, a sua volta, immortalato quella scena. Il giorno dopo, tutti i giornali avevano riportato le immagini dell’incidente. Diana non fece, in quell’occasione, una gran bella figura. Altre volte s’era comportata anche peggio, ma a quel poveraccio poteva almeno risparmiare un trattamento del genere.
- Almeno ritira la denuncia! –
- Non me lo sogno neppure, sono stufa di avere questo codazzo di fotografi tra i piedi. Non è possibile che per le cose più insignificanti, debba sempre trovarmi, in ogni momento, anche quando fai pipì, un imbecille che scatta fotografie –
- Te l’ho detto e lo ripeto: questa vita, la vita pubblica, tu l’hai scelta, nella buona come nella cattiva sorte. Se hai piacere che ti riprendano quando baci i malati di AIDS o incontri Madre Teresa di Calcutta, devi accettare che qualche reporter ti scatti delle foto, forse inutili, anche quando esci dal parrucchiere –
- Questo è tutto da dimostrare; sono quindici anni che debbo camminare per strada accompagnata dai “click” delle macchine fotografiche, è come uno stupro –
- Tu non hai idea di cosa sia uno stupro, cara principessa; cerca di moderare i termini, se non altro per rispetto alle donne che sono state veramente stuprate. Il fatto che tu, da qualche tempo, te la intenda con i quotidiani del gruppo Murdoch, non ti autorizza a trattare i fotoreporter come degli stuoini. Potrebbero ugualmente fartela pagare molto cara, come hai potuto imparare nel passato –
Poi aggiunse perentorio:
- Tu domani ritiri la denuncia e magari, a quattr’occhi, a quell’uomo gli chiederai anche scusa. Ho sottomano le foto di quell’incidente: hai una faccia orribile, sembri una pazza in preda ad una crisi, ma non ti pare d’esagerare? Dopotutto quel ragazzo stava facendo il suo lavoro –
- Il pazzo sei tu, io a quello faccio passare la voglia di maneggiare le pellicole, anzi, la prossima volta che me lo rivedo intorno, il teleobiettivo glielo faccio infilare nel c…-
- Non sarà invece perché quel giovanotto era un “free-lance”, quindi non apparteneva alle grandi agenzie fotografiche con le quali sei sotto contratto esclusivo? Ora stammi a sentire…-
- Stammi a sentire tu, mio bel manager immanicato con la stampa… Fuck You! –
E sbattè giù la cornetta.
- E tre! – mormorò – Ma almeno, quando ti manda a quel paese, potrebbe essere un tantino più fantasiosa, dovrebbe seguire un corso in Italia per gl’insulti –
Da allora, Diana non gli aveva più telefonato. Gianmarco, al solito, s’era interessato perché al fotoreporter fosse almeno rimborsata la macchina fotografica danneggiata, ma per la denuncia di Diana non aveva potuto far niente. La principessa si era decisa a pretendere che fosse imposto a quell’uomo, per ingiunzione del tribunale, di stare lontano da lei almeno cinquecento metri. Quando le fosse passata l’arrabbiatura avrebbero potuto ragionare.
Dopotutto a Diana, in quei quattro anni da quando lui aveva lasciato Londra, erano capitate infinite occasioni per passare guai seri, dai quali l’aveva sempre tirata fuori lui, con discrezione. Non c’era che l’imbarazzo della scelta.
Il racconto della relazione tra lei e James Hewitt: era riuscito a ritardarne la pubblicazione per tre anni. Il libro che raccontava della loro storia, uscì infatti nel 1994. Non potendo pubblicare le lettere che Diana gli aveva inviato, Hewitt si fece intervistare da Anna Pasternak, nipote del famoso scrittore russo. Il libro che ne venne fuori ebbe un successo travolgente, facendo diventare ricco il maggiore fedifrago.
L’antiquario Oliver Hoare, al quale Diana aveva telefonato più di trecento volte in pochi mesi, spesso senza neppure parlare all’apparecchio, fino a quando il medesimo, stufo e con la moglie che minacciava il divorzio, non si rivolse alla polizia; anche in quel caso, Gianmarco dovette sborsare un bel po’ di soldi, perché le acque si calmassero.
La tempesta coniugale del rugbista Will Carling, dal quale la neo-moglie chiese il divorzio, perché le confessò d’essere innamorato di Diana. Altro scandalo in cui la stampa inzuppò il pane, altri quattrini spesi da Gianmarco per mettere le cose a tacere.
Poco prima, la storia delle foto rubate a Diana mentre faceva ginnastica in una palestra: causa contro il proprietario ed altre spese per avvocati e tribunali. In quel caso, ne vennero fuori letteralmente di tutti i colori: Diana che importunava i clienti della palestra, Diana complice e non vittima dei fotoreporter che la riprendevano, Diana che avvicinava, sempre in quella palestra, l’immobiliarista Christopher Whalley per offrirgli un caffè e poi invitarlo a cena (forse, ci scappò qualche invito di tutt’altro genere). Per evitare di andare in dibattimento, da dove la principessa sarebbe uscita con le ossa rotte, si sarebbero dovute versare al proprietario della palestra, l’equivalente di ottocento milioni di lire, oltre alle spese per gli avvocati. Fortunatamente, in quel caso, intervenne a quanto pare, il re di Spagna Juan Carlos, che per la Principessa di Galles aveva notoriamente un debole, e quella somma la pagò lui.
La penultima storia: quella con il cardiochirurgo anglo-pakistano Hasnat Khan. In lui, Diana vedeva l’uomo dei miracoli, una specie di dottor Kildare mediorientale: quello che salvava le persone da morte sicura con le sue mani magiche. Diana aveva il brutto vizio di telefonargli ad ogni ora del giorno e della notte, anche quand’era in sala operatoria, pretendendo pure che Hasnat abbandonasse i pazienti sul tavolo operatorio per risponderle!
Dopo quelle movimentate peregrinazioni sentimentali, Diana, a quanto pareva, s’era “sistemata” con il figlio di Mohamed Al Fayed, socio d’affari di Gianmarco nella “Lombard Bank” di Londra. Almeno in quel caso, non ci sarebbero stati da sborsare altri quattrini, il patrimonio di Al Fayed era valutato in circa quattromila miliardi di lire.
Per i viaggi in mezzo mondo e perché patrocinasse le più svariate cause dei poveri e degli emarginati, Gianmarco, agendo sempre sullo sfondo, aveva organizzato, propagandato, fatto conoscere, presentato e soprattutto pagato. In Africa nel Bangladesh, in India, in Pakistan, persino in Bosnia, tra i bambini martoriati dalle mine antiuomo. Dietro quelle visite, c’erano sempre i quattrini di Gianmarco, le sue amicizie e le telecamere della RDC o networks ad essa collegate. Le cause che Diana abbracciava diventavano i conti che lui pagava, in cambio…nulla!
Per fortuna (o per merito suo) era riuscito a risanare la RDC ed a riorganizzarla da cima a fondo. Ora erano entrati in borsa, s’erano ricapitalizzati, ed avevano sostituito gran parte del management.
Quando Roberto era entrato in politica, fondando un partito, s’era dovuto dimettere dalla carica di presidente della società che aveva creato, lasciando la poltrona in caldo per il fratello. Con il primo gennaio 1995, dopo un breve interregno di Fedele Landolfi, Gianmarco aveva assunto la carica di presidente ed amministratore delegato della RDC. Da allora, sull’azienda un po’ decotta dei Demattei, s’era come abbattuto un ciclone (dopotutto aveva passato quattordici anni nell’Inghilterra della signora Thatcher): direttori rimossi dalla sera alla mattina; corrispondenti televisivi che s’erano trovati disoccupati, magari mentre erano in Africa; amministratori che una bella mattina, avevano trovato la scrivania già occupata dal loro sostituto, mentre un fattorino della società porgeva loro, con molto garbo, una lettera di licenziamento, vergata in uno stile con cui, in genere, si scrivono gli auguri natalizi.
Fu una scossa salutare, in pochi mesi fu varata la famosa banca televisiva che Roberto aveva in mente da anni e non riusciva mai a realizzare. Furono rilanciate le pubblicazioni periodiche della "Morandi Editore", fu allontanato il vecchio direttore del “Giornale”, Indro Montanelli, che pure l’aveva fondato ed aveva assunto Gianmarco quindici anni prima. Ovviamente, la scelta più dolorosa, ma anche la più necessaria: Montanelli non era d’accordo al fatto che Roberto si buttasse in politica. Secondo lui, suo fratello avrebbe dovuto vendere tutto, pagare i debiti, chiedere scusa per il disturbo e sparire nell’ombra. Di sparire nell’ombra, dopo sessant’anni di giornalismo, poco ci mancò che succedesse a Montanelli.
All’inizio del 1997 i debiti erano azzerati, era stata costituita una società di telefonia cellulare che operava in sinergia con la RDC, inoltre sotto la presidenza di Gianmarco erano state varate le “Pagine Gialle” della RDC con l’aiuto della “Morandi Editore” e per l’inizio del ‘98 sarebbero entrati in Internet, per il 1999 era previsto il lancio di una rete “All News” satellitare e digitalizzata. In tal modo sarebbe così nata la CNN in lingua italiana. Per quell’anno 1997, tutto il gruppo avrebbe registrato utili netti per settecento miliardi di lire.
Erano stati anni terribili ma esaltanti, quei quattro trascorsi ai vertici della RDC, cioè da quando Roberto era entrato in politica ed aveva lasciato la presidenza.
Gianmarco era entrato subito nel mirino dei procuratori di “Mani pulite”: perquisizioni a ripetizione nelle sedi centrale e periferiche, arresti e scarcerazioni di dirigenti ed amministratori, pressioni politiche e tentativi di ricatto. Nel 1995 era stato persino indetto un referendum per sottrarre alle reti televisive della RDC quasi tutta la pubblicità, la qual cosa, sarebbe equivalsa per la società dei Demattei ad una condanna a morte.
Tutto inutile, il partito che Roberto aveva fondato nel 1994 vinse le elezioni. Dopo aver abbattuto il suo governo con alcune manovre di palazzo, gli avversari politici indissero le elezioni nel 1996 e questa volta le vinsero loro, anche se per il rotto della cuffia. Dopo la vittoria, vararono un governo precario, con una maggioranza eterogenea, condannata a prendere sempre decisioni concordate sottobanco con le opposizioni, cioè con Roberto ed i suoi alleati.
Tutto sommato, bastava aspettare sulla riva del fiume ed attendere la processione dei cadaveri di tanti avversari, sempre mantenendosi all’ascolto della stazione di “Devil’s horn”, onde prevenire sorprese.
Gianmarco pensava che fino ad allora, di cadaveri eccellenti ne aveva già visti passare tanti. “Mani pulite” si stava impantanando nelle difficoltà procedurali, anche perché d’informazioni da parte dei servizi segreti occidentali, non ne arrivavano più alle procure. In compenso, le stesse informazioni dal ’94, grazie a “DH”, arrivavano a lui ed a Roberto; quest’ultimo, come capo dell’opposizione, le teneva in serbo per le prossime elezioni e le avrebbe usate nello stesso modo con cui le usarono, a suo tempo, contro di lui.
In fondo, Gianmarco stentava a capacitarsi del fatto che tutto fosse ormai finito, era ancora memore delle crudezze degli anni di “Tangentopoli”. Nel 1994, infatti, quando Roberto era impegnato nella campagna elettorale che avrebbe vinto, anche lui era arrivato ad un passo dall’arresto per corruzione.
Era fuori dal tunnel? Troppo bello per essere vero. Eppure, una vocina, nel fondo della sua coscienza, dapprima flebile, poi, di mese in mese sempre più stentorea, lo tranquillizzava dicendogli che il peggio era passato, che non avevano trovato prove per incastrarlo, che il momento favorevole per fare tabula rasa della RDC, di Gianmarco e Roberto Demattei e del suo partito, era ormai irrimediabilmente passato. Tanto più (ma questo lo seppe più tardi) che il governo degli Stati Uniti, dopo cinque anni di “distrazione”, aveva avuto recentemente un’improvvisa resipiscenza, facendo intendere al governo italiano, attraverso il nuovo ambasciatore USA, che non avrebbe ulteriormente ignorato persecuzioni giudiziarie contro gli oppositori, in special modo contro Roberto Demattei.
D’altro canto, qualche pizzicotto sul sedere continuava a riceverlo: pochi giorni prima, l’ennesima perquisizione da parte della Guardia di Finanza. Avevano sequestrato le fotocopie delle fotocopie di fatture i cui originali erano stati a loro volta sequestrati un anno prima, durante un’altra perquisizione, senza che ciò avesse potuto dar luogo ad ulteriori azioni giudiziarie contro la RDC.
Prove di dolo, non erano in grado di trovarne, erano al sicuro nelle banche svizzere; queste ultime, per ordine degli americani, erano tornate a chiudere le saracinesche. D’altronde, da quando “Devil’s horn” era entrata in funzione, alla RDC erano sempre in grado di conoscere con almeno quarantott’ore di anticipo delle perquisizioni o delle incarcerazioni in arrivo ai loro danni . Il Procuratore Generale elvetico, che in precedenza aveva fornito agli inquirenti italiani documenti a iosa, era stato promosso ad altro incarico (per essere rimosso). Gli unici che forse avrebbero potuto mettere in difficoltà i Demattei erano gli uomini politici della cosiddetta Prima Repubblica, ma costoro non avevano nessun interesse a farlo, anzi.
- Nessuna prova, nessun reato – gli aveva ottimisticamente pronosticato Roberto, pochi giorni prima
- Fai presto a dirlo tu, con la tua immunità parlamentare –.
- Dammi retta, Gianmarco, ormai siamo fuori dal tunnel e tra qualche anno, quando vinceremo le elezioni, fuori dal tunnel ci trascineremo tutta l’Italia –
Beato Roberto, con il suo ottimismo, con la sua innata capacità di scorgere sempre il lato migliore delle cose. Quello che vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno, se non pieno fino all’orlo. Eppure, quando Gianmarco era salito ai vertici della RDC aveva trovato una situazione finanziaria ed organizzativa, a dir poco, disastrosa e quella situazione l’aveva creata Roberto. Anche la RDC, con tutte le sue potenzialità, a dire il vero, l’aveva creata Roberto ed ora Gianmarco ne usufruiva, dopo averne pagato i debiti.
- Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Che dilemma! –
Gianmarco si riscosse dai suoi pensieri, negli ultimi tempi non aveva avuto modo di farlo troppo spesso, impegnato com’era a raddrizzare la barca ed a parare le randellate che gli arrivavano dalle procure; ora che le acque si stavano calmando, poteva ritornare alle sue consuete meditazioni sui massimi sistemi.
La funzione stava volgendo al termine. Era tempo. Tra non molto avrebbe incontrato Diana, se lei fosse stata in quel momento ben disposta nei suoi confronti, l’avrebbe avvertita, altrimenti?… L’avrebbe avvertita ugualmente, a costo di farle una scenata tragicomica in mezzo a Piazza del Duomo, con tutti i fotografi intorno.
Si alzò dal banco, si segnò e s’avviò verso il portale, da dove sarebbero usciti i partecipanti alla cerimonia. Stringeva nervosamente la maniglia della “24 ore” che s’era tenuto sulle ginocchia per tutta la durata della funzione. Dentro quella vecchia valigetta, che a suo tempo aveva contenuto i segreti di “DH”, si trovavano ora gli oggetti delle sue attuali preoccupazioni. Doveva mostrarli a Diana, doveva avvertirla, a costo di spaventarla. Uscì dalla penombra della chiesa, discese il sagrato e si voltò verso il portale laterale.
Pochi minuti dopo uscì anche lei, alla sua destra il sindaco, alla sinistra la guardia del corpo, dietro, tutti gli altri VIP che avevano preso parte alla cerimonia.
Appena fuori, fu bersagliata dai flash, Diana li ignorò: buon segno. La principessa si fermò sul sagrato, salutò e ringraziò il sindaco. A quel punto, uno degli addetti alla scorta, come d’accordo con Gianmarco, si affiancò alla principessa, le sussurrò qualcosa all’orecchio e le indicò il suo vecchio amico.
I loro sguardi s’incrociarono per un secondo, lui più in basso. Gianmarco ebbe il timore che la donna lo ignorasse e tirasse per il lungo. Diana s’intrattenne ancora con i suoi ospiti, deliberatamente senza fretta, mentre il manager stava friggendo a pochi metri di distanza; ma si vedeva che anche lei era in imbarazzo e non sapeva che pesci pigliare. Poi, come Dio volle, strinse le mani a tutti, baciò sulla guancia Elton John e si risolse a muovere incontro al manager. Senza dire una parola, si fermò ad un metro da lui e continuò a fissarlo, combattuta tra il desiderio di piantarlo in asso e la curiosità di sapere quel che volesse dirle.
- Non ho molto tempo, prima delle venti debbo essere di ritorno a Londra – esordì gelidamente
- Ti ringrazio comunque, per avermi dedicato un po’ del tuo tempo prezioso – ironizzò lui, ma Diana non raccolse.
- Dunque, che avevi da dirmi di tanto urgente? – Diana, quasi per sfida, incrociò le braccia sul petto, aspettandosi forse delle scuse.
In quel momento, la coppia fu circondata da un nugolo di fotografi particolarmente assatanati, i quali si disposero a fare il loro mestiere. Diana non fece una piega, anzi, gli sorrise beffarda:
- Caro amico dei fotografi, adesso voglio proprio vedere come te li leverai di torno –
Lui sollevò la testa e guardò con aria contrariata ora i fotografi, ora Diana, poi, rivolto ai primi:
- Ragazzi!… Il vostro lavoro l’avete fatto, ora la principessa ed io dobbiamo parlare, quindi… -
I fotoreporter non avevano evidentemente riconosciuto l’uomo che stava conversando con Lady Di, uno di loro però ebbe la presenza di spirito di salutarlo:
- Presidente Demattei, buongiorno, volevamo solamente sapere se lei… -
- Saprete tutto quello che volete sapere, quando e se riterrò opportuno dirlo – e fulminò l’intervistatore con lo sguardo.
Uno strano brusio si levò dalla schiera, poi la folla dei cacciatori di immagini incominciò a ondeggiare; subito dopo un fuggi fuggi generalizzato da parte degli inopportuni cronisti, fino a quando, alle costole di Gianmarco e Diana rimasero soltanto due giovani paparazzi alle prime armi. I due, si guardarono in faccia poi, di comune accordo, vistisi ormai isolati, s’allontanarono.
Diana lo guardò sbalordita.
- Che cosa fate in Italia ai fotografi, li mandate tutti quanti in Siberia? Oppure li arrostite? –
- Niente di tutto questo, naturalmente. Dopotutto la parola “Paparazzo” è stata inventata in Italia: “La dolce vita” di Federico Fellini, lo sapevi? –
- Allora spiegami come quei signori si sono volatilizzati in un amen; spiegamelo perché, come ben sai, anch’io avrei qualche problema in proposito –
- Mi hanno riconosciuto. Vedi Diana… la metà di quei ragazzi lavora direttamente od indirettamente per le mie testate giornalistiche, l’altra metà per la concorrenza e sia l’una che le altre, non hanno nessun interesse a rompermi i cosiddetti. Tanto più, che da questo momento, ci fotograferanno da quei portici laggiù, col teleobiettivo –
- Ora siamo anche diventati boss, a quanto vedo! – ironizzò lei.
- Sempre meglio che farli aggredire dai passanti - ribatté Gianmarco.
Diana si fermò in mezzo ad un nugolo di piccioni, mentre beccavano alcuni chicchi di grano che un turista gettava loro –
- Guardali! – fece lei, indicando gli uccelli – Sembrano i fotografi che mi corrono sempre appresso, perlomeno questi piccioni lo fanno per mangiare –
- Anche i fotografi ti corrono appresso per mangiare, cosa credi! Per una volta, ci hai azzeccato, si tratta di un paragone calzante: per chi è nato con il sedere nella bambagia – concluse Gianmarco con improvvisa cattiveria.
Diana si volse verso di lui: un lampo di rabbia negli occhi.
- Sei sempre così crudele, se non fosse per queste tue improvvise …cattiverie, avremmo potuto essere… marito e moglie da vent’anni – Gli occhi di Diana si riempirono di lacrime – Maledetto italiano, hai la lingua tagliente. Per toglierti la soddisfazione di una battuta, non esiteresti a vendere tua madre –
Diana si allontanò da lui ed andò a sfogare la sua crisi di pianto quattro o cinque metri più lontano.
Gianmarco le si avvicinò contrito.
- Suvvia, principessa, ti stanno osservando ed anche fotografando, cosa diranno di te. Milano è una città discreta ma maledettamente pettegola e qui siamo nel centro più centro della città –
- Cosa volevi dirmi? –
- Sono venuto in possesso di alcuni indizi che indicano che sei in pericolo –
Diana lo guardò come se avesse detto la cosa più ovvia di questo mondo.
- Sono sempre stata in pericolo. Fin da quando ho sposato Carlo –
Gianmarco si decise ad aprire la “24 ore” e ne estrasse un volume, lo porse a Diana.
- Hai mai sentito parlare di questa roba? –
Diana prese il libro e lo rigirò tra le mani, nemmeno si fosse trattato d’un topo morto.
- “Royal Blood”, un romanzaccio, scritto da un tizio che dice d’essere un ex agente del SIS, me ne hanno parlato, non crederai che ci sia qualcosa di vero…qui dentro? – Rispose, restituendogli il volume.
- Lo hai letto questo libro? – domandò il manager
- Ma per chi mi hai preso? Credi che con tutto quello che ho da fare, mi prenda pure la briga di mettermi a leggere un libro che mi tratta da sgualdrina? –
- Allora te ne riassumo la trama: Un agente dei servizi segreti britannici, è incaricato di sorvegliare la Principessa di Galles, cioè tu. Costui, scopre che hai una relazione con un ricco uomo d’affari arabo e che sei… rimasta incinta… -
- Questa poi! – esclamò lei facendosi una risatina – Un boccale di birra è più incinto di me –
- Lasciami finire, poi potrai fare tutti i commenti che desideri. Scoperto lo stato di gravidanza della principessa, si viene a profilare una situazione alquanto imbarazzante per la Corona britannica: la madre del futuro re d’Inghilterra, sarà anche la madre di un musulmano. Il Principe William, si troverà ad avere un fratello od una sorella devoti ad Allah. Viene perciò organizzato un attentato per ucciderti. Dopo lunghe discussioni, è dato ordine di procedere con l’attentato, il metodo prescelto è… -
- ….Un incidente aereo! Cioè no: mi faranno trovare Carlo sotto il letto, così resto secca dallo spavento! – concluse Diana divertita.
- Il primo è troppo banale, la seconda è soltanto una battuta scema. Al tuo posto, non farei dello spirito fuori luogo. Ad ogni buon conto, tornando al romanzo, i furbacchioni optano per un incidente automobilistico. Tecnicamente molto più difficile da eseguire e proprio per questo, molto più facile da occultare a cose fatte –
- E riescono a farmi fuori? –
- Leggiti il libro! – la esortò
- Neanche morta! Oh, scusami… -
- Ci sono molte cose che fanno drizzare le orecchie in questo romanzo. Intanto è uscito nelle librerie in aprile, poi, subito dopo è stato ritirato da tutte le biblioteche del Regno Unito. Io sono riuscito a procurarmene una copia, perché sono, modestamente, anche il più importante editore d’Italia. Potrebbe trattarsi d’un avvertimento da parte di una fazione dissidente del servizio segreto: “Guardate che sappiamo tutto, non fate scherzi, perché con questo libro mettiamo sull’avviso la possibile vittima” –
Diana alzò le spalle.
- Secondo indizio – così dicendo, Gianmarco estrasse dalla solita valigetta una fotografia:
- Conosci quest’uomo? –
Diana guardò la foto e sorrise di nuovo.
- Mi sorvegli eh… brutto spione! Questo signore si chiama Emad Al Fayed, che tutti in Inghilterra chiamano Dodi. E’ un mio …ehm…amico –
- Arabo, miliardario, finanziere discusso: proprio come nella trama di quel romanzaccio. Hai passato una bella vacanza con lui a Saint Tropez? –
- Con suo padre Mohamed, lui l’ho visto solo di sfuggita, sullo yacht del padre –
- Ma subito dopo, vi siete frequentati a Londra, con il figlio, intendo –
- Questa si chiama scenata di gelosia, a quando le coltellate?–
Imperturbabile, Gianmarco estrasse di nuovo un’altra foto dalla “24 ore”:
- Conosci questa donna? –
- Ma si tratta di Rita Rogers, la mia medium! –
- Pure la chiromante!…Sei stata a trovarla in questi giorni, vero? – Domandò Gianmarco, sempre più incalzante – Insieme a Dodi. Avete usato il suo elicottero –
Diana lo guardò, ma questa volta sembrava spaventata, Gianmarco era ormai lanciato:
- Ora, guarda quest’altra foto –
Le porse una terza fotografia.
- Si vede un uomo, l’uomo che ha scritto questo romanzo: sulla copertina del libro c’è la sua faccia. Ora eccolo ritratto mentre sta entrando in una villa, la riconosci? –
- Ma… è la villa di Rita Rogers, nel Derbyshire –
- Esatto. Quell’uomo, dopo aver fatto pubblicare questo libro, va a trovare la tua amica medium, pochi giorni prima che tu andassi a farle visita insieme al tuo amico arabo. Ora rispondimi! – Ordinò perentoriamente Gianmarco - Che ti ha detto la chiromante, Diana? –
La donna si voltò verso la facciata del Duomo, stava fissando i delicati pinnacoli di marmo e le statue che dalle guglie sembravano schizzare verso il cielo.
- Ci ha parlato di un tunnel, di vedere un tunnel ed un’automobile nera, ma si riferiva a Dodi, non a me. Mio Dio...ma che significa Ghiamma? –
- Secondo me, quell’uomo ha voluto avvertirti, mia cara principessa. Hai qualche altro impegno, prima della fine dell’estate? –
- La risposta la dovresti già conoscere, visto che riesci, dall’Italia, a farmi sorvegliare così bene. Quelle foto come le hai avute? –
- Sono un tipo molto apprensivo, molto ricco e molto ficcanaso. Metti il tutto in uno shaker, sbattilo per bene, dopodiché avrai un perfetto esemplare di Gianmarco Demattei, detto Giamma –
- Romanzi gialli di infimo livello, fotografie che potrebbero anche essere fotomontaggi ed un ex giornalista che mi fa una scenata di gelosia in piena regola, davanti al Duomo di Milano. Caro Ghiamma, tu sei sovreccitato! –
- Certo! – rispose lui – Qualcuno potrebbe essere riuscito a spillarmi un po’ di quattrini. Ma qualcosa mi dice che c’è della verità in tutta questa vicenda –
- Avresti dei presentimenti? Ma questa è roba da donne. Allora è vero quello che dicevano di te, le malelingue di Londra? –
- Che dicevano le malelingue? – domandò Gianmarco, pur immaginandosi la risposta.
- Che sei un “gay” –
- E tu gli hai creduto? –
- Non saprei, dopotutto…non conosco donne nella tua vita–
- Una la conosci molto ma molto bene: senza di lei non potresti vivere –
Diana arrossì, poi lo guardò negli occhi.
- Me lo proveresti, diciamo…adesso? – gli sussurrò sottovoce.
- Non hai risposto alla mia domanda, che programmi hai da oggi fino alla fine dell’estate? –
- Uffa! Se proprio t’interessa, dovrò tornare a Saint Tropez nella villa degli Al Fayed. In seguito, una mia amica, per la fine di agosto, mi ha invitato qui a Milano per fare un po’ di shopping. Successivamente andrò con lei sul Lago di Como, all’Hotel Villa D’Este, per qualche giorno di riposo –
- Come si chiama, questa tua amica? –
- Lana Marks, una creatrice di moda, specializzata in borsette e pelletteria – rispose Diana – ci fermeremo qui a Milano qualche giorno, per studiare le tendenze dell’Alta Moda –
- Il suo numero di telefono, per favore -
Diana glielo disse
- Mi metterò in contatto con lei, non dubitare. Quindi ci rivedremo? –
- Perché, che intenzioni hai? – domandò Diana.
- Intendo proteggerti, se necessario ti metterò sotto chiave –
- Ora rispondi tu alle mie domande, e bada bene di non scantonare, dopotutto sono venuta qui a Milano non soltanto per il povero Gianni Versace, ma anche perché speravo d’incontrare un’altra persona, che ho poi incontrato effettivamente –
- E perché credi sarei venuto a questa noiosissima ed inutile cerimonia? – le domandò lui, a sua volta.
Diana ignorò la domanda.
- Dunque, caro Ghiamma, mi proveresti di non essere un gay?–
- Dove?…Quando? – balbettò Gianmarco.
- Dove vuoi, in albergo, nella tua villa di…come si chiama quel posto? –
- Ad Arcore? –
- Appunto, oppure…oppure qui, in mezzo alla piazza, sbrigati a decidere, se no ti violento in mezzo a Piazza del Duomo, per il sollazzo dei fotografi qui intorno –
- Ma non dovevi essere a Londra per le venti?–
- Balle! L’aereo può partire anche senza di me –
- Ma i tuoi amici Al Fayed, padre e figlio? –
- Quelli possono aspettare, per adesso qui ci sei tu. Allora, ti decidi a chiamare un taxi, oppure ti debbo saltare addosso?-
- Ho la mia auto parcheggiata qui vicino –
- Sai ancora guidarla o ti debbo fare da autista? –
Un gruppo di turisti e curiosi s’erano intanto radunati intorno a loro. Avevano riconosciuto Diana e qualcuno le aveva porto carta e penna per farsi rilasciare l’autografo. Era decisamente il momento di levare le tende, altrimenti, di lì a poco, li avrebbero arrestati tutti e due per oltraggio al pudore.
- Da questa parte, principessa – le indicò la Via Orefici.
- Dove andiamo? –
- In un posto qui vicino, chiamato Piazza Cordusio. Ho parcheggiato lì la mia auto –
Diana gli strizzò un occhio mentre distribuiva autografi ai turisti.
- Sai una cosa? L’altro giorno mi sono riguardata le foto dell’aprile scorso, quelle per cui abbiamo litigato, mentre facevo sequestrare il rullino a quel fotografo –
- Ebbene? –
- Avevi proprio ragione, sembro una pazza in preda al delirio. Ora a quel poveraccio… ritirerò la denuncia –

- Siamo alle solite Matteo, i giornali non parlano d’altro: Dodi e Diana, Diana e Dodi. Sembra uno scioglilingua –
Gianmarco gettò la rivista sul tavolino davanti a lui. Erano nell’albergo “Cala di Volpe” ad Olbia, nei pressi della villa di Roberto Demattei.
Vacanze in Sardegna da forzato quelle di Gianmarco. Dalla metà di agosto, da quando cioè Diana gli aveva comunicato telefonicamente che non sarebbe potuta venire a Milano - ospite di Lana Marks, sua carissima amica, perché il padre di costei era morto in quei giorni - il presidente della RDC era entrato in fibrillazione. Tutte le paure e le inquietudini che l’avevano accompagnato fino all’ultimo incontro di Milano, s’erano di nuovo materializzate.
- Che farai in alternativa? – le domandò preoccupato.
- Non sono troppo sicura se venire ugualmente a Milano, oppure accettare l’invito di Dodi per trascorrere una vacanza con lui nel Mediterraneo – rispose la donna, cosciente di mettere Gianmarco sui carboni ardenti.
- Guarda che volendo, Milano è anche la mia città, potrei ospitarti io ad Arcore –
- Ci penserò, ad ogni modo, lo “Jonikal”, lo yacht degli Al Fayed, se non vado errato, farà tappa in Sardegna, dove voi avete quella villa di cui mi hai parlato –
- La villa è di mio fratello, anche se per agosto lui andrà alle Bahamas. Vuol dire che prenderò le mie ferie dalla RDC per quei giorni in cui tu e Dodi scorrazzerete per il Mediterraneo. Bada bene che non ti perderò di vista un istante, a costo di seguire a nuoto la nave degli Al Fayed –
- Stai diventando peggiore dei fotografi – lo rimproverò Diana.
- Sono preoccupato, non curioso, ricordati quel che ti ho detto a Milano –
- Certo che me lo ricordo, sarò prudente, vedrai –
Gianmarco ripensò a ciò che stavano scrivendo in quei giorni le riviste patinate:
- Cosa c’è di vero fra te ed il figlio dello sceicco? –
- Nulla, assolutamente nulla, si tratta di un accordo di questa primavera tra me e suo padre. Io spargerò la notizia che voglio sposarlo, il signor Al Fayed (padre) riuscirà ad ottenere la cittadinanza inglese, tra qualche mese Dodi ed io ci diremo addio, però a quelli di Buckingham Palace gli prenderà un accidente. Io ormai, se non faccio qualche dispetto ai Windsor non riesco a dormire! –
- Sì, ma l’accidente lo farai venire pure a me –
- Sei geloso? – Domandò Diana, poi la sentì ridere - A proposito, a partire da settembre girerò anche un film con Kevin Kostner –
- Lo so, anch’io sono produttore cinematografico, perciò sono riuscito a procurarmi una bozza del copione in anteprima. So che quel film avrà alcune scene un po’ troppo osé perché tu le possa interpretare come attrice. Per esempio, ce ne sarà una hard sotto la doccia, poi un’altra dove Kostner ti strappa la vestaglia, lasciandoti come mamma ti ha fatta. Complimenti! Ma tu, non sei quella che prende a borsettate i fotografi quando la ritraggono mentre accavalla le gambe? –
- Chi ti ha detto che ho intenzione di girare anche quelle scene? – Al telefono echeggiò di nuovo il risolino della principessa – Sei geloso anche di Kevin Kostner? –
Gianmarco stimò opportuno non risponderle nemmeno. Divenne quindi più incalzante con le domande:
- Dopo la Sardegna, cosa farete? –
- Insomma!…d’accordo, ci imbarcheremo all’aeroporto di Olbia per Parigi. Saremo al Ritz, che, come sai, è proprietà del padre di Dodi, passeremo la serata nella villa dei Windsor, sugli “Champs Elisées”, anch’essa acquistata da Mohamed, la mattina dopo torneremo a Londra –
- Fossi in te, Parigi la salterei, una volta lasciata la Sardegna –
- Perché dovrei rinunciare a Parigi? –
- Perché là, non sarò in grado di proteggerti –
- Sei sicuro che abbia sempre bisogno di protezione? –
- Sì, finché resterai fuori dalla Gran Bretagna. A Londra invece, non avrai nulla da temere –
Non avrebbe potuto dirle di più: anche se adoperavano un telefonino satellitare entrambi, chi voleva sapere, sapeva.

Gianmarco e Matteo si guardarono in faccia senza parlare. Da più di dieci giorni i due vecchi amici scorrazzavano in lungo e in largo per la Sardegna, su e giù dall’elicottero per seguire le evoluzioni della principessa e del suo amichetto sullo yacht delle vacanze.
- Caro Giamma, rischiare l’infarto per seguire due stronzi che se la stanno spassando, mi sembra un agire da fessi! –
- Non hai ricevuto lo stipendio questo mese? – domandò Gianmarco.
- L’ho ricevuto puntualmente. Compresa una sostanziosa gratifica per mancate ferie –
- Appunto! – esclamò indispettito Gianmarco.
Ma Matteo proseguì implacabile:
- Perché mai dovremmo improvvisarci segugi, quando a questo mondo ci sono così tanti bravi poliziotti privati disoccupati? –
- Anche quello che aveva messo la microspia nell’ufficio di mio fratello era un valido poliziotto privato, almeno, a quanto ci avevano assicurato –
- Secondo te, la bella Diana sarebbe in pericolo di vita? Avrebbero potuto ucciderla direttamente in Inghilterra –
Gianmarco scosse la testa.
- Troppo pericoloso, meglio tentarla all’estero un’operazione del genere. In questo periodo, mentre si diverte con il suo supposto amante. Non so se te ne sei accorto, ma Diana, negli ultimi anni è diventata anche un personaggio politico di rilievo, una figura carismatica capace di mobilitare le folle in tutto il mondo. E’ persino riuscita a far perdere le ultime elezioni ai conservatori. Inoltre, il padre di Dodi, una decina di giorni prima delle elezioni, s’è presentato ai giudici ed ha confessato di aver corrotto dei parlamentari del partito di governo, allo scopo di ottenere la cittadinanza inglese. Sai lo scandalo! –
- Se non sbaglio, questo Al Fayed è socio della tua banca in Inghilterra –
- I dipendenti troppo curiosi, faranno una brutta fine! – minacciò Gianmarco.
- Non sarà, per caso, una delle tue vendette per “Mani pulite”? –
- Che c’entra “Mani pulite”? – si schernì Gianmarco.
- Ripeti sempre che sono stati il governo britannico ed il servizio segreto inglese a scatenare e sostenere, con informazioni, il golpe dei magistrati di “Mani pulite”. Non sarà che anche tu sei entrato nel mirino dei servizi inglesi? –
- I servizi inglesi, con il nuovo governo, nel giro di pochi mesi, saranno rivoltati come un calzino. Se debbono fare qualche porcata, la faranno ora, perché tra qualche tempo i responsabili potrebbero essere tutti rimossi o sostituiti –
- Beato chi s’illude! – esclamò Matteo
- E’ proprio perché non mi faccio soverchie illusioni, che siamo qui a lavorare in agosto –
Erano entrambi seduti sulle sdraio dell’hotel. aspettavano, come avevano segnalato i loro informatori, che Diana e Dodi attraccassero il tender del Jonikal al molo dietro l’albergo. Era il trenta agosto, la loro vacanza mediterranea era finalmente terminata. Per tutta la durata del loro soggiorno in Italia, quattro poliziotti e quattro carabinieri, dandosi il cambio, non li avevano mai persi di vista. Dietro la discreta ma strettissima sorveglianza, cui i due piccioncini erano sottoposti, c’era l’interessamento fattivo di Gianmarco e di Roberto. Avevano fatto il diavolo a quattro, presso gli organi competenti, perché la coppia più famosa del momento, non fosse mai persa di vista, ameno fino a quando fosse rimasta in territorio italiano.
Ma se Diana e Dodi avevano intenzione di fare un salto anche a Parigi, sarebbero stati guai seri. Non era infatti garantito che le autorità francesi avrebbero fatto altrettanto, come difatti avvenne.
Gianmarco guardò l’orologio:
- Sono le 11 e 30, muoviamoci –
Così dicendo, s’alzò dalla sdraio e, seguito da Matteo, uscì dall’albergo. La loro auto li aspettava sotto, insieme a due uomini della scorta. Quei due uomini, ex agenti dei ROS dei Carabinieri, erano stati ingaggiati da Roberto per la sua sicurezza personale. Quel giorno e nei giorni precedenti, erano stati alle costole di Gianmarco e Matteo, per seguirli e coadiuvarli nei loro spostamenti e nell’opera di sorveglianza e protezione di Diana e Dodi. Lo avrebbero seguito anche a Parigi, se necessario.
- Partiamo subito, non appena la barca attracca al molo – esordì Gianmarco, rivolto ai due uomini di scorta – Noi dovremo seguire la loro macchina fino all’aeroporto di Olbia, poi c’imbarcheremo sul mio FALCON e li precederemo a Parigi. Ho già preso accordi con il direttore dell’aerostazione; a tale scopo, il decollo dell’aereo della principessa, sarà posticipato di almeno mezz’ora, con un pretesto, per permettere a noi di decollare per primi. Gli aerei loro e nostro saranno già stati minuziosamente controllati da personale specializzato per la prevenzione dei sabotaggi. Da quel momento in poi, nessuno, salvo il personale dell’aeroporto, dovrà più avvicinarsi al “Gulfstream” di Dodi. Il direttore farà annunciare dagli altoparlanti che l’aereo di Diana e Dodi sarà diretto a Londra. Non credo che i giornalisti abboccheranno, ma tant’è, una precauzione in più… altre domande? –
- A Parigi, in quale aeroporto atterreremo? – domandò l’autista.
- Al “Le Bourget”, così m’hanno assicurato gli informatori –
- Io a Parigi non ci sono mai stato, ci sarà qualcuno che ci farà da guida? – domandò l’altro uomo della scorta.
- No, ci saranno però due automobili che ho provveduto a noleggiare. La villa degli Al Fayed sugli “Champs Elisées”, è a qualche centinaio di metri dall’abitazione di mio fratello, per il resto, io con Parigi ho una certa dimestichezza, non come Roberto, ma tutto sommato, me la cavo. Anche perché dovremo sorvegliare un altro grazioso posticino dove quei due colombi andranno a tubare, “L’Hotel Ritz”, anch’esso proprietà degli Al Fayed –
- Saint Tropez, Portofino, Costa Smeralda, il “Ritz” di Parigi: ma dove lo trovate un altro padrone che vi fa sgobbare in simili posti da sogno in pochi giorni! – esclamò Matteo all’indirizzo dei due giannizzeri.
- Tanto più che dovrete tampinare la donna più famosa del mondo – aggiunse Gianmarco.
Era tempo: un’imbarcazione si stava avvicinando al molo, duecento metri davanti a loro. Ad attendere i passeggeri, una Mercedes bianca ed un autista. Diana e Dodi scesero dal tender, salutarono l’autista, misero i loro bagagli nel baule della macchina, salirono e l’autoveicolo si mosse; dietro le auto della scorta.
- Mantenetevi a due-trecento metri da loro, la polizia ci conosce, ma voi cercate ugualmente di non farvi notare troppo – Gianmarco stava dando le ultime disposizioni ai due poliziotti – Andate con Dio! –
La Mercedes bianca arrivò all’aeroporto di Olbia alle 13 in punto; avevano perso il decollo delle 13 e 04. Il direttore dell’aeroporto aveva fatto in modo che Diana e Dodi evitassero il controllo passaporti e fossero invece accompagnati direttamente alla pista per salire sul “Gulfstream”.
Quando i due scesero dalla macchina per salire sull’aereo, l’auto di Gianmarco e Matteo s’era fermata a sua volta nei pressi del FALCON 10 della RDC. L’aereo aveva già i motori accesi ed attendeva soltanto i quattro passeggeri per decollare. Matteo e la scorta salirono a bordo immediatamente, mentre Gianmarco era rimasto a indugiare nei pressi dell’automobile. Stava guardando in direzione del “Gulfstream”, parcheggiato a circa duecento metri dal loro aereo.
Diana indossava un tailleur beige, sopra un top nero, portava gli occhiali scuri ed aveva un’espressione abbastanza serena. Non appena a bordo dell’aereo avrebbe dovuto spegnere il telefonino: non c’era un attimo da perdere. Gianmarco estrasse dalla tasca il suo cellulare e schiacciò il pulsante che componeva automaticamente il numero della principessa. Vide infatti che Diana, pochi istanti dopo, frugava nella sua borsa e ne estraeva a sua volta un cellulare:
- Pronto principessa! – mormorò lui dolcemente – la Costa Smeralda e la Sardegna la salutano e le augurano un buon viaggio ed un felice ritorno –
- Gianmarco? –
- Che ti sta succedendo? Sei riuscita a pronunciare il mio nome correttamente, senza storpiarlo –
- E’ vero! – esclamò Diana – Ma oggi sono così…felice. Lunedì rivedrò i miei figli, ora sto andando a Parigi, a casa di Dodi e… -
- Lo so – la interruppe Gianmarco – Ed in quella casa, ti chiederà di sposarlo, sono aperte le scommesse, se pure non te l’ha già chiesto –
- Non me l’ha ancora chiesto, ma non dubito lo farà, prima della fine delle vacanze –
- E tu, che gli risponderai, se mi è lecito? –
- Gli risponderò… che sono commossa per la sua proposta, ma che non posso accettare –
- Non puoi accettare? –
- No, perché amo un altro uomo, si chiama Gianmarco Demattei e senza di lui sarei la persona più inutile di questo mondo. Anche se, a differenza di Dodi, tu sei uno… –
- Non dirlo! – la interruppe – Come ti devo ripetere che queste non sono parole da principessa –
- Non saranno parole da principessa, ma quello che tu hai fatto per me, non l’avresti fatto neppure per una regina. Arrivederci, Ghiamma, ora debbo imbarcarmi, ci risentiamo a Londra…. Tii aamoo! –
Gianmarco rimase con il telefonino a mezz’aria. Proprio così: Diana quelle due parole le aveva pronunciate in italiano, al che, non aveva più saputo cosa risponderle. Voleva dirle che l’avrebbe seguita a Parigi, ma la principessa aveva riattaccato, spento il cellulare e velocemente guadagnato la scaletta dell’aereo. Avrebbe atteso, a sua insaputa, che l’aereo di Gianmarco la precedesse nel decollo.
Furono le ultime parole che udì pronunciare da Diana.
A Parigi l’avrebbe rivista: muta e morente tra le lamiere contorte di una Mercedes nera. Nel tunnel dell’Alma.

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L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Empty Re: L'azzurro e l'oro (L'età di Diana)

Messaggio  Gimand Mar Gen 11, 2011 9:02 pm

Capitolo XXII


L'azzurro e l'oro (L'età di Diana) Agedil19


L’AZZURRO E L’ORO






Testo dell’intervista rilasciata da Gianmarco Demattei ad Andrew Morton in data 28 novembre 1997 per il “Sunday Times” e fino ad oggi, mai pubblicata:

Alla porta della sua abitazione di Milano, viene ad aprirmi Matteo, che di Gianmarco Demattei è il factotum; vale a dire: maggiordomo, autista, consigliere e confidente, segretario particolare, guardia del corpo, cuoco e perfino infermiere. Dietro Matteo, la figura ancora giovanile e snella di Gianmarco Demattei, l’uomo attualmente alla guida della RDC, il colosso multimediale italiano, creato e diretto fino a tre anni fa dal fratello Roberto.
Ha una stretta di mano vigorosa. Siamo vecchi amici, dai tempi in cui lui era ancora un giovane corrispondente del “Giornale” a Londra. Ora che guida la RDC, con compiti e responsabilità da far tremare i polsi, non è cambiato di molto nel carattere e nelle abitudini.
L’appartamento nel centro storico di Milano, dove abita da quattro anni, in pratica, da quando è rientrato in Italia da Londra, è vasto ed elegante. Arredato con mobili di pregio, scelti accuratamente presso antiquari, quadri d’autore alle pareti. Una gran biblioteca non certo ornamentale ma di libri letti e consultati, fodera lo studio dove si svolge la nostra intervista. Il padrone di casa mi fa cenno di sedere di fronte alla sua scrivania.
La scrivania è completamente sgombra da carte o documenti, solo un sottomano ed una foto a colori incorniciata d’argento. Dalla posizione in cui mi trovo, non riesco a scorgere chi vi sia ritratto. Il presidente Demattei, intuendo la mia curiosità, gentilmente gira il quadro verso me, affinché possa veder bene la persona fotografata.
Si tratta della Principessa di Galles. Non si deve pensare ad una foto “ufficiale”, con diademi, gioielli ed abiti regali; Diana, appare vestita in modo semplice, quasi sbarazzino: un paio di fuseaux neri ed un maglione girocollo ugualmente nero, dietro, un fondale completamente bianco.
La foto è di Patrik Demarchellier, il fotografo preferito da Diana, l’unico forse che avesse avuto la capacità di ritrarre al meglio la principessa, sia nelle circostanze ufficiali sia nei momenti di relax.
Nel riporre al suo posto il ritratto, Gianmarco Demattei ha un attimo di turbamento, poi si ricompone subito. Io inizio con le domande:


Come ha conosciuto Diana Spencer?
Ovviamente, per caso. Eravamo coinquilini nel condominio di Coleherne Court, a Londra, dove lei abitava prima di sposare il Principe di Galles. Una sera andai a casa sua a protestare perché lei e le sue amiche stavano facendo un chiasso infernale ed io non riuscivo a lavorare, era il luglio del 1979.

Com’era a quel tempo?
Una simpatica ragazza, come se ne trovavano tante a Londra o in qualunque parte del mondo. Come tutti i giovani, vedeva il mondo in azzurro: cieli azzurri senza nubi, mari azzurri senza burrasche, occhi azzurri che si lasciavano leggere dentro e…principi azzurri, naturalmente, su un cavallo bianco.

Un mondo un po’ troppo ottimista.
Visto e considerato com’era vissuta fino a quel momento. Nessun vero problema, un’infanzia ed un’adolescenza in cui s’era lasciata andare all’indolenza non dovendo, e non volendo, dimostrare niente a nessuno, tanto meno a genitori che non s’erano fatti scrupolo di divorziare, in un momento in cui i figli avevano tanto bisogno di loro. Per la giovane Diana, il divorzio dei genitori fu uno shock dal quale non si riprese più.

Tornando a Coleherne Court, si dice che là abbiate avuto una sia pur breve relazione.
Si dicono parecchie cose sul conto di Diana, sul mio conto, sul conto di mio fratello. L’unica nostra “relazione”, se così volgiamo chiamarla, fu una corsa in motocicletta fino ad Althorp, un pranzo con il Conte Spencer ed un ritorno a Londra, sempre in motocicletta. La settimana che seguì, vi furono inviti a cena a base di pizza ed hamburger nel mio appartamento, qualche cena al ristorante (dove ho tra l’altro incontrato un giovanissimo giornalista di nome Andrew Morton). Una volta, la portai con me in aereo, a Milano, per farle conoscere mio fratello e tutta la mia famiglia. Là mi dissero che quella ragazza avrebbe dovuto sposare il Principe di Galles. Sarebbe diventata regina d’Inghilterra.

Lei l’amava in quel periodo?
Non ero in grado di distinguere i miei sentimenti per un periodo così breve: la sognai la sera stessa in cui la incontrai: quando glielo dissi, non volle credermi. Certamente, quando mi confidarono che Diana era già “prenotata”, provai un senso di ribellione ed una furia contro tutto e contro tutti. Sono convinto che quella fu la molla che mi spinse a cercare, dopo tante elucubrazioni teoriche, di emulare, e se possibile, superare gli exploit imprenditoriali di mio fratello. Diventai un “cercatore d’oro”, lasciando da parte, almeno momentaneamente, gli ideali giovanili. Anch’io, prima d’incontrare Diana, vedevo il mondo in azzurro; dopo averla conosciuta e persa, mi trasformai gradualmente in un finanziere d’assalto. Dove prima vedevo ideali da accarezzare, successivamente, vidi oro di cui impadronirmi. Poiché guido da due anni la RDC, con un certo successo, credo di esserci riuscito, almeno per ora

Dopo il suo matrimonio, riallacciaste la vostra, diciamo così, amicizia?
Qualche anno dopo, nel 1982, in occasione del battesimo del Principe William. Durante il ricevimento, chiarimmo l’equivoco di quella gita a Milano di tre anni prima.

Si dice che quel colloquio fosse stato spiato.
Non ne ho mai avuto le prove, in ogni modo, anche se fummo spiati, non ne soffrimmo alcuna conseguenza, anzi.

Rimpiange il suo vecchio lavoro di giornalista?
Rimpiango la mia gioventù, rimpiango “la vita in azzurro”, come tutti del resto. Il 1982, come lei sa, fu per me un anno magico: trovai la mia vera vocazione, che non è stata tanto quella del giornalista, quanto dell’uomo che riesce ad intuire il senso degli avvenimenti che sta vivendo e si comporta di conseguenza.

Se ho ben capito, lei ha applicato, nel mondo degli affari, il suo fiuto per le notizie e per gli avvenimenti.
E’ un po’ riduttivo, ma se per lei e per i suoi lettori è più chiaro, mettiamola così.

Ritiene d’essere stato favorito in qualche modo?
Sono stato favorito dalle circostanze in cui mi sono trovato ad operare, in tutti i campi. Le circostanze favorevoli, ho sempre trovato il modo di sfruttarle, quelle sfavorevoli, sono sempre riuscito a girarle a mio favore.
Il suo gruppo, nelle varie forme mediatiche in cui opera, ha sempre appoggiato la Principessa di Galles?
In parecchie occasioni ne abbiamo preso le difese. Negli ultimi tempi, però, nei favori di Diana, siamo stati surclassati dal gruppo “Murdoch”. Ritengo infatti che la principessa sia stata influenzata, quasi plagiata, dall’editore australiano, specie per quanto riguarda i suoi ultimi atteggiamenti di sfida nei confronti della Casa Reale. Non è un mistero per nessuno che il signor Murdoch voglia separare le sorti del suo Paese, l’Australia, dalla Corona Britannica e dal Commonwealth ed usi l’influenza dei suoi giornali sull’opinione pubblica dei paesi anglofoni, per mettere in cattiva luce la Royal Family. La vicenda di Diana è stata strumentalizzata anche a questo scopo.

Ritiene che Diana si rendesse conto di essere, in qualche modo, usata?
No, non lo credo. Le ricordo, per esempio, che il contenuto della famosa telefonata di “Strizzolina” è stato spiattellato in tutto il globo dai giornali di Murdoch. Nonostante i miei reiterati inviti affinché lei agisse con maggiore prudenza, qualche mese fa, Murdoch e sua moglie furono invitati a cena a Kensington Palace. Probabilmente Diana avrà voluto, in qualche modo, esprimere la propria gratitudine a quell’editore per l’appoggio datole dai suoi giornali, dimenticando che, qualche anno fa, furono proprio quegli stessi giornali ad inguaiarla. Senza rendersene conto, si stava dando, come diciamo in Italia, la zappa sui piedi. Era quindi fatale, in queste condizioni, che noi perdessimo gradualmente la nostra influenza su di lei (se mai l’abbiamo avuta).

Diana le ha mai chiesto prestiti?
Assolutamente no: anche se avesse avuto bisogno di denaro, sarebbe stata troppo orgogliosa per chiedermeli. E’ vero invece che io e non soltanto io, ho acquistato foto e documenti che, se usati contro di lei, avrebbero potuto procurarle parecchi guai.

Per esempio?
Il memoriale del maggiore Hewitt. Sarebbe dovuto uscire già nel 1991. Riuscii, con non poca spesa, a farne ritardare la pubblicazione per la fine del 1994. Di più non è stato umanamente possibile fare.

Secondo lei, era sincero il suo impegno per la causa degli umili ed i diseredati, per l’abolizione delle mine antiuomo e così via?
Lo era, prima di tutto perché la patologia del male di cui ha sofferto lei stessa per anni, la bulimia nervosa, portava per reazione, ad interessarsi dei problemi di quelli mille volte, un milione di volte più sfortunati di lei. Anche perché, non dimentichiamolo, questo è uno dei pochi ruoli in cui qualunque famiglia regnante ha occasione per distinguersi. In più, Diana ci metteva il suo carisma, il suo fascino e la sua “magia”, come l’ha chiamata suo fratello Charles. Questo è un dono che possedeva soltanto lei.

Lei ritiene sia stata una figura importante?
Per il ruolo che ha ricoperto, indubbiamente sì, a prescindere dal valore intrinseco della persona. In questi casi, e solo in questi casi, bisogna distinguere tra la persona ed il ruolo che riesce a ricoprire: quello ch’essa rappresenta. La Diana incolta ed infedele, la Diana pasticciona e topica, la Diana intrigante ed ammalata di protagonismo; tutto ciò che ci hanno propinato i “media” per sminuirla, passano in secondo piano. Resta il mito e contro un mito non si può combattere.

Lei però, ha contribuito ad edificarlo, questo mito.
E’ stato un contributo invero modesto. Io l’ho conosciuta personalmente, questo mi basta. Non finirò di ringraziare il Padreterno per aver avuto modo di frequentarla, di parlarle ed anche di amarla.

Di amarla?
Si può amare in tanti modi. Nel mio caso, non certo come l’amava il maggiore Hewitt, se a questo allude.

Crede anche lei all’ipotesi del complotto, a proposito dell’incidente in cui è morta?
Non ci sono prove che confermino quest’ipotesi. Se posso, in proposito, azzardare una profezia: non si troveranno mai.

In conclusione: cos’è stata, per lei, Diana Spencer?
Una persona che in questo secolo ha dato il volto ad un’epoca. Dico questo, senza tema di esagerare. Quest’ultimo scorcio del XX Secolo, possiamo chiamarlo “L’Età di Diana”. L’azzurro e l’oro, così io definisco gli anni di Diana, gli anni ottanta. Un decennio di crescita civile: basta soltanto vedere quel ch’è successo nei paesi dell’Est. Questo è l’azzurro. Ma è stato anche un’epoca di espansione economica, senza la quale, nessun progresso civile sarebbe possibile. Questo è l’oro. Ebbene, gli anni ottanta, nel bene e nel male, che ne fosse cosciente o no, sono stati il suo palcoscenico. Davvero un privilegio unico, il mio: avendola accanto, ho percorso quest’epoca straordinaria e ho visto ed ho vissuto quello che ha visto e vissuto lei, come uno spettatore in prima fila. Infine, ho avuto la ventura di poterlo raccontare. Questa è stata l’età di Diana.

Morton spense il piccolo registratore che aveva girato fino a quel momento. L’intervista con il boss era finita, ora si poteva discutere con l’amico. Gianmarco notò che il giornalista era commosso e turbato quanto lui. Si può essere cinici e mestieranti, si può essere spregiudicati e figli di buona donna quanto si vuole, ma non si può mai rinunciare ad essere persone, con le loro mille debolezze: Diana aveva insegnato loro anche questo. Per qualche minuto, i due uomini stettero entrambi con lo sguardo basso, cercando di ricacciare indietro le lacrime che avrebbero voluto far capolino dai loro occhi. Fu Morton il primo ad aprire bocca.
– Questa è l’intervista, adesso però mi racconti tutto quello che hai visto e che sai di quella notte –
– Lo pubblicherai per i tuoi lettori? –
– Non lo so, tutto dipende da quello che sentirò da te –
Gianmarco sospirò, si appoggiò allo schienale della poltrona:
- Sei libero di credere o no a quello che dirò, ma sia ben chiaro: te lo riferisco come amico, non voglio tu ne faccia materia di sensazionalismo –
- Raccomandazione inutile, ci conosciamo da tanti anni – rispose Morton.
- E va bene! – esclamò Gianmarco – Tanto, so che alla fine questa storia verrà a galla, se ciò dovrà accadere, sarà meglio per tutti che sia tu il primo a conoscere la verità –
Gianmarco riordinò le idee, poi iniziò il racconto:
- Il nostro aereo atterrò al “Le Bourget” alle 14,52, circa mezz’ora prima che vi atterrasse quello di Diana e Dodi. Sapendo in anticipo dove si sarebbero diretti, avevo prenotato tutto il necessario per un soggiorno a Parigi di un paio di giorni per quattro persone: io, Matteo e i due uomini addetti alla nostra sicurezza. Qui commisi il primo grosso errore. Credevo di essere abbastanza pratico di Parigi, non lo ero nella misura in cui sarebbe stato necessario, me ne resi conto soltanto in quel momento; i due uomini della sicurezza e Matteo non c’erano mai neppure stati. Del resto, a parte l’agenzia presso la quale avevamo prenotato le due auto e le autorità della dogana francese, nessuno sapeva della nostra presenza nella capitale francese. L’aereo di Al Fayed, atterrò alle 15,20, nel frattempo avevo notato, con disappunto, che dietro alla recinzione dell’aeroporto, erano già appostati cinque o sei fotografi, pronti a scattare: la sorpresa era fallita, come prevedibile. Alle 15,30 Diana e Dodi salirono su di una Mercedes 600 nera e s’avviarono verso l’autostrada che collega l’aeroporto alla città. Alla bretella dell’autostrada i poliziotti che scortavano l’auto salutarono il corteo e tornarono verso l’aeroporto. La protezione delle autorità francesi cessava in quel momento. A pensarci adesso, questo avrebbe dovuto mettere i brividi addosso a qualcuno, invece a tutti, ma non a me, apparve la cosa più naturale di questo mondo. Noi seguivamo il corteo delle auto, viaggiavamo a circa cento-duecento metri da loro: una Mercedes nera ed una Range Rover grigia. Dietro, le auto e le moto dei paparazzi. Per poco, una delle auto di questi ultimi non andò a tamponare la Mercedes. A questo punto, sotto un tunnel all’entrata di Parigi, l’autista di Dodi, approfittò dell’oscurità per scivolare sulla sinistra, la Range Rover, invece, si spostò sulla fila di destra. I fotografi che arrivavano sotto il tunnel, scorsero la grossa jeep e si piazzarono dietro, convinti che la Mercedes fosse davanti. La Range Rover proseguì il suo cammino e prese l’uscita di destra, verso la Defense, i motociclisti la seguirono. La manovra per allontanarli aveva funzionato; per il momento, i fotografi erano stati ingannati-
- E voi, dove vi siete diretti? – domandò Morton.
- Le nostre due auto erano più distanti, quindi non fummo ingannati da quella manovra, inoltre, come già ti avevo detto, sapevamo dove si sarebbero diretti. Riuscimmo a seguirli fino alla villa dei Windsor, nel Bois de Boulogne, se non vado errato. Mano nella mano, Diana e Dodi risalirono il viale di ghiaia e scomparirono all’interno della dimora. Le nostre due auto si appostarono fuori del cancello. Fummo fortunati, essendo la fine di agosto, fu facile riuscire a parcheggiare a poca distanza dall’entrata della villa. Naturalmente, nei dintorni non c’erano fotografi, ma sapevo che sarebbe durata poco. Dopo mezz’ora, la coppia, sempre a bordo della Mercedes nera, lasciò la villa e si diresse verso Place Vendome, vicino all’Hotel Ritz. Vi si trovavano già una decina di paparazzi; di lì a qualche ora, ad assediare l’albergo sarebbe accorsa una folla di centinaia di persone –
- Secondo te, chi può averli avvertiti? –
- Si possono fare parecchie congetture: Diana stessa, Dodi, il padre di Dodi, qualche funzionario della polizia italiana, qualche funzionario francese, lo spionaggio britannico. Era del resto una pretesa assurda, pensare di tenere lontani i fotografi, quando, pochi giorni prima, un loro collega, Mario Brenna, aveva guadagnato un milione di sterline per una brutta foto di Diana che abbracciava Dodi –
- Quella foto, è andata a ruba in Gran Bretagna –
- Beati voi, che avete soltanto questo cui pensare e poi… –
- E poi? –
- Di quella foto conosco i retroscena. Fu, in realtà, un grazioso regalo fatto da Diana a Mario Brenna: una riparazione per il danno della mancata pubblicazione di un libro di fotografie dello stesso Brenna, cui lei, pochi mesi prima, aveva scritto e poi ritirato la prefazione. Ne furono coinvolti anche Elton John e Gianni Versace, del quale, Mario Brenna era uno dei fotografi preferiti –
- Strane coincidenze – osservò Morton.
- Appunto! Poco ci mancò che anche la “Morandi Editore” ne fosse coinvolta; quel libro di fotografie, avremmo dovuto stamparlo noi. Era pieno di uomini nudi e di natiche… maschili naturalmente. Le foto dei nudi erano alternate ad altre della Royal Family: come puoi immaginare, fu giocoforza rinunziare alla pubblicazione –
- Ritieni che Diana l’avesse fatto apposta? –
- Sarebbe stato nel suo stile. Lei ha sempre negato, ma come tu sai, sapeva essere anche un po’ bugiarda. Noi in Italia, chiamiamo questo modo d’agire: “Tirare il sasso e nascondere la mano” –
- Dopo questa divagazione, ritorniamo al “Ritz" –
- C’è poco da dire: restammo sul piazzale fino a sera, passeggiando su e giù, in mezzo ad una folla di curiosi che aumentava a vista d’occhio. Correva voce che avrebbero passato la notte in albergo, invece di ritornare alla villa, io non vi credetti. Ormai, pensavo di conoscere bene anche la psicologia di Dodi. Non avrebbe resistito alla tentazione di mostrare ancora una volta la sua “preda” alla folla. Sarebbe stata la sua rivincita, poi magari, per non insospettire, avrebbe manifestato disappunto. In realtà, stava godendosela come un matto –
- Ne sei sicuro? Se così fosse, credi che Diana ne fosse stata al corrente? –
- Ci puoi scommettere: Una bravata per indispettire i Windsor, finita in tragedia –
- Continua – lo esortò Morton.
- Andammo avanti così per tutta la serata: su e giù dalle automobili, avanti e indietro tra il Ritz e le varie residenze degli Al Fayed, gioiellieri, ristorantini, tentativi abortiti di shopping da parte di Diana, e noi sempre dietro, come degli allocchi –
- Anche per voi, fu una serata movimentata – esclamò Morton
- Ed anche defatigante. Io non dormivo da diciotto ore, gli altri non erano da meno, eravamo troppo pochi e troppo stanchi. Questo, fu il mio secondo grave errore. Se fossimo stati di più e più riposati, non saremmo incorsi in quel terzo errore che fu fatale –
- Quale errore? – incalzò Morton.
- Era passata ormai mezzanotte, quando intorno alle due auto parcheggiate sul piazzale dell’hotel: la Mercedes e la Range Rover, incominciarono a muoversi delle persone, poi si mossero anche le automobili. Diana e Dodi stavano ripartendo, almeno così mi sembrò. Fu allora che commisi il terzo errore, quello più grave: fummo praticamente gli unici, assieme ad un piccolo gruppo di fotografi, a non accorgerci che si trattava di un diversivo. Le due auto, con gli autisti ed una guardia del corpo, s’erano mosse per coprire la vera fuga di Diana e Dodi, i quali, in una viuzza sul retro dell’albergo, salivano su di un’altra Mercedes, sperando di fuggire indisturbati –
- Come?! – esclamò Morton – Soltanto voi cadeste in quel puerile tranello preparato dallo stesso Henry Paul? –
Gianmarco annuì sconsolato.
- Sto invecchiando vero? Una volta, non ci sarei mai cascato. Ecco qui, il “segugio fai-da-te”, quasi mi vergogno a confessarlo –
- Roba da non credere! – fu il commento del giornalista.
- Seguimmo le due auto civetta per qualche chilometro, prima di accorgerci di essere stati presi in giro. Furono gli occupanti dell’altra auto, quella con Matteo alla guida, ad avvertirci dell’inganno attraverso il cellulare. La mia auto, con il primo uomo della scorta e me alla guida, era rimasta un poco più indietro. Mi accordai con Matteo per desistere dall’inseguimento e ritornare al “Ritz” –
- Eravate preoccupati? –
- Più che preoccupati, direi umiliati. Ordinai di moderare la velocità. Avevo pensato che se l’auto con Dodi e Diana avesse compiuto il nostro stesso tragitto, avremmo potuto incrociarli. In questo caso, con una svolta ad “U” ed a costo di farci arrestare da qualche flic, saremmo tornati a pedinarli. Mentre ci avvicinavamo a “Place de l’Alma”, notammo uno strano andirivieni appena fuori dalla galleria che attraversava la piazza. Ebbi un presentimento: ordinai di fare rotta all’interno del tunnel. Come entrammo nel sottopassaggio, fummo colpiti dallo strano lezzo di olio bruciato e dal suono continuo di un clacson. Incontro alla nostra auto, stavano correndo alcune persone agitando le braccia. In quel momento, non vedevo cosa ci fosse sull’altra corsia: la fila di pilastri c’impediva ogni visuale da quella posizione. Soltanto quando ci fummo avvicinati al punto dell’incidente, ebbi finalmente coscienza della carneficina che s’era svolta –
Gianmarco si fermò di nuovo, un groppo alla gola gl’impediva ci continuare. Si portò una mano sul viso, poi chinò la testa, per cercare di nascondere la voglia di piangere che lo stava attanagliando.
- Non so come, ma non avevo dubbi che fosse successo qualcosa di grave a Diana. Come un automa, fermai la mia macchina in mezzo alla strada e mi diressi verso quel rottame fumante in cui era ridotta la Mercedes di Dodi. Alcuni fotografi si stavano intanto indaffarando attorno ai feriti. Il corpo dell’autista era riverso per metà sul cofano della Mercedes: aveva sfondato con il cranio il parabrezza ed era stato proiettato, con tutto il tronco, fuori dell’abitacolo. In quel momento, vidi solo quello. Uno dei fotografi era riuscito ad aprire lo sportello posteriore destro e stava cercando di portare i primi soccorsi ai feriti. Con le gambe legnose, mi avvicinai alla carcassa, sentivo dei gemiti provenire dall’automobile. Il fotografo soccorritore, stava chinato con la testa e le spalle all’interno dell’abitacolo, coprendomi la visuale. Ero terrorizzato da quello che avrei potuto vedere, ma dovevo andare a vedere… Il fotografo si scostò, si voltò di scatto per rimproverare i suoi colleghi: invece di dargli una mano, quelli erano intenti a scattare fotografie. In quel momento, potei vedere la persona che l’uomo stava soccorrendo: un caschetto di capelli biondi, un viso irrigato dal sangue, due occhi azzurri spalancati, la bocca, dalla quale uscivano soltanto lamenti. Ebbi così gli occhi di Diana, per un momento, puntati addosso. Istintivamente, allungai la mano e le sfiorai una guancia, lei emise un altro gemito di dolore. No, da quel che posso ricordare non disse niente, solo gemiti. Era rimasta incastrata col bacino tra il sedile posteriore e quello anteriore. Qualcuno, prendendomi per le spalle, mi strattonò all’indietro, inciampai e caddi seduto sul selciato. Non capivo, a questo punto, quello che stessero dicendo o facendo le persone intorno a me, non capivo che intenzioni avessero. Non capivo più niente, avevo perso la testa. Fu quello il mio ultimo errore, se di errore si può parlare. Oggi, col senno di poi, continuo a ripetermi che avrei potuto fare questo o quello, ma allora, restai inebetito, più di danno che d’aiuto. Matteo, alle mie spalle, mi diceva qualcosa, ma io neppure l’italiano ero in grado di comprendere. Mi scosse e mi strattonò, ripetendomi parole che non ero in grado d’intercettare. Sentii che mi spruzzavano qualcosa sulla faccia, persi i sensi…. Alla mattina dopo, mi svegliai nell’appartamento di mio fratello –
Gianmarco guardò alle spalle di Morton. Mentre stava concludendo il racconto, aveva visto che Matteo era entrato nello studio in punta di piedi e s’era posto alle spalle del giornalista.
- Matteo, per favore, finisci tu – lo invitò Gianmarco.
Il collaboratore, si avvicinò e gli domandò a bassa voce:
- E’ quello che desideri? –
Gianmarco annuì. Matteo, dopo un sospiro di rassegnazione, si schiarì la voce:
- In quel momento, quando ci rendemmo conto del disastro, Gianmarco fu l’unico del nostro gruppo a perdere la testa, inebetito, incapace d’articolare la benché minima frase. Sentimmo dalle persone lì attorno, che erano stati chiamati i soccorsi per mezzo d’un cellulare. Un medico che transitava da quelle parti per caso, prestava le prime cure ai feriti: la guardia del corpo e Diana. V’erano quindi due certezze: la prima, che noi eravamo inutili, la seconda, che Gianmarco era completamente partito. Dovevamo dunque filarcela, ed anche in fretta, prima che arrivasse la polizia. Presi quindi una decisione drastica: dalla mia auto afferrai una delle bombolette di spray paralizzante, che ci eravamo portati dietro per difesa personale, ne spruzzai il contenuto sul viso di Gianmarco, così lui perse i sensi. Lo caricammo su una delle auto e ce la filammo. Per fortuna, sapevo dove si trovasse l’appartamento dei Demattei a Parigi, Gianmarco se n’era portato dietro le chiavi. Lo portammo in casa di peso, tanto, era ormai nel mondo dei sogni, quindi lo mettemmo a letto. Dormì come un angioletto fino al mattino successivo. Poi, quando si svegliò e si ricordò di quel ch’era successo la notte precedente… -
- …Dovettero ammanettarmi al letto perché mi calmassi – intervenne di nuovo Gianmarco - Quando la crisi mi passò, sentii i notiziari dalla televisione: Diana non c’era più, io avevo fallito, era stato tutto inutile. La nostra spedizione parigina, incominciata male, proseguita nell’improv-visazione, si era conclusa tragicamente. Questo è tutto –
I due, si guardarono per un po’ senza parlare; il silenzio fu poi rotto da Morton:
- Secondo te, si tratta dunque di un complotto? –
- Nell’intervista ho sostenuto che non ci sono prove che avvalorino la tesi di un complotto o di un attentato. Quel che io penso è un’opinione come un’altra. Un fatto è certo: io l’avevo seguita a Parigi perché temevo per la sua vita ed a Parigi lei è morta in un incidente d’auto. Si tratta di una coincidenza? Strana coincidenza. Altre coincidenze si sono verificate prima dell’incidente: quel libro pubblicato e fatto sparire, la profezia della medium, lo strano attivismo dei servizi segreti inglesi ed americani attorno alla sua persona, infine, quelle voci che corrono, da qualche settimana, su di lei –
- Alludi alla diceria che fosse incinta e che stesse per sposare Emad Al Fayed? – domandò Morton.
- Appunto, sanno di depistaggio. Credo che ora, ascoltando le mie teorie in proposito, penserai che m’arrampico sugli specchi, ma io il mio parere te lo riferisco ugualmente. Secondo me, queste baggianate sono state messe in giro, non tanto per calunniare Diana, quanto per creare un falso movente –
- Spiegati meglio, cosa intendi per falso movente? –
- Cose che possono passare per la testa soltanto ad un italiano machiavellico come me. Vedi Morton, io sono sempre stato dell’opinione che, quando s’indaga a livello dilettantesco su avvenimenti come questo, sia ormai invalso l’uso di ragionare in questi termini: “Abbiamo trovato il movente, quindi abbiamo trovato le prove del delitto”. Ora, segui il mio ragionamento… -
Ma Morton non gli diede il tempo di completare:
- … Se, tra qualche mese, o tra qualche anno, salteranno fuori le prove che Diana non solo non era incinta, ma neppure aveva intenzione di sposare Dodi, cascherà completamente anche la tesi ventilata del complotto. Di conseguenza, qualsiasi indagine “privata” in proposito sarà abbandonata. E’ così? –
- Caro Andrew, meriteresti la nomina di fiorentino “ad honorem”; sei stato quasi più sottile di Machiavelli. Io so per certo che Diana non era incinta e neppure voleva sposare Dodi: era soltanto ammaliata da un uomo che la trattava da regina, senza gli obblighi di una regina –
- Non ti chiederò come fai ad esserne così sicuro, perché temo ti metterei in imbarazzo; invece ti domanderò, per quale motivo, se di complotto si tratta, sarebbe stata assassinata –
- Per un motivo più complesso, per un motivo politico. Infatti, Diana stava diventando proprio un’eminenza politica. Se si fosse accontentata d’interpretare la parte della povera moglie tradita e abbandonata, io penso che non sarebbe accaduto nulla: a poco a poco la gente, stufa delle sue recriminazioni, l’avrebbe passata nel dimenticatoio. Invece, lei pretendeva che i Royals cambiassero stile di vita, compiva viaggi come se fosse stata un ministro degli esteri, metteva il naso nella politica interna ed in quella sociale, dava indicazioni di voto. Il nuovo primo ministro Blair aveva intenzione di nominarla ambasciatrice itinerante (magari, per levarsela dai piedi). Dei suoi rapporti con l’editore Ruperth Murdoch e dei fini reconditi di quest’ultimo, te ne ho già parlato nell’intervista. Ora, non giudicherò sul valore delle sue iniziative, tutto questo però, l’ha fatto senza essere mai stata eletta, solo per il suo carisma e per il suo fascino. La conditio sine qua non, per cui esistono ancora al mondo delle monarchie costituzionali ereditarie, è quella che i monarchi in questione non si occupino di politica, di scelte di governo. Questo semmai, spetta agli eletti dal popolo. “Mai lamentarsi, mai dare spiegazioni”: come certamente saprai, fin dai tempi della Regina Vittoria, questa è stata la regola aurea seguita scrupolosamente da tutta la Royal Family. Diana invece, si lamentava e dava spiegazioni in continuazione: per questo era diventata la beniamina di tutti gli organi d’informazione. Si comportava da leader di partito, o come minimo, da “first lady”. Con la differenza che, in una democrazia, anche la “first lady”, se la scelgono gli elettori, ovviamente insieme al marito. Ecco perché ritengo che qualcuno, nell’ombra, abbia tramato per eliminare questa…“anomalia istituzionale”, che debbono aver giudicato molto pericolosa per le istituzioni –
Morton ebbe un gesto d’incredulità: -
- Teoria piuttosto stiracchiata, se tu permetti! -
- Ma, se ci pensi bene, l’unica valida. Altrimenti, o prendiamo per buone le sciocchezze da rotocalco sulla sua gravidanza, oppure…non ci sono prove di complotto, quindi non c’è complotto –
- Come commenti il fatto che l’autista della Mercedes, agli esami dell’autopsia, si è rivelato ubriaco? –
- In questo caso – rispose Gianmarco – occorre mettersi d’accordo sul significato delle parole: che vuol dire “ubriaco”? Significa forse tanto sbronzo da non essere neppure in grado di pilotare una macchina? Ed in questo caso, come ha fatto il signor Henry Paul, guidando la sua auto dall’abitazione, ad arrivare fino al “Ritz”, pur essendo già ubriaco? Possibile che quelli del “Ritz”, compreso Dodi, non si siano accorti del suo stato? –
Morton stava per fare un altro dei suoi commenti. Gianmarco lo prevenne:
- Ti prometto che su questa vicenda scriverò un memoriale e te lo invierò. Se lo riterrai opportuno, tu potrai scrivere un altro libro, ma, siccome nella vita di Diana, io sono stato sempre un po’ in disparte… -
- Più che in disparte, dietro le quinte – precisò Morton.
- Quello che voglio dire è che non so se un libro del genere potrà interessare al grosso pubblico. Io non sono Roberto. Cento metri fuori da quest’appartamento, nessuno o quasi conosce Gianmarco Demattei, quindi, temo proprio che quel memoriale, anche se lo scriverò, potrai tenertelo come un ricordo –
- Hai attraversato, qualche volta da protagonista, quasi sempre da testimone oculare, un’epoca tra le più cruciali di questo secolo. Credimi, non è stata cosa da poco! –
- Ma ora che Diana non c’è più, sento come se una gran parte della mia vita fosse passata invano: gli studi universitari, il giornalismo, la finanza internazionale, gli intrighi, la guida della RDC, tutto questo è stato niente –
- Sono pensieri… insani, dovresti prenderti un po’ di riposo. Quasi, mi trovo pentito di esserti venuto ad intervistare a così breve tempo da questa tragedia –
- Al contrario, mi ha fatto piacere parlare con un vecchio amico. Il fatto è che più ci penso e più mi convinco che Diana non sia passata invano. Anche se possedeva un particolare talento per cacciarsi nei guai, non è venuta a questo mondo per fare del male, al contrario, ha seminato molto e nel periodo giusto, gli anni ottanta, poi se n’è andata, forse nel momento giusto. Il mondo che ha lasciato, che l’ha vista ed amata come un’icona, ebbene, sento che quel mondo crescerà e sarà migliore di quello che ci lasciamo alle spalle. Abbi la pazienza di aspettare che gli eventi maturino. Avremo ancora “L’azzurro e l’oro” –
- Adesso parli come un profeta –
- Non esageriamo, io, non dimenticarlo, quest’icona l’ho conosciuta bene, prima ancora che diventasse Principessa di Galles. Ecco ciò che mi consola quando mi tornano alla mente quei pensieri insani, come tu li hai chiamati –
- Una domanda mi ha sempre ossessionato e non ha ancora trovato risposta: “Come mai?”. Perché hai fatto tutto questo per un donna che, in fondo, ti ha dato solo dei grattacapi? Ricordo che durante l’intervista per scrivere “Diana, Her true story”, lei mi ha confidato che non ti capiva, ma che da te era anche affascinata. Per la verità, mi ha anche confessato che, per un certo periodo, ha avuto il sospetto che tu la stessi sfruttando per i tuoi fini. D’altronde, non aveva ancora avuto il modo di constatare che razza di farabutti fossero Hewitt, Hoare, Jilbey ed altri ancora –
Gianmarco scosse la testa poi, parlando lentamente e scegliendo bene le parole da tradurre in inglese:
- Il fatto è che io m’ero impegnato ad aiutarla. Per noi plebei arricchiti, caro Morton, la parola data, l’impegno morale, vale più dell’oro. Per un ex idealista come me poi… per uno che ha visto il mondo in azzurro, il promettere è tutt’uno con il mantenere. Costi quel che costi! Anche se porto un nome da… “fighetto”, come dicono oggi a Milano, espressione che voi in Inghilterra traducete con “Fancypants” (bei pantaloni). Ti assicuro che del fighetto porto soltanto il nome. Diana, per la cronaca, non riusciva mai a pronunciarlo correttamente –
- Io invece, ho un’altra teoria in proposito - soggiunse Morton
- Sentiamola –
- Secondo me, non vuoi ammettere di esser stato vittima anche tu del colossale abbaglio mediatico che ha creato il mito di Diana: per caso, anni fa, hai conosciuto una ragazzetta che, grazie a un matrimonio, è diventata quel che è diventata. Abbagliato dal suo successo, ti sei spontaneamente messo al suo servizio; quasi che, restandole accanto, anche tu avresti vissuto, di riflesso, della sua notorietà –
- Adesso sei tu a sminuirmi. Vogliamo parlare, invece, di un certo Andrew Morton e di come sia diventato famoso grazie e soprattutto a Diana? –
- Per me è stato diverso. Io ero un modesto giornalista. Grazie a “Diana: her true story” ho conquistato, se non la ricchezza, certamente l’agiatezza, oltre ad una certa notorietà. Non ho difficoltà ad ammettere che, quel poco o tanto che ho avuto, lo debbo a lei. Non così per te. Non prendere la mia ultima osservazione per una deliberata volontà di rimpicciolirti. Anni fa, ti preannunciai un radioso avvenire come manager nell’azienda che ora dirigi… -
- Certo, ricordo, eravamo ai tempi dell’affare Dozier –
- Appunto! – precisò Morton – Ne hai fatta di strada, da allora. Io invece sono rimasto un giornalista che vive della notorietà altrui. Principesse, castelli, amori infranti, fiabe spezzate. Lasciale raccontare a me queste cose, dopotutto ho anch’io diritto a vivere! –
- D’accordo, però non azzardarti più a raccontare che anch’io sarei caduto vittima della manipolazione dei media, sennò m’arrabbio. I media sono il “Core business” della RDC, sarà un po’difficile che proprio io ne sia in qualche modo “manipolato” –
- Questo lo credi tu. Mettiti in testa che neppure uno come te, può fare a meno di usufruire dei mezzi di comunicazione e di restarne eventualmente anche plagiato–
Gianmarco rinunziò a ribattere. Pensandoci bene, forse Morton non aveva tutti i torti. Era il caso di meditare su quella cinica frase attribuita a Goebbels, il ministro della propaganda nazista: “Ad una menzogna, a furia di ripeterla, finirà per crederci anche quello che l’ha inventata”
- Ho un’ultima curiosità da soddisfare – domandò Morton
- Dal momento che debbo raccontarti proprio tutto….-
- Per te, com’è incominciato tutto questo? La vicenda di Diana s’è svolta a mille chilometri da dove ci troviamo ora. Come, proprio tu, sei arrivato fino a lei? –
Gianmarco, guardando l’orologio:
- Ma sì, facciamo ancora in tempo. Se avrai la bontà di seguirmi, faremo quattro passi per le vie del centro storico di Milano, verrà anche Matteo –


La piazzetta antistante la basilica di Sant’Ambrogio, quella domenica era deserta. Davanti al frammento di colonna romana, ultimissimo avanzo di un tempio pagano, sui resti del quale probabilmente era stata edificata la chiesa, sostava un gruppetto di tre uomini. Uno di loro indicava all’altro due grossi fori praticati alla base della colonna. Il terzo uomo se ne stava in disparte, seguendo con attenzione la conversazione degli altri due.
- …Così Sant’Ambrogio afferrò il diavolo per la coda e lo buttò fuori dalla chiesa, mandandolo a sbattere contro questa colonna, che da allora porta i segni di quella tremenda zuccata, come puoi tu stesso vedere –
L’inglese sorrise, poi domandò
- E’ incominciato tutto qui? –
- Proprio qui. Quel pomeriggio, un pomeriggio come questo, sì! Esattamente vent’anni fa. Uscivo dall’università qui vicino alquanto depresso; l’esame che avevo appena sostenuto era andato bene, ma io ero giù di corda. A ventisette anni non avevo combinato ancora niente. Mi fermai per osservare questa colonna: sentivo che stava per capitarmi qualche cosa, come se il diavolo che vi aveva lasciato le impronte, volesse comunicarmi qualcosa. In quel momento, venne alle mie spalle Marcello Geraci, uno dei più stretti collaboratori di mio fratello: mi scosse dai pensieri, anzi, mi fece sussultare. Mi disse che… -
In quel momento, dalla tasca del soprabito di Gianmarco trillò il telefonino cellulare. Premette il pulsante per avviare la comunicazione, era Marcello:
- Pronto, Giamma? Domani Roberto verrà a Milano; riunione di famiglia ad Arcore. Ci sono grosse novità in preparazione, anche per te. Non posso dirti altro per telefono. Ciao –
- Ciao, Marcello. Quando chiami tu per conto di Roberto, le novità non mancano mai, in genere cambia la vita a qualche milione di persone. Staremo a vedere –
Gianmarco chiuse la comunicazione, e fissando il telefonino, disse a Morton:
- Vent’anni fa, i cellulari non esistevano ancora, ma Marcello allora, come adesso, è stato il corriere che mi riferiva le idee (o gli ordini) di mio fratello; e quello che Roberto ha in testa, prima o poi, si realizzerà, anche perché lo dovrò realizzare io. Vent’anni fa incominciò così l’età di Diana… oggi chissà! –
- Era la stessa persona che vent’anni fa ti fece sussultare venendoti alle spalle? –
- Per la precisione. Non ti sembra strana la coincidenza? –
- Da quando ti conosco, direi di no – commentò il giornalista – Tu, sei una coincidenza vivente, almeno per tutti quelli che hanno anche soltanto la ventura (o la disgrazia) di starti vicino. Parola di uno che se ne intende! –
Gianmarco ci pensò per un momento, poi ne convenne con lui.


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