RACCONTI...
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RACCONTI...
Come sapete, durante la settimana, passo uno o due pomeriggi con i nonnetti del pensionato dove mia zia fa volontariato. Io purtroppo non ho più i miei nonni, sono mancati quando ancora era piccola e forse è per questo che sto così bene con loro. Suppliscono a qualcosa che mi manca.
I miei nonnetti raccontano storie. Storie di povertà, storie piene di vissuto… quello vero… quello zzuto.
Spesso parlano in dialetto e, anche se volte faccio un po’ fatica a capirli… beh, mi piace.
Si capisce subito che loro sono la nostra storia, la nostra memoria… la nostra terra. Raccontano storie della nostra cultura contadina che ormai non esiste quasi più.
Sono fantastici… quando in mezzo al racconto ci mettono un… come chiamarlo? Intercalare… (sono veneti… è nel loro Dna…) poco prima dicono “con rispetto parlando”… e poi… “procedono”, eh eh!!
Sono così cari… loro raccontano e sanno quanto mi piace ascoltarli… lo avvertono, capite? L’ascolto è fondamentale… e si compiacciono di avere chi davvero presta loro attenzione. Quell’attenzione che molto spesso con questa vita frenetica si perde per strada. E’ bellissimo… quando raccontano, ogni tanto si fermano… mi guardano con aria interrogativa e mi chiedono: “Hai capito, K?” A volte me lo devono chiedere due volte… sono troppo presa dall’ascolto… mi piace. Adoro le loro voci. Tutte.
In particolare quella di Giuseppe… Nonno Beppe. Lui, come me, è un buon ascoltatore… ma ogni tanto si lascia andare. E racconta qualcosa di divertente… ma non sempre. Due settimane fa mi ha raccontato qualcosa… che di divertente non ha nulla ma che lo ha segnato… che segnato la sua vita. E non solo la sua.
L’ho scritto cercando di tradurre il più fedelmente possibile il suo modo di parlare… che è un mix di italiano e dialetto veronese. Quello della Lessinia. Eh, già… nonno Beppe è un mezzo (dice lui) montanaro.
Giorni fa avevamo parlato del 25 Aprile… della Liberazione e lui, facendomi l’occhiolino, mi ha detto: “Per fortuna è di Domenica quest’anno… sarò a casa con i miei nipoti e non qui a celebrare qualcosa che sono stanco di ricordare.”
Oggi gli ho portato questo “trascrizione” del suo racconto e gli ho chiesto se potevo condividerlo con voi.
Io credo fermamente che per capire bisogna conoscere… per non perdere la memoria.
“Nina va ricordata” gli ho detto.” Tu non farlo se ti fa troppo male… ma io lo farò. Con o senza il tuo permesso”. (Era una bufala… non farei mai una cosa simile… ma dovevo “scuoterlo”).
Non ha detto nulla e mi ha abbracciato: era un sì.
Davvero… credo che questo sia un buon modo per ricordare le vittime di quegli anni… per ricordare Nina e tutti gli altri… qualsiasi colore avessero.
I miei nonnetti raccontano storie. Storie di povertà, storie piene di vissuto… quello vero… quello zzuto.
Spesso parlano in dialetto e, anche se volte faccio un po’ fatica a capirli… beh, mi piace.
Si capisce subito che loro sono la nostra storia, la nostra memoria… la nostra terra. Raccontano storie della nostra cultura contadina che ormai non esiste quasi più.
Sono fantastici… quando in mezzo al racconto ci mettono un… come chiamarlo? Intercalare… (sono veneti… è nel loro Dna…) poco prima dicono “con rispetto parlando”… e poi… “procedono”, eh eh!!
Sono così cari… loro raccontano e sanno quanto mi piace ascoltarli… lo avvertono, capite? L’ascolto è fondamentale… e si compiacciono di avere chi davvero presta loro attenzione. Quell’attenzione che molto spesso con questa vita frenetica si perde per strada. E’ bellissimo… quando raccontano, ogni tanto si fermano… mi guardano con aria interrogativa e mi chiedono: “Hai capito, K?” A volte me lo devono chiedere due volte… sono troppo presa dall’ascolto… mi piace. Adoro le loro voci. Tutte.
In particolare quella di Giuseppe… Nonno Beppe. Lui, come me, è un buon ascoltatore… ma ogni tanto si lascia andare. E racconta qualcosa di divertente… ma non sempre. Due settimane fa mi ha raccontato qualcosa… che di divertente non ha nulla ma che lo ha segnato… che segnato la sua vita. E non solo la sua.
L’ho scritto cercando di tradurre il più fedelmente possibile il suo modo di parlare… che è un mix di italiano e dialetto veronese. Quello della Lessinia. Eh, già… nonno Beppe è un mezzo (dice lui) montanaro.
Giorni fa avevamo parlato del 25 Aprile… della Liberazione e lui, facendomi l’occhiolino, mi ha detto: “Per fortuna è di Domenica quest’anno… sarò a casa con i miei nipoti e non qui a celebrare qualcosa che sono stanco di ricordare.”
Oggi gli ho portato questo “trascrizione” del suo racconto e gli ho chiesto se potevo condividerlo con voi.
Io credo fermamente che per capire bisogna conoscere… per non perdere la memoria.
“Nina va ricordata” gli ho detto.” Tu non farlo se ti fa troppo male… ma io lo farò. Con o senza il tuo permesso”. (Era una bufala… non farei mai una cosa simile… ma dovevo “scuoterlo”).
Non ha detto nulla e mi ha abbracciato: era un sì.
Davvero… credo che questo sia un buon modo per ricordare le vittime di quegli anni… per ricordare Nina e tutti gli altri… qualsiasi colore avessero.
Angela- Admin
- Numero di messaggi : 801
Età : 39
Località : Benaco
Data d'iscrizione : 04.11.08
Nonno Beppe racconta: il prezzo della verità.
Saranno state le 10 del mattino.
Mia mamma era in cucina con mia nonna. Impastavano e pulivano del radicchio selvatico che io e mio nonno avevamo raccolto qualche ora prima. Io ero fuori in cortile con mio nonno che aveva appena tirato il collo ad una gallina.
Nel silenzio della montagna sentimmo l’avvicinarsi una camionetta e vidi mio nonno irrigidirsi. Scesero 4 uomini, non erano soldati ma erano armati. Mi spaventai, mi sembrarono briganti ma due ore più tardi avrei realizzato che mi ero sbagliato: erano bestie.
Uno di loro ci puntò contro il fucile, due cominciarono a perlustrare il casolare e, quello che io immaginai fosse il capo, chiese:"In quanti siete qua?" Mio nonno stava per rispondere ma, forse preso alla sprovvista per quella che sembrava essere una perlustrazione, si bloccò per qualche attimo e, dopo un cenno del capo, l’uomo con il fucile gli sparò colpendolo ad una gamba. Mio nonno cadde a terra ma non emise alcun lamento.
Ero paralizzato dalla paura ma trovai la forza di rispondere a quella domanda e dissi solo "Cinque, siamo cinque".
Subito dopo vidi mia mamma e mia nonna uscire e venire verso di noi. Mia mamma chiese : "Perché?" e mia nonna si tolse il grembiule cercando di tamponare la ferita per fermare il sangue.
Il capo non degnò mia mamma di una risposta e rivolto a me disse: "Hai detto cinque ma qui siete solo quattro." Mia mamma rispose al mio posto: "L'altra mia figlia è da mia sorella." E mia nonna aggiunse: "E' andata via ieri."
Ero stupito per come mentivano e forse fu per quello che mi scappò detto: "Nina è su a far le camere."
Mia mamma mi fulminò con lo sguardo e mia nonna abbracciò mio nonno e cominciarono a tremare.
Ancora non capivo ma realizzai più tardi cosa significò non coprire quella bugia.
Ci raggiusero gli altri due e poco dopo spinsero mia madre in casa ed io rimasi fermo. Lì, in piedi, in quel cortile solo con l'uomo con il fucile puntato contro e i miei nonni accovacciati a terra. "Se vi muovete vi ammazzo." Solo queste parole.
Ho ancora nelle orecchie le urla di mia mamma che prima li malediceva e poi chiedeva pietà ma non sentii Nina. Lei non urlò né chiese pietà. Forse aveva capito che sarebbe stato fiato sprecato.
Dopo un tempo che mi parve senza fine, uscirono e dopo aver preso zucchero, vino e dei fagioli secchi, se ne andarono. Così, senza parlare. Del resto, cosa ci sarebbe stato da dire?
Mia nonna prese in mano la situazione: mi spedì in paese a cercare il dottore e mi disse che degli altri intanto se ne sarebbe occupata lei.
Tornai nel pomeriggio con il dottore che curò la ferita del nonno ma per le “ferite” di mia sorella e di mia mamma non aveva medicine. Era in camera di Nina con mia mamma e mia nonna e gli sentii dire:"Nina, la medicina che serve è sola una: dimenticare."
Qualche giorno dopo anche il prete lo ripetè e aggiunse: "Perdonare".
Mia mamma forse ci riuscì ma Nina no. Un anno dopo mentre era a Verona a lavorare come camiciaia da una nostra parente, si gettò nell'Adige ed annegò. Era 18 aprile 1946. Aveva 16 anni.
Io non ho mai dimenticato ma con gli anni sono riuscito a perdonare quelle bestie, vittime loro stessi dell'odio e della crudeltà. Ma quello che non sono mai riuscito a perdonare è la stupidità di quel ragazzetto di 11 anni. Non credo ci riuscirò mai anche se per qualche tempo mi sono sforzato di convincermi che quello è stato il prezzo della verità. Di menzogne in quegli anni e negli anni a venire, ne ho sentite tante. Troppe.
Sono cresciuto, sono diventato un uomo, mi sono fatto una famiglia e sono invecchiato, ma non ho mai smesso di pensare a Nina che aveva perso il sorriso in quel giorno dei primi di aprile del 1945.
Questo è il mio ricordo della Liberazione, per me non è un giorno di festa ma è solo il ricordo della morte di una dei tanti innocenti di quella che è stata una guerra civile e per me, personalmente, è il triste anniversario della morte della mia Nina per la quale, come disse il dottore, non c’era la medicina.
Mia mamma era in cucina con mia nonna. Impastavano e pulivano del radicchio selvatico che io e mio nonno avevamo raccolto qualche ora prima. Io ero fuori in cortile con mio nonno che aveva appena tirato il collo ad una gallina.
Nel silenzio della montagna sentimmo l’avvicinarsi una camionetta e vidi mio nonno irrigidirsi. Scesero 4 uomini, non erano soldati ma erano armati. Mi spaventai, mi sembrarono briganti ma due ore più tardi avrei realizzato che mi ero sbagliato: erano bestie.
Uno di loro ci puntò contro il fucile, due cominciarono a perlustrare il casolare e, quello che io immaginai fosse il capo, chiese:"In quanti siete qua?" Mio nonno stava per rispondere ma, forse preso alla sprovvista per quella che sembrava essere una perlustrazione, si bloccò per qualche attimo e, dopo un cenno del capo, l’uomo con il fucile gli sparò colpendolo ad una gamba. Mio nonno cadde a terra ma non emise alcun lamento.
Ero paralizzato dalla paura ma trovai la forza di rispondere a quella domanda e dissi solo "Cinque, siamo cinque".
Subito dopo vidi mia mamma e mia nonna uscire e venire verso di noi. Mia mamma chiese : "Perché?" e mia nonna si tolse il grembiule cercando di tamponare la ferita per fermare il sangue.
Il capo non degnò mia mamma di una risposta e rivolto a me disse: "Hai detto cinque ma qui siete solo quattro." Mia mamma rispose al mio posto: "L'altra mia figlia è da mia sorella." E mia nonna aggiunse: "E' andata via ieri."
Ero stupito per come mentivano e forse fu per quello che mi scappò detto: "Nina è su a far le camere."
Mia mamma mi fulminò con lo sguardo e mia nonna abbracciò mio nonno e cominciarono a tremare.
Ancora non capivo ma realizzai più tardi cosa significò non coprire quella bugia.
Ci raggiusero gli altri due e poco dopo spinsero mia madre in casa ed io rimasi fermo. Lì, in piedi, in quel cortile solo con l'uomo con il fucile puntato contro e i miei nonni accovacciati a terra. "Se vi muovete vi ammazzo." Solo queste parole.
Ho ancora nelle orecchie le urla di mia mamma che prima li malediceva e poi chiedeva pietà ma non sentii Nina. Lei non urlò né chiese pietà. Forse aveva capito che sarebbe stato fiato sprecato.
Dopo un tempo che mi parve senza fine, uscirono e dopo aver preso zucchero, vino e dei fagioli secchi, se ne andarono. Così, senza parlare. Del resto, cosa ci sarebbe stato da dire?
Mia nonna prese in mano la situazione: mi spedì in paese a cercare il dottore e mi disse che degli altri intanto se ne sarebbe occupata lei.
Tornai nel pomeriggio con il dottore che curò la ferita del nonno ma per le “ferite” di mia sorella e di mia mamma non aveva medicine. Era in camera di Nina con mia mamma e mia nonna e gli sentii dire:"Nina, la medicina che serve è sola una: dimenticare."
Qualche giorno dopo anche il prete lo ripetè e aggiunse: "Perdonare".
Mia mamma forse ci riuscì ma Nina no. Un anno dopo mentre era a Verona a lavorare come camiciaia da una nostra parente, si gettò nell'Adige ed annegò. Era 18 aprile 1946. Aveva 16 anni.
Io non ho mai dimenticato ma con gli anni sono riuscito a perdonare quelle bestie, vittime loro stessi dell'odio e della crudeltà. Ma quello che non sono mai riuscito a perdonare è la stupidità di quel ragazzetto di 11 anni. Non credo ci riuscirò mai anche se per qualche tempo mi sono sforzato di convincermi che quello è stato il prezzo della verità. Di menzogne in quegli anni e negli anni a venire, ne ho sentite tante. Troppe.
Sono cresciuto, sono diventato un uomo, mi sono fatto una famiglia e sono invecchiato, ma non ho mai smesso di pensare a Nina che aveva perso il sorriso in quel giorno dei primi di aprile del 1945.
Questo è il mio ricordo della Liberazione, per me non è un giorno di festa ma è solo il ricordo della morte di una dei tanti innocenti di quella che è stata una guerra civile e per me, personalmente, è il triste anniversario della morte della mia Nina per la quale, come disse il dottore, non c’era la medicina.
Angela- Admin
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Data d'iscrizione : 04.11.08
Il caffè di Angela... quella vera.
Una figlia si lamentava con suo padre circa la sua vita e di come le cose le risultavano tanto difficili.
Non sapeva come fare per proseguire e credeva di darsi per vinta.
Era stanca di lottare.
Sembrava che quando risolveva un problema, ne apparisse un altro.
Suo padre, uno chef di cucina, la portò al suo posto di lavoro.
Lì, riempì tre pentole con acqua e le pose sul fuoco.
Quando l'acqua nelle tre pentole iniziò a bollire, in una collocò alcune carote, in un'altra collocò delle uova e nell'ultima collocò dei grani di caffè. Lasciò bollire l'acqua senza dire parola.
La figlia aspettò impazientemente, domandandosi cosa stesse facendo il padre....
Dopo venti minuti il padre spense il fuoco.
Tirò fuori le carote e le collocò in un piatto.
Tirò fuori le uova e le collocò in un altro piatto.
Finalmente, colò il caffè e lo mise in una scodella.
Guardando sua figlia le disse: "Cara figlia mia, carote, uova o caffè?"
La fece avvicinare e le chiese che toccasse le carote, ella lo fece e notò che erano soffici; dopo le chiese di prendere un uovo e di romperlo mentre lo tirava fuori dal guscio, osservò l'uovo sodo. Dopo le chiese che provasse a bere il caffè, ella sorrise mentre godeva del suo ricco aroma. Umilmente la figlia domandò: "Cosa significa questo, padre?"
Egli le spiegò che i tre elementi avevano affrontato la stessa avversità, "l'acqua bollente", ma avevano reagito in maniera differente.
La carota arrivò all'acqua forte, dura, superba; ma dopo essere passata per l'acqua, bollendo era diventata debole, facile da disfare. L'uovo era arrivato all'acqua fragile, il suo guscio fine proteggeva il suo interno molle, ma dopo essere stato in acqua, bollendo, il suo interno si era indurito. Invece, i grani di caffè, erano unici: dopo essere stati in acqua, bollendo, avevano cambiato l'acqua.
"Quale sei tu figlia?" le disse. "Quando l'avversità suona alla tua porta, come rispondi?"
"Sei una carota che sembra forte ma quando i problemi ed il dolore ti toccano, diventi debole e perdi la tua forza?"
"Sei un uovo che comincia con un cuore malleabile e buono di spirito, ma che dopo una morte, una separazione, un licenziamento, un ostacolo durante il tragitto, diventa duro e rigido?
Esternamente ti vedi uguale, ma dentro sei amareggiata ed aspra con uno spirito ed un cuore indurito?"
"O sei come un grano di caffè? Il caffè cambia l'acqua, l'elemento che gli causa dolore. Quando l'acqua arriva al punto di ebollizione il caffè raggiunge il suo migliore sapore."
"Se sei come il grano di caffè, quando le cose si mettono peggio, tu reagisci in forma positiva, senza lasciarti vincere, e fai si che le cose che ti succedono migliorino, che esista sempre una luce che, davanti all'avversità, illumini la tua strada e quella della gente che ti circonda".
"Per questo motivo non mancare mai di diffondere con la tua forza e la tua positività il "dolce aroma del caffè".
Non sapeva come fare per proseguire e credeva di darsi per vinta.
Era stanca di lottare.
Sembrava che quando risolveva un problema, ne apparisse un altro.
Suo padre, uno chef di cucina, la portò al suo posto di lavoro.
Lì, riempì tre pentole con acqua e le pose sul fuoco.
Quando l'acqua nelle tre pentole iniziò a bollire, in una collocò alcune carote, in un'altra collocò delle uova e nell'ultima collocò dei grani di caffè. Lasciò bollire l'acqua senza dire parola.
La figlia aspettò impazientemente, domandandosi cosa stesse facendo il padre....
Dopo venti minuti il padre spense il fuoco.
Tirò fuori le carote e le collocò in un piatto.
Tirò fuori le uova e le collocò in un altro piatto.
Finalmente, colò il caffè e lo mise in una scodella.
Guardando sua figlia le disse: "Cara figlia mia, carote, uova o caffè?"
La fece avvicinare e le chiese che toccasse le carote, ella lo fece e notò che erano soffici; dopo le chiese di prendere un uovo e di romperlo mentre lo tirava fuori dal guscio, osservò l'uovo sodo. Dopo le chiese che provasse a bere il caffè, ella sorrise mentre godeva del suo ricco aroma. Umilmente la figlia domandò: "Cosa significa questo, padre?"
Egli le spiegò che i tre elementi avevano affrontato la stessa avversità, "l'acqua bollente", ma avevano reagito in maniera differente.
La carota arrivò all'acqua forte, dura, superba; ma dopo essere passata per l'acqua, bollendo era diventata debole, facile da disfare. L'uovo era arrivato all'acqua fragile, il suo guscio fine proteggeva il suo interno molle, ma dopo essere stato in acqua, bollendo, il suo interno si era indurito. Invece, i grani di caffè, erano unici: dopo essere stati in acqua, bollendo, avevano cambiato l'acqua.
"Quale sei tu figlia?" le disse. "Quando l'avversità suona alla tua porta, come rispondi?"
"Sei una carota che sembra forte ma quando i problemi ed il dolore ti toccano, diventi debole e perdi la tua forza?"
"Sei un uovo che comincia con un cuore malleabile e buono di spirito, ma che dopo una morte, una separazione, un licenziamento, un ostacolo durante il tragitto, diventa duro e rigido?
Esternamente ti vedi uguale, ma dentro sei amareggiata ed aspra con uno spirito ed un cuore indurito?"
"O sei come un grano di caffè? Il caffè cambia l'acqua, l'elemento che gli causa dolore. Quando l'acqua arriva al punto di ebollizione il caffè raggiunge il suo migliore sapore."
"Se sei come il grano di caffè, quando le cose si mettono peggio, tu reagisci in forma positiva, senza lasciarti vincere, e fai si che le cose che ti succedono migliorino, che esista sempre una luce che, davanti all'avversità, illumini la tua strada e quella della gente che ti circonda".
"Per questo motivo non mancare mai di diffondere con la tua forza e la tua positività il "dolce aroma del caffè".
Angela- Admin
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